LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XXXII

Se i miei versi fossero aspri e striduli in misura adeguata al malvagio cerchio sopra il quale premono tutte le altre rocce,

io esprimerei più compiutamente la sostanza dei mio pensiero; ma dal momento che non dispongo di tali versi, non senza timore mi accingo a parlare;

poiché non è un’impresa da prendere alla leggiera descrivere il centro di tutto l’universo (nel sistema tolemaico il centro della terra coincide con il centro dell’universo; esso, nel mondo immaginato da Dante, è occupato da Lucifero, che si trova nel punto centrale dei nono cerchio), né tale da essere espressa da una lingua infantile

ma soccorrano il mio poetare le Muse che aiutarono Anfione a cingere Tebe di mura, in modo che le mie parole non si allontanino dalla realtà.

Accingendosi a descrivere il cerchio dei traditori (i fraudolenti contro chi si fida) il Poeta si pone il problema dei mezzi espressivi di cui dispone. Potrà il volgare, la lingua parlata da tutti, rendere in modo efficace l’orrore che si cela nel più crudele e turpe di tutti i peccati, la fredda, disumana ferocia che contraddistingue il tradimento?
Dante avverte la difficoltà di rappresentare al vivo tanto gravame di colpa, tanto sgomento di pena: è l’ultima e forse la più aspra fatica, che egli ha da superare prima di lasciar l’inferno. Sta bene il ghiaccio, per contrappasso al gelido batter di quei cuori crudeli su nel mondo, non mai avvivati da un palpito di amore; sta bene il silenzio, come indice di un dolore cupo e senza fine, così desolato e disperato da non potersi più nemmeno tradurre in parole, in lamenti, in grida; sta bene l’immobilità, che è la prova più evidente e più sconcertante della impotenza assoluta del dannato, della sovrana potenza di Dio. Ma l’uniformità del ghiaccio, il silenzio, la immobilità non fanno che accrescere la difficoltà già così grande di dover rappresentare, con parole ancor più vive e più varie delle vivissime e svariatissime usate fin qui per rappresentare la progressiva gravità delle altre colpe, il progressivo orrore delle altre pene." (Chiari)
L’invocazione alle Muse consegue naturalmente dall’asserita incapacità di affrontare con mezzi altrove sufficienti e riducibili al parlare comune il tema spaventoso della pena dei traditori e della colpa che a tale pena li ha condannati. Inoltre il ricordo di Anfione, il mitico fondatore di Tebe, al suono della cui cetra i macigni del monte Citerone, scesi a valle, si disposero gli uni sugli altri formando le mura della città, "pare particolarmente adatto non solo perché accenna ad un fatto grandioso, ma anche perché per Dante, come per Anfione si tratta di dare l’ultima mano ad un solenne edificio [la prima cantica]" (Chiari).

O anime più delle altre sciagurate che state nel luogo del quale è arduo parlare, meglio per voi se nel mondo foste state pecore o capre!

Non appena fummo in fondo al buio pozzo assai più in basso dei piedi del gigante (poiché la superficie ghiacciata di Cocito è inclinata verso il suo centro e Anteo ha deposto i due pellegrini ad una certa distanza da sé, questi si trovano in un luogo più basso di quello ove il gigante poggia i piedi), e io guardavo ancora l’alta parete (del pozzo),

udii dirmi: " Fai attenzione a come cammini; avanza, in modo da non calpestare con i piedi le teste degli infelici fratelli doloranti (di noi, che fummo uomini come te, e quindi siamo tuoi fratelli) ".

Perciò mi volsi, e vidi stendersi davanti a me e sotto i miei piedi un lago che sembrava di vetro e non d’acqua.

Il Danubio in Austria (la Danoia in Osterlicchi), o il Don sotto il freddo cielo boreale non formano durante l’inverno una crosta di ghiaccio così spessa, sullo scorrere delle loro acque,

come quella che si trovava in quel posto; infatti se il monte Tambura, o la Pania della Croce (due montagne delle Alpi Apuane) vi fossero caduti sopra, non avrebbe scricchiolato nemmeno dalla parte dei margine (dove lo spessore del ghiaccio è minore).

