LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXXI

« O tu che sei al di là del sacro fiume (il Letè) », rivolgendo direttamente a me le sue parole, che mi erano sembrate tanto dure pur parlandomi solo indirettamente (cfr. canto XXX, versi 103-145) ,

riprese Beatrice, aggiungendo senza indugio « di', di' se questo (di cui ti rimprovero) è vero: un'accusa tanto grave sia seguita dalla tua confessione ».

Le mie facoltà erano tanto sconvolte, che la voce si formò, ma si spense prima che fosse emessa dalla gola e dalla bocca.

(Beatrice) per un poco pazientò; poi disse: « A che cosa pensi? Rispondimi; poiché in te i tristi ricordi del peccato non sono ancora stati cancellati dall'acqua del Letè ».

Vergogna e paura mescolate insieme mi fecero uscire dalla bocca un "sì" talmente fioco, per intendere il quale furono necessari gli occhi (per indovinarlo dal moto delle labbra),

Come si spezza la balestra, quando la sua corda e l'arco scoccano con troppa tensione, e la freccia colpisce il bersaglio con minore impeto,

così scoppiai io sotto il grave peso (della vergogna e della paura), dando libero sfogo alle lagrime e ai sospiri, e la mia voce si affievolì uscendo attraverso la bocca.

Perciò Beatrice mi disse: « In mezzo ai desideri da me ispirati, che ti conducevano ad amare Dio, il bene oltre il quale non c'è cosa a cui si possa aspirare,

quali ostacoli posti di traverso sulla via o quali catene di sbarramento hai trovato, per cui tu dovessi in tal modo abbandonare la speranza di progredire (nel cammino verso Dio)?

E quali godimenti o quali guadagni ti si mostrarono nel l'aspetto degli altri beni, perché tu fossi indotto a desiderarli?»

L'espressione passeggiare anzi significa letteralmente « corteggiare ». « passeggiare davanti » alla finestra della donna amata.

Dopo aver amaramente sospirato, a stento trovai la voce per rispondere e con fatica le labbra riuscirono a tradurla in parole.

Piangendo dissi: « I beni terreni con i loro falsi allettamenti indirizzarono i miei passi (sulla via del male), non appena scomparve il vostro volto (cioè: dopo la vostra morte)».

La pausa forte - la fine del canto precedente - e il nuovo avvio del discorso - o tu che se' di là dal lume sacro - distinguono i due tempi della requisitoria di Beatrice e della confessione di Dante, legati fra loro e disposti in ordine progrediente. Il primo momento della complessa drammaturgia che occupa i canti XXX e XXXI aveva voluto, per il confronto fra il peccatore e il suo giudice, lo sfondo grandioso e solenne del dialogo con i cento... ministri e messaggier di vita etterna, il quale se da un lato mostrava la nuova dimensione sovrannaturale di Beatrice, in confronto diretto con le potenze celesti, dall'altro riduceva la figura del Poeta ad un ruolo di semplice comparsa, attenuando gli effetti drammatici che il lettore può attendere, giunto, con la confessione di Dante e la sua purificazione da ogni peccato, al "nucleo vero del Purgatorio, anzi il nucleo ed il centro di tutta la Commedia", dove "si incontrano, come in punto focale, inferno, purgatorio e paradiso" (Spoerri). Ora invece i due sono fronte a fronte, approfondendo l'una le sue accuse e l'altro il suo pentimento, in versi perentori di una costruzione solidissima, capaci di toccare un vertice di concretezza (come balestro frange... sì scoppia' io sott'esso grave carco; quai fossi attraversati o quai catene trovasti... ma quando scoppia della propria gota l'accusa del peccato... rivolge sé contra 'l taglio la rota) e un limite di astrazione (per entro i mie disiri, che ti menavano ad amar lo bene di là dal qual non è a che s'aspiri... udendo le serene...) senza alcuna frattura o incongruente cambio di registro, raccogliendo e sviluppando di slancio, nell'esordio, impulsi non esauriti nel canto precedente e accumulando una nuova carica emotiva da consegnare intatta alla parte finale del canto e a quelli seguenti. Infatti per Dante autore, la vicenda presentata nei versi 1-90 non si esaurisce nei contorni limitati di una prospettiva individuale né si sviluppa su un metro esclusivo e monocorde che esamini rigidamente un'esperienza solitaria, ma illumina tutto il dramma dell'umanità - dal peccato alla redenzione - nei suoi infiniti aspetti ed accenti, essendo la morale dantesca mai chiusa su di sé, con poche note che ritornano uguali, bensì volta ad espandersi in una visione elaborata del reale. Occorre perciò - esaminando la prima parte del canto - rilevare il valore di exemplum che essa riveste, al fine di salvare la parte finale di esso e gli ultimi due canti del Purgatorio dall'accusa di pagine nelle quali "spiegato il simbolo, la poesia muore" (Momigliano). Il Poeta non poteva eliminare dalla storia generale dell'uomo l'intervento attivo delle virtù cardinali, nel mondo greco-romano, e di quelle teologali, con l'avvento del Cristianesimo, né, tanto meno; i momenti della politica e della religione presentati - nel canto XXXII - dalle vicende particolari della Chiesa e dell'Impero. Tuttavia, consapevole egli stesso della difficoltà dell'argomento mistico e dottrinale, lo avviva con la essenzialità e l'efficacia delle immagini (si vedano, ad esempio, per la parte finale del canto XXXI, i versi 118-120, 121-123, 127-132, 144-145), conferendo ad esso un preciso valore evocativo dell'atmosfera lirico-didattica che domina queste pagine.

