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Abolizione dell'art.18: scelta efficientistica o battaglia di libertà?


E' sintomo della povertà del dibattito politico e culturale italiano il fatto che praticamente tutte le critiche al "Patto con l'Italia" che il governo Berlusconi ha concordato con due dei maggiori sindacati siano state critiche "da sinistra".

Al di là della propaganda progressista secondo cui le politiche sul lavoro della maggioranza sarebbero ultraliberiste, la piattaforma del governo ci appare ben lungi dal rappresentare una svolta in senso liberale e capitalista.
La verità è che il dibattito politico nel nostro paese ci sembra particolarmente squilibrato. Da un lato troviamo un Cofferati che rappresenta in modo coerente e ben argomentato una prospettiva ideologica socialista. Dall'altra invece troviamo un Maroni che tutto rappresenta meno che il capitalismo. Sostenitore ad oltranza della concertazione e della compartecipazione dei dipendenti alle decisioni delle aziende, il ministro del lavoro è sembrato in più occasioni persino considerare con un certo fastidio la necessità di porre mano all'art. 18.

E' triste vedere che non c'è alcuna menzione, nella strategia sul lavoro dell'attuale maggioranza, alle ragioni morali che rendono la liberalizzazione del mercato del lavoro una battaglia di libertà.
I rapporti umani o sono consensuali o sono coercitivi. O si basano sullo scambio volontario per il beneficio di entrambe le parti oppure si basano sull'uso della forza attraverso il quale una parte obbliga l'altra ad una relazione non libera. Non è data una terza possibilità. Proibire ad un datore di lavoro di terminare il proprio rapporto con un dipendente del quale ritiene di non avere più bisogno significa obbligarlo a cedere a quest'ultimo una parte del suo denaro, cioè della sua legittima proprietà. Significa cioè legalizzare una forma di estorsione.

Il governo, tuttavia, ben si guarda dall'affrontare il problema sotto questa luce e preferisce giocare la campagna tutta in difesa rassicurando gli elettori sul fatto che il "Patto per l'Italia" non prevede alcuna liberalizzazione dei licenziamenti.
Ma in questo modo, svuotando il dibattito sull'art. 18 della difesa del diritto alla libertà di licenziare, si svuota la proposta di riforma della Casa della Libertà di qualsiasi valenza ideologica.
Del resto il ministro dell'economia Tremonti ha più volte ripetuto - anche quando si schierò contro il referendum radicale del 2000 - di essere "a favore della libertà di assumere" ma "contro la libertà di licenziare".
Nel momento in cui l'attuale governo riconosce quindi come sacrosanto il principio che sta alla base delle rivendicazioni di Cofferati, cioè che gli imprenditori non hanno il diritto soggettivo a licenziare dei dipendenti (e che alcune persone hanno il dovere di mantenere altre persone contro la propria volontà), allora risulta molto difficile potere contestare le argomentazioni che Cofferati porta contro qualsiasi modifica all'art.18
Evidentemente non ci sono più spazi per una difesa morale delle riforme basate sui principi del diritto di proprietà, della libertà contrattuale e della libertà di associazione (inclusiva della libertà negativa di associazione).
Può restare in piedi tutt'al più una mera difesa "efficientistica" del "Patto per l'Italia". Si può cercare di sostenere che si tratta di un utile "esperimento" (del resto è quello che ha detto il governo: un esperimento di quattro anni... poi si tireranno le somme). Si può cercare di sostenere - ed è quello che Tremonti e Maroni hanno più volte affermato - che porterà ad un significativo incremento occupazionale.
Ma se così non fosse? Se per una congiuntura negativa generale l'aumento dei posti di lavoro non si dovesse verificare? In tal caso evidentemente la sinistra avrebbe buon gioco nel sostenere che "l'esperimento è fallito".

L'avere rinunciato a portare lo scontro sul terreno delle idee e quindi l'avere consegnato "la battaglia di principio" alla sinistra cofferatiana ha conseguenze nefaste già tangibili sul piano culturale: le proposte di riforma della della CDL, anziché vincere sezioni sempre più ampie dell'elettorato alla causa della liberalizzazione del mercato del lavoro, hanno rinsaldato il socialismo culturale nel nostro paese come testimonia anche la massiccia adesione al recente sciopero generale.

A rendere particolarmente debole l'impatto politico del "Patto con l'Italia" è per di più il fatto che il governo ha cercato costantemente l'accordo con i sindacati, raggiungendolo a pieno con 2 dei 3 sindacati confederali. In tal modo il governo ha dimostrato di riconoscere che una riforma non può avvenire senza un consenso del sindacato o almeno di parte significativa di esso.
Dell'accordo con CISL e UIL fanno parte tra l'altro anche una serie di "interventi compensativi" per la piccola riforma sull'art.18, come ad esempio il rafforzarsi della rete di sussidi e di "ammortizzatori sociali". L'approvazione di queste "compensazioni" dimostra anche qui come il governo sottoscriva in pieno i princìpi dei sindacati e sia il primo a ritenere di stare violando con la sua riforma i "diritti dei lavoratori", ragion per cui si sente in dovere di "compensare" i lavoratori con altre "più moderne" forme di tutela.

In definitiva è sbagliato ritenere che il dibattito tra questo governo e Cofferati rappresenti il dibattito tra i sostenitori di una proposta liberale ed i sostenitori del socialismo. Più semplicemente purtroppo verte sulla determinazione di quale tra due possibili set di ricette socialiste sul lavoro sia più "efficiente".

Emerge dunque la necessità di offrire a questo paese un serio dibattito ideologico. Gli italiani devono sapere che esiste un'alternativa radicale alle varie proposte stataliste "più o meno efficienti". Questa alternativa radicale è il capitalismo.


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