LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XXIII

Silenziosi, soli, non più accompagnati (dai diavoli) procedevamo l’uno davanti all’altro, come i francescani camminano per la strada.

Dopo la fortissima animazione dei due canti precedenti, tutti risolti in movimento e contrapposizione di masse, l’inizio del XXIII propone il tema del silenzio e della meditazione. L’andatura lenta dei due poeti si riflette anche nella scansione ritmica del primo verso, mentre il paragone con i frati minor suggerisce l’atmosfera claustrale che caratterizzerà la bolgia degli ipocriti. Il primo verso, "grave, ci dà il senso di smarrimento e di soggezione dei due poeti di fronte al soprannaturale che li circonda" (Malagoli), il secondo ribadisce l’isolamento in cui ciascuno di loro si trova: Dante e Virgilio avanzano probabilmente anche qui, come all’inizio dei canto X, per un secreto calle, che impedisce loro di procedere affiancati.

A causa della recente zuffa il mio pensiero era rivolto alla favola di Esopo, nella quale egli narra della rana e del topo;

poiché "ora" e "adesso" non sono più uguali, di quanto non lo siano la favola e la zuffa, se si confrontano con attenzione l’inizio e la fine.

La citazione di Esopo non ha carattere dotto, ma popolare. Nel Medioevo le favole esopiche erano molto conosciute attraverso volgarizzamenti e rielaborazioni del testo latino di Fedro. La favola alla quale Dante paragona la rissa che ha avuto come protagonisti Alichino e Calcabrina narra di una rana che, per far attraversare ad un topo un corso d’acqua, lo persuase a legarsi a lei. Giunti a metà cammino, la rana cominciò ad immergersi, volendo far affogare il topo. In quell’istante sopraggiunse un nibbio, che li ghermi entrambi. Come la rana, Calcabrina era accorso in apparenza per porgere aiuto ad Alichino, in realtà per azzuffarsi con lui, e come il nibbio della favola la pece bollente aveva posto fine alla loro contesa (XXII, verso 142). "Certamente il rapporto tra la favoletta e la disavventura dei due diavoli è calzante; anzi, come avverte il Poeta, il raffronto del principio e della fine dei due casi; ma più della corrispondenza di contenuto alla fantasia dell’artista si imponeva quella storia di animali tra i meno nobili... anche nella tradizione favolistica, per la sua concordanza con la trascrizione caricaturale del mondo demoniaco attuata nei due canti precedenti." (Bonora)

E come un pensiero scaturisce all’improvviso dall’altro, così da quello ne venne fuori in un secondo tempo un altro, che raddoppiò in me la paura di prima.

La situazione drammatica prospettata dal Poeta in questo inizio di canto è soltanto immaginata. Il silenzio e la solitudine accrescono in Dante la paura. Non è tanto su questa che egli ferma la sua attenzione, quanto sulle modalità del suo determinarsi. Opportunamente osserva il Sanguineti: "Dalla intensa azione del ludo, dal suo colore aperto di spettacolo e di dramma, l’inizio del canto conduce... alle sole figure della coscienza: il dramma ora è primamente un dramma mentale". Testimonia di questa attenzione volta alle operazioni dell’intelletto, al modo in cui il pensiero prende forma e si lega ad un pensiero precedente, la precisione dei linguaggio, denunziata, fra l’altro, dal singolare impiego di avverbi altrimenti consueti come mo e íssa, da quello di sostantivi astratti, considerati nel loro distinguersi o contrapporsi reciproco (l’un con l’altro... principio e fine), e di verbi che indicano un massimo di genericità (la) o processi nei quali questo distinguersi e questo contrapporsi si fondono (s’accoppia, cui corrisponde, messa in forte rilievo dalla rima, la determinazione esatta, quantitativa, di un sentimento: fe’ doppia).

Io ragionavo in questo modo: " Costoro sono stati per causa nostra derisi con tale danno e tale scorno, che ritengo che a loro rincresca grandemente.

Se l’ira si aggiunge alla cattiveria, essi ci inseguiranno più inferociti del cane nei confronti della lepre che addenta.