Il cupo paesaggio, reso più desolato dall’espressione indeterminata là sotto il freddo cielo (nessuno spazio viene in essa circoscritto, come accadeva per Osterlicchi; le acque del Don si irrigidiscono in uno spazio sconfinato, del quale il solo cielo invernale può riprodurre la monotona, angosciosa sterilità), e gli immani cataclismi geologici, evocati nelle terzine 25 e 28, sono stati giudicati da alcuni critici (Momigliano, Chiari) più come una prova di abilítà nell’uso delle rime aspre e chiocce che come poesia. Questi critici sono stati sfavorevolmente impressionati dall’uso della rima, volutamente disarmonica e scostante, in " icchi " ("una bizzarrìa puerile che impoverisce lo spettacolo", secondo il Momigliano). Con assai maggior finezza commenta questo passo il Grabher: "ecco allora quel Dante, che in una biblica invocazione vorrebbe far muovere la Capraia e la Gorgona [canto XXXIII, verso 82], ricorrere anche qui ad un’immagine gigantesca per cui vediamo intere montagne ipoteticamente lanciate su quella incrollabile ghiaccia che - si noti il contrasto tra tanto sforzo di natura e l’infinitesimo effetto - non avrebbe fatto sentire il minimo scricchiolio della minima incrinatura".

E come la rana sta a gracidare col muso fuori dell’acqua, nel periodo estivo, quando la contadina sogna spesso di raccogliere il grano,

allo stesso modo, livide, le ombre dei dannati erano confitte nel ghiaccio fino al punto nel quale la vergogna si manifesta (solo il viso sporgeva cioè dalla superficie ghiacciata), emettendo, col battere dei denti, un suono simile a quello prodotto dalle cicogne.

Secondo il Mattalia la scelta del termine vergogna è, nel verso 34, intenzionale e "sottintende idea di negazione: poiché il rosso è anche il colore dell’amore, oltre che della vergogna, e né l’uno né l’altro sentimento è pensabile come esistente nell’animo di un uomo capace di tradire un congiunto, reato spiegabile e concepibile solo colla più gelida obduratio cordis, il cui espiatorio equivalente è il ghiaccio in cui i dannati stanno confitti". Per quel che riguarda il paragone della rana esso - scrive il Grabher - secondo il valore che Dante conferisce a simili richiami animaleschi... riflette sulla degradazione di questi peccatori un particolare senso di miseria, in cui un lampo di grottesco è subito raffrenato e soverchiato da tocchi di squallida tristezza: livide... dolenti; e quei denti che il freddo fa battere in perpetuo".

Ognuna teneva il volto abbassato: in loro il freddo è attestato dalla bocca (attraverso il battere dei denti), e il dolore dagli occhi.

Dopo essermi alquanto guardato intorno, rivolsi lo sguardo ai miei piedi, e vidi due così vicini, che avevano i capelli mescolati insieme.

" Ditemi, voi che così strettamente siete abbracciati ", dissi, " chi siete? " E quelli alzarono la testa; e dopo che ebbero levato lo sguardo verso di me,

i loro occhi, che prima erano bagnati dalle lagrime soltanto all’interno, le lasciarono cadere fino alle labbra, e il gelo le trasformò in ghiaccio fra loro e li strinse l’uno all’altro.

Una spranga di ferro non tenne mai così fortemente unito un pezzo di legno ad un altro pezzo di legno; per cui essi come due arieti cozzarono l’uno contro l’altro, tanta fu l’ira che li sopraffece.

Come altrove, anche qui la pena dei peccatori viene presentata attraverso un’immagine tratta dal mondo delle attività manuali, nelle quali più evidentemente si manifesta la signoria che l’uomo acquista sulla natura attraverso il lavoro. I dannati vengono in tal modo degradati a strumenti, a oggetti privi di anima e di volontà. In particolare l’immagine del verso 49, "che pone in tutta luce la rapidità ed imprevedibilità del fatto, e la forza di questo legame, di questa spranga, è puramente fisica, ma ben vale a rendere ragione dell’impotenza e dell’odio rabbioso che spinge i due a cozzare insieme, nello sforzo per liberarsi, come due caproni, cioè battendo insieme le teste. Anche questa scena... che esclude anche l’ironia frequente in altri episodi, come esclude ogni senso di pietà, è nel clima di questo canto, di furore e di odio" (Gallardo).

Ed uno di loro che a causa del freddo aveva perduto entrambi gli orecchi, continuando a tenere il viso abbassato, disse: " Perché ci fissi tanto intensamente ?

Se vuoi apprendere chi sono questi due, sappi che la valle attraverso la quale scende il fiume Bisenzio appartenne al loro padre Alberto ed a loro.

I due dannati che hanno cozzato l’uno contro l’altro come due becchi sono Alessandro e Napoleone, figli di Alberto degli Alberti dei conti di Mangona, proprietari di diversi castelli nella Val di Sieve e nella Val di Bisenzio. Guelfo il primo e ghibellino il secondo, venuti a dissidio anche per motivi di interessi si uccisero l’un l’altro tra il 1282 e il 1286.