Ed ella: « Se tu avessi taciuto, o avessi negato i tuoi peccati, la tua colpa non sarebbe meno palese: da un tale giudice è conosciuta (cioè da Dio, a cui nulla sfugge).

Ma quando la confessione del peccato prorompe dalla bocca stessa del peccatore, nel tribunale del cielo la giustizia divina attenua la sua severità (rivolge sé contra 'I taglio la rota: la mola, che prima ha affilato la lama, gira in direzione contraria al taglio, cosicché invece di affilarla, la smussa).

Tuttavia, perché tu ora senta vergogna dei tuoi errori, e perché un'altra volta, vedendo l'allettamento dei beni terreni (udendo le serene; cfr. la nota alla terzina 19 del canto XIX), tu possa mostrarti più forte,

deponi le cause del tuo pianto (cioè la confusione e la paura: cfr. versi 13-21) ed ascolta: così potrai udire come la mia morte avrebbe, dovuto rivolgerti in dìrezione opposta a quella da te seguita (cioè verso la via del bene).

Mai la natura o l'arte ti offrirono una bellezza simile a quella delle membra in cui io fui rinchiusa (nel mondo), e che ora si disgregano sotto terra;

e se la bellezza più grande (cioè il mio corpo, che si rivelò anch'esso caduco e destinato a scomparire) venne così a mancarti a causa della mia morte, quale cosa mortale doveva poi attirarti a desiderarla?

In seguito al primo colpo ricevuto dalle realtà ingannevoli del mondo (e questo colpo, con la mia morte, ti indicò tutta la caducità terrena), avresti piuttosto dovuto sollevarti verso l'alto, seguendo me che (essendo ora solo anima) non ero più una cosa ingannevole.

Non avrebbero dovuto farti battere in basso le ali, ad aspettare altri colpi (di nuovi disinganni), né pargoletta né altre cose vane che si possono godere così brevemente.

Molteplici furono le discussioni intorno al significato di pargoletta, perché alcuni interpreti vollero vedere in questa espressione un'allusione alla pargoletta cantata nelle Rime, o a qualche altra donna amata da Dante dopo la morte di Beatrice (si pensò anche alla lucchese Gentucca, dal Poeta ricordata nel canto XXIV del Purgatorio, versi 37 sgg.). In realtà, il termine è qui sinonimo di « giovane donna » e può contenere anche un riferimento generico alla bellezza femminile.

L'uccellino nato da poco aspetta due o tre colpi (cioè due o tre insidie prima di acquistare esperienza); ma invano si tendono reti o si lanciano frecce agli uccelli adulti e quindi già esperti.