Sentivo già arricciarmisi tutti i peli per lo spavento, e volgevo attento lo sguardo indietro, allorché dissi: " Maestro, se non nascondi

rapidamente te e me, io ho paura dei Malebranche: li abbiamo già alle nostre spalle: li vedo a tal punto con l’immaginazione, che già li sento (dietro di noi) ".

E Virgilio: " Se fossi uno specchio, non rifletterei più rapidamente la tua immagine esterna, di quanto ora imprimo in me la tua immagine interna.

Osservazioni, analoghe a quelle sopra riportate a proposito del linguaggio astratto e preciso con il quale Dante definisce l’insorgere in lui della paura (soltanto nell’immagine del cane che ghiermisce la lepre e in quella, immediatamente successiva, dei peli che gli si "arricciano", quasi egli fosse, come ha notato il Momigliano, un cinghiale, una selvaggina inseguita, la paura trova una sua espressione diretta) possono farsi a proposito di questa risposta di Virgilio. Scrive il Mattalia: "Nemmeno in questa circostanza Virgilio vien meno al suo stile di poeta-filosofo amante della più calibrata precisione tecnica: Dante aveva parlato di " immaginazione ", e Virgilio riprende il vocabolo risolvendolo nel significato di figura o immagine, e svolgendolo nella chiave comparativa dello specchio che riflette le immagini".

Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, col medesimo atteggiamento e con il medesimo aspetto dei miei, in modo che dagli uni e dagli altri ho tratto una sola risoluzione.

Se si dà il caso che la parete a destra abbia una così scarsa pendenza, che noi possiamo scendere nell’altra bolgia (la sesta), sfuggiremo all’inseguimento temuto ".

Non finì neppure di manifestare tale proposito, che io li vidi sopraggiungere non molto lontani da noi con le ali spiegate, per volerci ghermire. <![endif]>

Virgilio mi afferrò immediatamente, come la madre che si sveglia al frastuono, e vede accanto a sé le fiamme ardenti,

la quale afferra il figlio e fugge e, avendo più cura di lui che di se stessa, non si ferma neppure quel poco tempo necessario ad indossare una camicia;

e dalla sommità dell’argine pietroso si lasciò scivolare sul dorso lungo la parete scoscesa, che chiude uno dei lati dell’altra bolgia.

L’affetto della madre che, incurante delle fiamme, pensa soltanto a porre in salvo il figlio, è messo in forte rilievo dal susseguirsi incalzante delle coordinate. Le similitudini in Dante fanno talvolta quadro a sé. isolandosi dal contesto narrativo. "Ma non è questo il caso del paragone della madre che, pur assumendo un forte rilievo tra gli altri versi, non si stacca dal resto, non interrompe il movimento della prima parte del canto. Anzi accelera e conclude il racconto della fuga con la sua concitazione." (Bonora)

L’acqua non corse mai così velocemente attraverso un condotto per far girare la ruota di un mulino costruito sulla terraferma, nel punto in cui essa maggiormente si avvicina alle pale,

come Virgilio su quella parete dell’argine, mentre mi portava tenendomi, sul petto, come se fossi stato suo figlio, non un compagno.

Alla similitudine della madre, così ricca di contenuto umano, segue una similitudine volta a determinare soltanto la velocità con la quale Virgilio scende lungo la scarpata che porta al fondo della sesta bolgia.


In essa la tinta patetica cede momentaneamente di fronte alla nuda vìolenza della figurazione rapinosamente incisiva" (Sanguineti).

Appena i suoi piedi raggiunsero la superficie del fondo della bolgia, essi furono sulla sommità dell’argine sopra di noi; ma non vi era più motivo di temere,

poiché la divina provvidenza che volle porli quali esecutori dei suoi decreti nella quinta bolgia, toglie a tutti loro la possibilità di allontanarsi di lì.

Laggiù incontrammo una moltitudine dipinta che andava intorno con passi lentissimi, lacrimando e stanca e affranta nell’aspetto.

