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Speciale: Perché la Old Europe non combatte?
I Machiavelli del petrolio


Perché la diplomazia europea è più “machiavellica”? Perché i governi europei sono più propensi a trattare con i dittatori, anche se questi minacciano esplicitamente l’Europa? Il problema dell’Europa è sempre uno: lo statalismo.

Fateci caso: più uno Stato controlla l’economia, più la sua politica estera si fonda sul compromesso, anche masochista, sui doppi giochi, sulla diplomazia segreta. L’Europa a dominio socialdemocratico degli anni ’70 e ’80 trattava con i regimi arabi sponsor del terrorismo e con la stessa Unione Sovietica, nonostante le bombe arabe sugli aerei e la concentrazione di divisioni corazzate sovietiche sui nostri confini. Adesso sono soprattutto le socialdemocrazie europee e la Francia gollista (il gollismo è l’altra faccia della medaglia socialdemocratica, ma non cambia nella sostanza) a trattare maggiormente con i regimi sponsor del terrorismo. In ogni crisi, la Francia arriva a farsi portavoce degli interessi della Siria, dell’Iran, dell’Autorità Palestinese di Arafat. E’ stata soprattutto la Francia a difendere l’Iraq di Saddam Hussein durante la crisi del Golfo. Ma perché? Forse che il terrorismo non minaccia anche la stessa Francia? E quella petroliera francese affondata al largo dello Yemen? E l’esplosione di una fabbrica chimica a Tolosa? La Francia tende a nascondere (come nel caso di Tolosa) o a minimizzare (come nel caso della petroliera) questi eventi e va avanti imperterrita con i suoi compromessi con chi, il terrorismo, lo sponsorizza. Stessa cosa dicasi per l’Italia socialdemocratica del governo dell’Ulivo, quando trattava e commerciava allegramente con Milosevic, fino al momento dell’intervento armato in Kossovo: l’affare Telekom Serbia è l’episodio più evidente di questo connubio malsano con un dittatore che, espellendo masse di profughi per destabilizzare l’intera Europa, minacciava anche la nostra stessa sicurezza.

Lo statalismo, la volontà di dirigere l’economia nel nome di principii astratti, come l’“interesse nazionale” o il “benessere collettivo”, porta inevitabilmente a una fusione fra affari privati e politica: imprenditori che si immischiano negli affari politici, capitali statali nelle imprese “private” e viceversa. Se, come nel caso dell’Europa socialdemocratica, prevalgono gli interessi privati dei grandi imprenditori, si ha una politica di tipo mercantilista, in cui lo Stato non dirige l’economia, ma si fa portavoce dei grandi imprenditori. In Italia, a partire da Mattei, sono gli imprenditori, mossi (com’è naturale) da una logica di profitto, di acquisto di maggiori risorse al prezzo minore, che dettano la politica estera. Dagli anni ’60 in poi, non è solo una provocazione sostenere che il ministro degli esteri italiano è sempre stato Agnelli. La logica del profitto, in molti casi, confligge con la sicurezza militare. Se un imprenditore trova che comprare il petrolio in un Iran totalitario, costruire auto e importare gas dall’Unione Sovietica o dalla Libia costa meno, ovviamente, tenderà a spostare lì i suoi interessi. Indipendentemente dal fatto che, dietro a quel petrolio, dietro a quel gas, dietro a quelle fabbriche dove il lavoro costa meno, vi sono regimi che, nel lungo periodo, minacciano direttamente la sua stessa vita e la vita dei suoi concittadini. Tutto ciò è pressoché inevitabile in una logica imprenditoriale. Quel che non è naturale (ed è quello che accade quotidianamente nell’Europa socialdemocratica) è che l’imprenditore pieghi la diplomazia del suo Paese alle sue esigenze. Così, se, per esempio, l’imprenditore in questione vuole acquistare petrolio a basso costo in Iran, costringe il governo ad essere amico dell’Iran, per garantire più continuità ai suoi affari. Se un imprenditore vuole importare gas a basso costo dall’Unione Sovietica, costringe il suo governo ad essere amico dell’Unione Sovietica. Costringe o detta direttamente la sua volontà, in Paesi in cui politica ed economia, appunto, sono gestite dagli stessi uomini. E qui incomincia la malattia della diplomazia europea: nella logica degli “affari prima di tutto”, non si distinguono più gli amici dai nemici. Se il partner commerciale si comporta male, minaccia militarmente, appoggia i terroristi, la risposta è “stare al gioco”, giungere al compromesso, sperando che gli affari vadano avanti a tutti i costi. La Libia, da cui compriamo il gas, ci tira un missile? “ma sì… sono nervosi, ma l’importante è continuare a comprare il loro gas”. L’Urss sta per invaderci e accumula risorse militari per schiacciarci? “ma sì, tutto si può accomodare: l’importante è essere pragmatici, continuare a investire in Russia…” In Europa si continua a ragionare così: con la Libia, con la Siria, con l’Iran, prima della loro caduta con l’Iraq di Saddam, con la Serbia di Milosevic… Se il partner d’affari diventa dichiaratamente un nemico, i governi tendono a continuare, comunque, i rapporti, anche agendo sotterraneamente, all’insaputa degli elettori e degli alleati. E’ per questo che in Europa la diplomazia segreta esiste ancora e ci si aspetta che prima o poi saltino fuori migliaia di documenti compromettenti a testimonianza dei rapporti segreti intrattenuti con l’Urss e con i dittatori arabi, dai vari Andreotti, Giscard, Brandt…

