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L’assetto post-bellico che ci piacerebbe

Speriamo, prima di tutto che la guerra venga vinta. E in fretta anche.

La prima cosa da fare, dopo un’eventuale vittoria e dopo il pagamento delle riparazioni di guerra da parte degli Irakeni, deve essere lo smantellamento della rete terroristica basata in Iraq e nei Paesi confinanti. Speriamo, insomma, che l’Iraq diventi una grande base operativa della guerra contro il terrorismo, da cui si possa combattere (per lo meno intimidire) altri tre grandi sponsor del terrorismo islamico: la Palestina di Arafat, la Siria di Assad e l’Iran di Khamenei. E’ molto probabile che, nel prossimo futuro, si rendano necessari attacchi preventivi contro questi Paesi per proteggere la nostra sicurezza. L’Iraq potrebbe servire anche come base di appoggio, o rifugio sicuro, per tutti quei dissidenti iraniani che combattono la nostra stessa guerra contro l’integralismo islamico. Per questo riteniamo che sia di primaria importanza, dopo la fine della guerra, costituire basi militari americane ed europee in Iraq, anche permanenti.

Dopo un’eventuale vittoria, ci piacerebbe vedere un Iraq libero. Iraq libero non vuol dire né un Iraq indipendente, né un Iraq unito: vuol dire riconoscimento dei diritti individuali di circa 25 milioni di individui che vivono, attualmente, entro i suoi confini. Se per questo occorrerà un protettorato militare straniero, ben venga il protettorato. Se sarà necessario dividere l’Iraq attuale in tre Stati (uno curdo, uno sunnita e uno sciita), ben venga la spartizione. La Turchia, in questo caso, non ha alcun diritto di reclamare per sé una parte di Iraq, né ha il diritto di protestare contro un Kurdistan indipendente e democratico. Se una soluzione federale e democratica sarà sufficiente per liberare il popolo irakeno, allora ben venga la soluzione federale e democratica, ma in caso contrario dovrà rendersi necessaria la tripartizione dell’Iraq o anche un protettorato straniero, anche solo provvisorio, su tutto il territorio irakeno.

Un Iraq libero (o tre Iraq liberi), con nuove istituzioni democratiche e una costituzione liberale, sarà sicuramente un soggetto più impermeabile al terrorismo islamico, più sicuro per noi europei e occidentali in generale, più facile da avere come futuro amico che non come nemico.
Sarebbe bene liberare la popolazione irakena di tutte la propaganda che ha dovuto imparare nelle scuole e nei media di regime. Riteniamo che uno dei compiti prioritari dei vincitori, sia quello di incoraggiare la nascita di media e scuole indipendenti. Se necessario, rivedere anche i palinsesti, il contenuto della stampa e i programmi dell’istruzione. Un popolo sistematicamente educato alla guerra, all’autosacrificio, al suicidio rituale, all’odio contro gli Ebrei e contro tutto ciò che fa parte della civiltà occidentale, non potrà mai essere un popolo amico. Non potrà nemmeno mai essere un popolo libero.

Riterremmo giusto (anche se altamente improbabile) privatizzare le risorse petrolifere irakene, al fine di ripristinare pienamente la garanzia del diritto di proprietà in Iraq. La dittatura del Partito Baath, nel corso degli anni ’60, ha sequestrato, con la forza, risorse, terreni e impianti, già regolarmente e legittimamente sfruttati e usati al meglio da compagnie private. La nazionalizzazione fu un vero e proprio furto (come tutte le nazionalizzazioni, che violano il diritto di proprietà individuale) e per di più fu effettuata nel nome di un’aberrante ideologia baathista (leggasi: nazista) mirante a costruire un impero da Gibilterra al Caucaso. La nazionalizzazione del petrolio non ha portato all’arricchimento del popolo irakeno, ma solo della ristretta cricca di potere. Basti pensare che la famiglia di Saddam Hussein preleva il 5% all’anno di tutti gli introiti petroliferi e il resto lo spende in armi, palazzi presidenziali e moschee. Peggio: Saddam ha sempre usato il petrolio come arma, minacciando, a seconda del momento, l’aumento politico dei prezzi o disastri ecologici. Riteniamo, quindi, che l’unico modo legittimo per rendere le risorse petrolifere irakene sicure e fruttuose per tutti, sia quello di privatizzarle, di venderle al miglior offerente, anche straniero. Vogliamo, insomma, che si realizzi l’incubo della nostra sinistra europea e dei regimi arabi: che questa possa diventare anche una guerra per il petrolio. Per liberare il petrolio.



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