L’attributo dipinta, per ora non meglio specificato, si riferisce alle cappe dorate che coprono i dannati di questa bolgia: gli ipocriti. Ma, usato in questa terzina in modo assoluto, caratterizza più che altro in senso morale questi peccatori, suggerendo l’idea della falsità, dell’apparenza brillante sotto la quale si cela uno squallore profondo. Riprende, a partire da questa terzina, il motivo accennato nell’immagine dei frati minor, con la quale il canto si apre. "Ma è pur vero - scrive il Bonora - che il motivo annunziato al principio del canto, in tutta la prima parte, sino alla fuga dei due poeti, è soggetto alle complesse variazioni della situazione drammatica. All’apparire degli ipocriti invece il motivo del silenzio claustrale domina ininterrotto."

Questi dannati indossavano cappe con i cappucci abbassati davanti agli occhi, fatte nel modo in cui si fanno a Cluny per i monaci.

Esternamente sono dorate tanto da abbagliare; ma dentro sono completamente di piombo, e così pesanti, che (al confronto) Federico Il le faceva indossare di paglia.

Le cappe degli ipocriti somigliano a quelle, molto ampie, indossate dai benedettini del monastero di Cluny, in Borgogna. Il loro peso è tale - precisa il Poeta con un’iperbole che si colora di sarcasmo - che quello delle cappe di piombo fatte indossare da Federico Il ai rei di lesa maestà appare, al confronto, irrisorio.Secondo una leggenda che ebbe vasta diffusione negli ambienti guelfi l’imperatore Federico II faceva morire i colpevoli di lesa maestà sul fuoco, dopo averli fatti rivestire di cappe di piombo.La pena degli ipocriti è stata probabilmente suggerita a Dante dalla strana etimologia proposta per il termine ipocrita da Uguccione da Pisa, nelle sue Magnae Derivationes: ipocrita si dice da yper, che significa " sopra ", e da crisis, che significa " oro ", quasi " sopradorato ", poiché nella superficie e di fuori sembra buono, mentre internamente è cattivo; oppure da ypo, che significa " sotto " e da crisis che significa " oro ", quasi avente qualcosa " sotto l’oro ". Per quel che si riferisce al significato morale adombrato nel contrasto tra lo sfavillare dell’oro che ricopre le cappe degli ipocriti e l’opacità del piombo, di cui sono fatte, Dante ha probabilmente tenuto presente un passo del vangelo di Matteo (XXIII, 27-28), in cui gli Scribi e i Farisei, definiti ipocriti, sono paragonati a sepolcri imbiancati, belli esteriormente, ma pieni all’interno di ossa e di sudiciume.

Oh veste opprimente per l’eternità! Noi ci dirigemmo ancora, come al solito, verso sinistra nella stessa direzione di quei dannati, osservandone il pianto sconsolato;

ma a causa del peso quella moltitudine sfinita avanzava così lentamente, che noi avevamo nuovi compagni ad ogni passo.

Perciò dissi a Virgilio: " Cerca di trovare qualcuno che sia famoso per le sue azioni o per il suo nome, e, continuando a camminare così, volgi lo sguardo intorno a te ".

E uno, che udì il parlare toscano, gridò dietro di noi: " Fermatevi, voi che avanzate così veloci nell’aria buia!

Esatta la seguente osservazione del Biondolillo: "Il dannato, misurando le distanze alla stregua dell’estrema lentezza de’ propri movimenti... sente il bisogno di " gridare " (e l’accento percuote fortemente su gridò) quasi che essi non possano udirlo, e giudica un " correre " quello che per Dante era un " muover d’anca ", un camminare a passi lentissimi e regolari".

Forse otterrai da me quello che domandi ". Perciò Virgilio si voltò e disse: "Attendi, e poi avanza col suo passo ".

Sostai, e vidi due che, con l’espressione del volto, mostravano una grande ansia di essere con me; ma il peso e l’angusto cammino li rendevano lenti.

Quando furono arrivati, mi osservarono a lungo con sguardo obliquo senza parlare; quindi si rivolsero l’uno verso l’altro, dicendo fra loro: <![endif]>

"Questo sembra vivo dal movimento della gola (perché respira); e se invece sono morti, per quale privilegio avanzano privi della pesante cappa?"