Dimostrato il valore esemplare del confronto fra Dante - il peccatore pentito- e Beatrice - la giustizia divina - si presenta indispensabile un rilievo: immesso in una solenne cornice liturgica, ricca di canti rituali (canto XXX, versi 11-12, 19-21, 83-84: canto XXXI, verso 98) , chiuso fra la prima apparizione del corteo e la sua seconda comparsa sul vasto scenario del paradiso terrestre (canto XXXII, versi 16-18), il colloquio non perde quel tono fitto, intimo e accorato che si crea fra due persone le quali, legate da un amore profondo, si incontrano dopo innumerevoli difficoltà e dopo che il loro sentimento si è trasferito su un piano di accesa spiritualità. "I versi 47-54 sono ancora una dichiarazione d'amore, e superano in ardore la Vita Nova: eppure quest'ardore è come stemperato in un sereno senso della vanità delle apparenze terrene; e la malinconica frattura del verso 51 prelude già alla fisionomia delle rime in morte di Laura. Questo inno alla bellezza terrena di Beatrice è messo in bocca di Beatrice stessa, senz'ombra di iattanza, perché quella bellezza è veduta oramai dall'altra riva, come cosa che più non la tocca: di qui la fermezza, la lucida precisione di queste parole, che in bocca di Dante suonerebbero altrimenti e turberebbero la pura, oltremondana linea della scena." (Momigliano)
Nella Vita Nova la virtù salvatrice che emanava dalla figura di Beatrice non dipendeva da una sua personale volontà, ma da una forza fisico-metafisica che la trascendeva e che Dante percepiva perché « voleva » - con lo sforzo sovrumano di tutto il suo essere - percepirla. "Con la Commedia tutto cambia: la virtù di Beatrice... è virtù sovrannaturale, Grazia di Dio... Ma tale Grazia, d'ordine sovrannaturale, non è una astratta entità: bensì un'entità incarnata. La Grazia, per raggiungere di propria iniziativa Dante, si è incarnata in Beatrice: e questa dunque non è quasi una impersonale distributrice di salvezza, ma una persona viva che porta a Dante salvezza per un preciso, personale, sofferto atto della propria volontà. Che cosa c'è stato in mezzo tra le due Beatrici? Tra la prima situata in un piano retorico-poetico, e tanto più astratta, e la seconda situata in una severa cornice teologica eppure tanto più concreta? C'è stato sopra tutto un impegno di totale concretezza; un impegno di aderenza alla realtà totale; per cui se per la Beatrice della Vita Nova Dante si accontentava di una validità poetica, per quella della Commedia Dante esige una realtà totale... Il tramite per cui Dante ha scoperta la Beatrice viva e personale della Commedia è il tramite filosofico-teologico che non gli permette più di immaginare scene di un astratto paradiso terrestre e celeste di valore retorico, ma lo impegna a sentire la concretezza di Beatrice donna, proprio perché lo impegna a sentire una realtà non più poetico-fantastica, bensì impegnativa e totale: una realtà che accetti i fatti quotidiani nel loro peso corporeo per elevarsi, al di sopra di essi, a una beatitudine non più ideale e poetica, ma reale, effettiva... (Montanari)


Come i bambini, per vergogna, se ne stanno muti con gli occhi a terra, ascoltando (il rimprovero) e riconoscendosi colpevoli e profondamente pentiti,

nello stesso atteggiamento me ne stavo io; ed ella disse: « Dal momento che ti affliggi per quello che ascolti, solleva il viso, e guardandomi la tua sofferenza diventerà più profonda ».

Un robusto cerro si svelle dalle sue radici, sia ai colpi del vento di tramontana sia a quelli del vento australe, opponendo minore resistenza

di quella che io dovetti vincere per sollevare il mento al suo comando; e quando indicò il viso per mezzo della barba, compresi chiaramente l'amarezza contenuta in quella espressione (il velen dell'argomento: Beatrice, infatti, ha voluto ricordargli, con il termine barba, che egli è ormai un uomo e come tale deve comportarsi).

La confusione e la paura oppongono a Dante, che tenta di sollevare il suo volto all'invito di Beatrice, una resistenza più dura di quella di un cerro sotto i colpi del vento che spira dalle regioni nordiche o da quelle africane.
Iarba fu il famoso re di Libia, del cui amore, non corrisposto, per Didone parla Virgilio (Eneide IV, versi 195 sgg.).


E non appena il mio volto riprese la sua posizione eretta, il mio sguardo vide che gli angeli (quelle prime creature: perché creati per primi con i cieli) avevano smesso di spargere fiori;

e i miei occhi, ancora incerti, scorsero Beatrice rivolta verso il grifone che è una sola persona in due nature.

Pur essendo velata e pur restando al di là del fiume mi sembrava superasse in bellezza quella che era un tempo in terra, più di quanto, mentre era ancora in vita, non superasse nel mondo tutte le altre donne.

In quel momento e in quel luogo la tormentosa puntura del pentimento mi trafisse così profondamente, che quella che fra tutte le altre cose più mi aveva attirato nel suo piacere, più mi divenne odiosa.

Il mio cuore fu a tal punto colpito da una così piena consapevolezza delle mie colpe, che persi conoscenza sopraffatto dal rimorso; e quale allora divenni, lo sa colei che (con i suoi duri rimproveri e la sua celestiale bellezza) fu la causa (del mio smarrimento).