La cura proposta dai conservatori e dei comunisti, è ancor peggiore di questa malattia. Perché sia i conservatori che i comunisti identificano, in questa malattia, il “liberismo”. E sbagliano diagnosi. La cultura dominante in tutta Europa (una cultura socialista, comune alla destra come alla sinistra) sbaglia a identificare nel “liberismo” o nel “libero mercato” rispettivamente la filosofia e il sistema che giustificano gli interessi dei grandi imprenditori. Un imprenditore che detta la sua volontà a uno Stato, non è un attore del libero mercato, non è un liberista, né un individualista, che cerca il profitto con i suoi propri mezzi e cerca di essere libero dai vincoli dello Stato. Il tipico grande imprenditore europeo è un funzionario statale, un “boiardo” di Stato. Diagnosi sbagliata, cura catastrofica: i conservatori europei e i comunisti sostengono che occorre anteporre l’interesse della Nazione o del Popolo a quella degli imprenditori, sopprimendo, di fatto, la logica del mercato e chiedendo ancora più interventismo statale di quanto non ci sia già adesso. In Italia (dove sembra che la sinistra post-comunista sia diventata la miglior rappresentante degli interessi dei grandi imprenditori) è una tesi che si sente ripetere spesso soprattutto negli ambienti di Alleanza Nazionale e della destra conservatrice: la Politica, l’Interesse Nazionale, contro gli interessi (sempre viscidi, ovviamente) degli imprenditori. Se la loro logica dovesse avere successo? Non cambierebbe nulla. Anzi: sarebbe peggio. I politici mirerebbero a fare affari direttamente loro, senza passare dalla volontà dei grandi imprenditori. Con un controllo totale sull’economia, i politici si troverebbero ad amministrare direttamente una grande azienda-Stato (come era l’Urss e come sono tutti i regimi totalitari), che mira a realizzare profitti come un’azienda privata, ma che in più, dispone di grandi risorse pubbliche di violenza. Le esigenze dell’economia incomincerebbero ad essere sostituite dalle esigenze nazionali. Dove investire? Cosa comprare? Per cosa spendere? Tutte queste scelte, normalmente determinate da una massa fluida di consumatori, alla ricerca del loro maggior benessere, sarebbero prese da una ristretta élite di politici, lontani dalle esigenze quotidiane della gente. A meno che non si creda che i politici, solo perché sono politici, dispongano di conoscenze superiori alla media e possano decidere che cosa va bene e cosa va male per tutti noi, un governo che si metta in testa di dirigere l’economia di un Paese, finirebbe per perdere il controllo della stessa. Avremmo, in breve, un’economia che non corrisponde più alle nostre esigenze di benessere quotidiano, fallimentare. E poi l’uso della forza diverrebbe molto più frequente, quantomeno molto più probabile. Manca una risorsa naturale indispensabile, che invece si trova in un altro Paese? Si conquista quel Paese o per lo meno lo si intimidisce, per comprare quelle risorse a basso costo. Manca uno sbocco sul mare? Lo si occupa militarmente. Un contraente non ha rispettato i patti? Si muove l’esercito. La forza diverrebbe un surrogato dell’economia, una panacea, illusoria, di qualsiasi insuccesso imprenditoriale. La politica degli attuali regimi totalitari si fonda su questi presupposti.