I pesanti cappucci di piombo non consentono agli ipocriti di volgere la testa; perciò essi sono costretti, per osservare Dante che si trova al loro fianco, a guardarlo di traverso. Ma lo sguardo obliquo, non meno del loro silenzio del successivo confabulare fra loro, esprime quella che è la loro indole.

Poi mi dissero: "O Toscano, che sei giunto al raduno dei tristi ipocriti, non disdegnare di dire chi sei".

E io a costoro: " Nacqui e fui allevato nella grande città sulle rive del bel fiume Arno, e mi trovo qui col corpo che ho sempre avuto.

Ma chi siete voi, ai quali tante lagrime quante ne vedo scendono copiose lungo le gote? e quale castigo è il vostro, che brilla in tal modo? "

E uno di loro mi rispose: " Le cappe dorate sono di piombo così spesso, che i pesi fanno in tal modo gemere le loro bilance.

L’insistenza sul dato fisico, assunto nella sua evidenza più cruda, ripropone in questo canto alcune soluzioni già prospettate nel canto XVI e culmina nella similitudine che trasforma, dietro la suggestione del termine pesi, i dannati della sesta bolgia in bilance. Questa immagine richiama quella della rota (canto XVI, versi 21-24), senza tuttavia riscattarsi in una prospettiva umana.

Fummo frati Gaudenti, e bolognesi; chiamati io Catalano e questo Loderingo, e scelti entrambi dalla tua città,

come è usanza che sia scelto un uomo solo per salvaguardarne la pace; e il nostro comportamento fu tale, che le conseguenze sono ancora visibili tutt’intorno al Gardingo ".

L’ordine laico dei Cavalieri di Maria Vergine Gloriosa, detto anche dei frati Gaudenti, fu fondato a Bologna nel 1261 con lo scopo di assistere i poveri e i deboli contro le violenze dei potenti e di promuovere la pace fra i partiti e le famiglie che si contendevano il potere nelle città italiane. In origine la designazione di frati Godenti non aveva un senso dispregiativo, poiché il significato di godente era ""gioioso" di quella gioia che sta nella santità della fede, nel sacrificio di sé, nella pura e candida aspettazíone della felicità eterna e, in particolare, nella compartecipazione al mistico godimento dei sette gaudii della Vergine: l’annunciazione, la nascita di Cristo, l’adorazione dei Re Magi, la risurrezione, l’ascensione, la pentecoste, l’assunzione" (Bertoni). In seguito l’ordine degenerò e i frati Gaudenti furono soprannominati per dileggio "capponi di Cristo".
Catalano dei Catalani. appartenente alla famiglia guelfa dei Malavolti, e Loderingo, della famiglia ghibellina degli Andalò. nacquero entrambi a Bologna intorno al 1210. Furono tra i fondatori dell’ordine dei frati Gaudenti. A Firenze, dove furono chiamati nel 1266 per fare opera di conciliazione fra i partiti, favorirono i Guelfi, che, poco dopo la fine del loro governo, cacciarono dalla città i Ghibellini e rasero al suolo le dimore degli Uberti, situate nei pressi della località chiamata Gardingo. Secondo il Villani, i due frati Gaudenti "sotto coverto di falsa ipocrisia furono in concordia più al guadagno loro proprio che al bene comune" (Cronaca VII, 13). Morirono in un monastero dell’ordine da loro fondato, Catalano nel 1285 e Loderingo nel 1293.

Cominciai a dire: " Frati, i vostri supplizi ... "; ma non aggiunsi altro, poiché mi si presentò allo sguardo uno, crocifisso in terra per mezzo di tre pali.

V. Rossi ha messo in rilievo la somiglianza tra questa apostrofe, subito interrotta, ai due frati Gaudenti ed espressioni analoghe con le quali Dante si è rivolto a Francesca (canto V, verso 116) e a Ciacco (canto VI, verso 58), sottolineando tuttavia che "qui tutto è ambiguo: l’apostrofe, che riprende la qualificazione con cui i frati si sono presentati, ma può anche celare un rinfaccio (gente di Chiesa, così ben finita!), l’espressione i vostri mali, che fa pensare al tormento (ma perché non alla colpa?), la reticenza".