Nella sacra rappresentazione del paradiso terrestre, il dramma di Dante acquista una potenza plastica non dimenticabile, sbalzato in primo piano con una veemenza che ne accerta, al di là dei risultati poetici particolari, l'assoluta spontaneità. I fremiti e le indignazioni di Beatrice e di Dante poeta davanti al male commesso da Dante individuo si acuiscono, manifestandosi e condensandosi in drammatiche e brucianti epigrafi (alza la barba; di pentèr... mi punse... l'ortica; tanta riconoscenza il cor mi morse; salsi colei che la cagion mi porse).
Nei versi 67-90 il « crescendo» di questa cronaca personale e di questa vicenda universale raggiunge il suo tono più alto e teso, in un confluire di piani attentamente studiato: Dante, cioè l'umanità pentita, percepisce la bellezza e la purezza della fede (superiori a quello che egli poteva ìmmaginare: cfr. versi 82-84), ma la possibilità della loro recezione è, nell'uomo, ancora limitata. Il « cader vinto » del peccatore pentito non è un vago ricordo di analoghe espressioni della Vita Nova e della poesia stilnovistica, ma il sofferto, e nello stesso tempo liberatore, riconoscimento della propria debolezza. L'accenno alla poesia dell'ineffabile, propria del Paradiso, che il Gallardo rileva in alcuni passi di questo canto, è sommamente evidente in questo momento, nel quale l'uomo, di fronte al sovrannaturale palesemente scoperto (le mie luci... vider Beatrice volta in su la fera), abdica ad ogni possibilità di resistenza.


Poi, quando il cuore rimise in attività le mie forze vitali, vidi china su di me la donna (Matelda) che avevo incontrato tutta sola, e diceva: « Tieniti stretto a me, tieniti stretto a me!»

Mi aveva immerso nel fiume fino al collo, e trascinandomi dietro camminava sulla superficie dell'acqua leggiera come una navicella.

Il termine scola ebbe nel volgare del '200 il significato di « piccola barca », « gondola », ma nell'uso toscano fu adoperato - e lo è tuttora - per indicare la spola o navicella che il tessitore fa scorrere sull'ordito: Dante, avrebbe potuto anche pensare a quest'ultimo significato per indicare il leggiero procedere di Matelda sull'acqua.

Quando giunsi vicino all'altra riva del Letè, si udì cantare « Aspergimi » con tale dolcezza, che non lo so ricordare, e tanto meno esprimerlo a parole.

Mentre Dante è privo di conoscenza, Matelda lo immerge nell'acqua del Letè per compiere l'ultimo rito - quello che dona l'oblio dei peccati commessi - dopo il quale il pellegrino, completata ormai la sua purificazione, diventa degno di entrare nel regno della beatitudine, al di là della beata riva.
II versetto 9 del Salmo LI è cantato "nella chiesa quando la spargono d'acqua consacrata, la quale ha possanza di cacciare gli spiriti immondi; e per ché el fiume Leté, induce oblivione dei peccati e cacciagli, però induce che gli angeli lo cantassino" (Landino).


La bella donna aprì le braccia; mi tenne stretta la testa e mi immerse nel fiume finchéì fui costretto ad inghiottire dell'acqua.

Mi tolse di lì, e ancora bagnato mi condusse nel cerchio formato dalle quattro virtù cardinali che danzavano; e ciascuna mi coperse (il capo) sollevando il braccio.

« Qui nel paradiso terrestre ci presentiamo come ninfe e nel cielo come stelle: prima che Beatrice apparisse nel mondo, fummo destinate da Dio ad essere le sue ancelle.

Le quattro virtù cardinali possono apparire, nella dolce atmosfera della divina foresta, come ninfe, abitatrici di boschi, ma questo non diminuisce la grandezza della loro realtà: esse sono le quattro stelle non viste mai fuor ch'alla prima gente (Purgatorio I, 23-24), le quattro luci sante che splendono sul volto di Catone (Purgatorio I, 37-38). Le virtù cardinali che, preesistenti al Cristianesimo, illuminarono con il loro magistero morale il mondo pagano, possono essere considerate le ancelle di Beatrice sotto un duplice punto di vista: Beatrice come donna è "regina de le virtudi" (Vita Nova X, 2) e come simbolo è la scienza della verità rivelata, la quale, lungi dal rifiutare la sapienza pagana, ne assimilò le parti migliori.
Ma il compito delle quattro virtù cardinali è limitato al raggiungimento di una perfezione morale che appartiene ancora alla terra, mentre il cammino dell'uomo cristiano si protende verso l'Assoluto. Per questo le vere mediatrici fra Dante - la creatura ormai purificata dal peccato - e Beatrice - la scienza divina - saranno le tre virtù teologali, per mezzo delle quali si perviene alla beatitudine della vita eterna.