Si può parlare di un’alternativa liberale, sia al mercantilismo, sia al totalitarismo? La soluzione ideale è separare lo Stato dall’economia. Liberi imprenditori in libero Stato. Non si può impedire a un imprenditore di fare affari per realizzare profitti. Ne va della libertà e del benessere di tutti, sfruttando le sue, particolari conoscenze nel campo in cui lavora. Dall’altra parte non si può permettere a pochi imprenditori di minare la sicurezza di milioni di cittadini e contribuenti nel nome dei loro interessi privati. Lo Stato deve essere limitato al suo ruolo originario, l’unico per cui è legittimo pagare le tasse: funzionare come un’agenzia di protezione. Agire solo nel nome della sicurezza di chi paga le tasse per essere protetto, garantendo l’ordine pubblico all’interno dei suoi confini e garantendo la miglior difesa militare possibile dei confini stessi. Il ministero degli esteri deve svolgere l’unico compito che gli è stato affidato in origine: trovare alleati e identificare i nemici, non occuparsi di partner commerciali.  Non è un caso che, nelle democrazie occidentali, la diplomazia dei governi meno statalisti in economia, sia anche più attenta alla difesa, più lineare nel separare gli alleati dai nemici, meno segreta e, soprattutto, meno contorta.

Un’obiezione a questa alternativa è che si tratti solo di un’utopia. “Non è possibile separare lo Stato dall’economia” dicono gli scettici, “qualsiasi sistema politico si proponga ci sarà sempre una fusione fra Stato ed economia”. In caso di dittatura, sarà il dittatore a voler controllare l’economia. In caso di democrazia, saranno gli imprenditori a voler controllare la politica dello Stato. Solita visione marxista della democrazia come schermo ufficiale degli interessi della borghesia? Visione falsa, perché la democrazia è quel meccanismo che permette alla maggioranza della popolazione di sostituire pacificamente un governo, se questo non garantisce bene gli interessi degli elettori. E c’è da pensare proprio che alla maggioranza degli elettori interessi maggiormente la tutela della propria sicurezza, piuttosto che la tutela degli interessi di pochi, irraggiungibili, boiardi di Stato. Sono semmai i nostri politici europei, quasi tutti condizionati da una visione distorta della democrazia, a dar retta a pochi potentati e “camarille”, piuttosto che alla maggioranza della gente che li ha eletti. Ma questo anche perché, con uno Stato così massicciamente presente nella vita economica, i rapporti di forza fra minoranze e maggioranze di invertono e la democrazia ne rimane, inevitabilmente, vittima. La democrazia, la vera democrazia liberale, dunque, non è un ostacolo alla realizzazione dell’alternativa liberale, ma una grande opportunità. I liberali non devono far altro che diffondere maggiormente le loro idee fra gli elettori, far capire loro che uno Stato minimo, oltre a costare molto meno in termini di tasse, può essere la miglior garanzia per la loro sicurezza.


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