Quando mi vide, si contorse tutto quanto, sospirando nel folto della barba; e frate Catalano, che si era accorto di ciò,

mi disse: " Quell’inchiodato che tu osservi, espresse ai Farisei il parere che era opportuno per il bene pubblico suppliziare un uomo.

Il crocifisso è il sommo sacerdote Caifas, che nel sinedrio dei sacerdoti e Farisei manifestò l’opinione che Cristo dovesse, per il bene comune, essere ucciso. La sua ipocrisia fu nel fatto che "invece di esprimere direttamente il suo parere, lo espresse in forma sentenziosa e generica non sicuramente interpretabile, credendo in tal modo di sottrarsi a ogni responsabilità diretta nella condanna di Cristo, e ammantandolo con la scusa del bene pubblico" (Mattalia).

E’ posto di traverso, nudo, sul cammino, come tu stesso vedi, ed è necessario che egli senta, prima che sia passato, quanto pesa chiunque passa.

E allo stesso modo soffrono in questa bolgia suo suocero, e gli altri appartenenti al concilio che per gli Ebrei rappresentò un inizio di sventure ".

Il suocero di Caifas, Anna, partecipò anch’egli alla riunione in cui venne deliberata la condanna a morte di Cristo. Da allora, secondo Dante (Purgatorio XXI, 82-84: Paradiso VI, 92-93; VII, 19-51 ), una serie di sventure si abbatté sugli Ebrei, tra cui la distruzione di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito e la dispersione del popolo ebraico nel mondo.

Allora vidi Virgilio stupirsi riguardo a colui che stava disteso in croce in modo così ignobile nel luogo dell’eterna dannazione.

La maggior parte dei commentatori spiega la meraviglia di Virgilio col fatto che, nella sua precedente discesa nel basso inferno, avvenuta prima che Cristo morisse, e della quale è fatto cenno nel canto IX (versi 22-27), Caifas e gli altri membri dei concilio non si trovavano ancora tra i dannati.
Per il Momigliano, invece, la meraviglia di Virgilio sarebbe "espressione di profonda commozione morale".

Quindi rivolse al frate queste parole: " Non vi spiaccia, se vi è permesso,. dirci se verso destra si apre un passaggio

attraverso il quale noi due possiamo uscire di qui, senza dover obbligare i diavoli a venire a toglierci da questa fossa ".

Allora rispose: " Più di quanto tu non speri è vicino un ponte che parte dalla grande parete che circonda Malebolge (dalla gran cerchia) e attraversa tutti gli spaventosi ripiani,

il quale però in questa bolgia è spezzato e non la valica: potrete salire su per le macerie (di questo ponte), che si adagiano lungo il pendio (che giace in costa) e si elevano sul fondo della bolgia ".

Virgilio restò per un po’ a testa bassa; poi disse: " Riferiva male lo stato delle cose colui che afferra con gli uncini i peccatori nella quinta bolgia ".

E il frate: " A Bologna io udii una volta menzionare molti vizi del diavolo, tra i quali appresi che egli è bugiardo, e mentitore per eccellenza ".

A Virgilio, che si meraviglia e si addolora per l’inganno di Malacoda, frate Catalano ricorda come cosa di cui ha sentito dissertare nelle scuole teologiche della dotta Bologna, una verità semplicissima: tra i vizi del diavolo c’è anche la menzogna, anzi, il diavolo è all’origine di ogni menzogna. Il commento è canzonatorio e, un pochino pungente, e scopre insieme, nell’ipocrita Catalano, una sorta d’inconscia ammirazione per i vizi del diavolo. a proposito dei quali egli possiede una particolare competenza." (Mattalia)

Dopo ciò Virgilio se ne andò a gran passi, un po’ alterato dall’ira nell’aspetto, per cui mi allontanai dagli oppressi dalle cappe

dietro le orme degli amati piedi.





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