Ti condurremo davanti al suo sguardo; ma renderanno i tuoi occhi capaci di penetrare nella luce beatifica che vi splende dentro, le tre virtù teologali che si trovano sul fianco destro del carro, le quali vedono più a fondo.»

Cosi incominciarono cantando; e poi mi guidarono davanti al petto del grifone, dove Beatrice si trovava rivolta verso di noi,

e dissero: « Guarda più attentamente che puoi (fa che le viste non risparmi) : ti abbiamo posto, davanti agli occhi splendenti dai quali un tempo Amore. lanciò i suoi dardi contro di te ».

Mille desideri più ardenti di una fiamma costrinsero i miei occhi a fissare quelli luminosi di Beatrice. che continuavano ad essere rivolti solo al grifone.

Come il sole (si riflette) in uno specchio, allo stesso modo il grifone dalle due nature si rifletteva negli occhi di Beatrice, ora con gli atti caratteristici dell'aquila, ora con quelli del leone.

Pensa, o lettore, se io non mi meravigliavo, alla vista del grifone (la cosa) che (se guardato direttamente) restava sempre identico a se stesso, mentre nell'immagine riflessa negli occhi di Beatrice si trasformava (ora nell'uno ora nell'altro dei suoi due aspetti).

Beatrice era apparsa in su la sponda del carro sinistra (canto XXX, verso 61) e in un secondo momento si era volta verso il grifone (canto XXXI, verso 80), mostrando il fianco a Dante, il quale ora viene condotto al petto del grifon (verso 113) e perciò può vedere Beatrice di fronte (stava volta a noi). Quest'ultimo fatto permette di capire il verso 126: il Poeta osserva l'immagine della doppia fiera riflessa negli occhi di Beatrice che pur sopra 'l grifone stavan saldi.
L'unione delle due nature in Cristo è indicata dall'alternarsi nella figura del grifone dei due aspetti, aquilino e leonino (verso 123), mentre i versi 124-126 vogliono rilevare come nel Cristo la duplice natura è sempre uguale a se stessa, laddove la creatura, per via razionale, non potrà mai esaurire la sua conoscenza del mistero dell'Uomo-Dio, e in Lui vedrà sempre, distinte e parallele, le due nature.


Mentre il mio animo pieno di stupore e di gioia gustava il cibo delle verità sovrannaturali che, mentre sazia, suscita nuovo desiderio di sé,

le tre virtù teologali, dimostrando nei loro atti di appartenere (rispetto a quelle cardinali) ad un ordine gerarchico più elevato, avanzarono danzando al ritmo del loro angelico canto.

Tribo deriva dal latino tribus: tribù, e quindi «ordine», «classe».
Il termine caribo nella lingua del tempo indicava la «canzone a ballo», un canto che, insieme alla musica, accompagnava e regolava la danza.


« Volgi, Beatrice, volgi i tuoi santi occhi » dicevano le parole dei loro canto « al tuo fedele che, per vederti, ha compiuto un così lungo viaggio (ha mossi passi tanti)!

Per tua graziosa concessione facci la grazia di liberare dal velo davanti a lui il tuo volto, in modo che egli possa vedere chiaramente la bellezza celestiale (seconda rispetto a quella terrena e materiale) che nascondi.»

Alcuni critici offrono della terzina 136 una diversa interpretazione: la seconda bellezza di Beatrice consisterebbe nella bocca, che Dante, guidato dalle virtù teologali, può ora contemplare, dopo aver visto, ad opera delle virtù cardinali, la prima bellezza costituita dagli occhi (verso 116).
Il Sapegno, che accetta questa seconda interpretazione, ritiene che gli occhi e la bocca di Beatrice abbiano in questo momento un sìgnìficato allegorico, per spiegare il quale ricorda un passo del Convivio (III, XV, 2): "li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapíenza sotto alcuno velamento".


O tu che rifletti la viva luce eterna di Dio, quale poeta, anche se si è consumato con tenacia nello studio della poesia (sotto l'ombra... di Parnaso: era il monte sacro ad Apollo e alle muse), o ha bevuto alla fonte Castalia (in sua cisterna: si trova sul Parnaso ed è simbolo dell'ispirazione poetica),

non sembrerebbe avere la mente impedita, se tentasse di rappresentare te, o Beatrice, quale apparisti là (nel paradiso terrestre), dove solo il cielo con la sua armonia riesce a dare una immagine adeguata della tua bellezza,

quando ti mostrasti libera da ogni velo nell'aria limpida?



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it