Furono generati da una medesima madre; e potrai cercare per tutta la Caina, senza trovare un dannato più meritevole di essere confitto nel ghiaccio;

La Caina è la prima delle quattro sezioni circolari in cui è diviso il nono cerchio. Prende nome da Caino, che uccise il fratello Abele; in essa sono puniti i traditori dei parenti.

non colui del quale, per mano di Artù, il petto e l’ombra furono trafitti da un solo colpo di lancia; non Focaccia; non costui che mi ostruisce

la vista con la sua testa, in modo che io non riesco a vedere più in là, ed ebbe nome Sassolo Mascheroni: se sei toscano, sai bene ormai di chi parlo.

Quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra è un personaggio del ciclo di leggende medievali noto come il ciclo di re Artù, Mordret, flglio (o nipote) di Artù, il quale avendo tentato di uccidere il re, fu da costui trafitto con la lancia "e al trarre della lancia il sole passò per la ferita, sì che ivi si ruppe l’ombra del corpo" (Anonimo Fiorentino).

Focaccia è il soprannome del pistoiese di parte bianca Vanni dei Cancellieri, reo di aver ucciso proditoriamente il cugino Detto dei Cancellieri.

Il fiorentino Sassolo Mascheroni uccise, secondo quanto narra l’Anonimo Fiorentino, un suo cugino in giovane età, per impadronirsi delle ricchezze che costui aveva ereditato.

E perché tu non mi faccia più oltre parlare, sappi che fui Camicione dei Pazzi; e aspetto Carlino che mi faccia apparire meno colpevole ".

Alberto Camicione dei Pazzi di Valdarno si trova fra i traditori per aver ucciso, al fine di impossessarsi di alcune fortezze che aveva con lui in comune, un suo congiunto. Egli preannuncia la condanna nel nono cerchio di Carlino dei Pazzi di Valdarno, reo di un tradimento assai più infamante del suo: nel 1302 infatti Carlino dei Pazzi cedette ai Neri di Firenze il castello di Piantravigne, nel quale molti esuli Bianchi avevano trovato ospitalità.

Poi vidi un’infinità di volti resi paonazzi dal freddo; per cui sento un brivido, e lo sentirò sempre, al pensiero degli stagni ghiacciati.

E mentre avanzavamo in direzione del centro (della terra e dell’universo) verso il quale ogni peso converge, e io tremavo nella gelida ombra eterna,

se lo feci deliberatamente o per volontà di Dio o per caso, non so; ma, mentre passeggiavo fra le teste, colpii violentemente col piede una di queste nel volto.

Dante rivela qui per la prima volta - nota giustamente il Gallardo - "il deliberato proposito suo di offendere un dannato... Dimenticata appare qui la pietà, o perplessità, che accompagna spesso l’assenso di Dante alla durezza della giustizia divina".
Il Sapegno rileva come l’episodio che qui inizia sia "tra le pagine più sconcertanti di tutto il poema, non tanto perché il Poeta vi lasci trasparire un fondo istintivo, come si dice, di medievale ferocia, quanto perché in nessun luogo forse, come qui, egli sottolinea con maggior energia quella coincidenza piena fra la sua "vendetta " e il suo personale senso della giustizia e la terribil arte della vindice giustizia divina".

Piangendo mi rimproverò: " Perché mi percuoti? se tu non vieni ad accrescere la punizione assegnatami a causa di Montaperti, perché mi tormenti? "

Il dannato che Dante ha percosso col piede è il guelfo fiorentino Bocca degli Abati. Alla battaglia di Montaperti tagliò con la spada la mano del porta insegna della cavalleria fiorentina, Jacopo Nacca dei Pazzi, contribuendo in tal modo alla sconfitta dei suoi concittadini.

Ed io: "Maestro, aspettami ora qui, in modo che io chiarisca un mio dubbio per mezzo di costui; poi mi farai affrettare quanto vorrai ".

Virgilio si fermò, e io dissi a quello che continuava ad imprecare aspramente: "Chi sei tu che mi rimproveri in modo così violento? "

" Di’ tu piuttosto chi sei che cammini per l’Antenora colpendo " rispose "le guance a me, in modo che, se io fossi vivo, la tua sarebbe un’offesa troppo grave (cioè: saprei vendicarmi)? ".

L’Antenora è la zona di Cocito assegnata ai traditori della patria. Prende nome dal principe troiano Antenore, ritenuto nel Medioevo traditore della sua città per aver consegnato ai Greci il Palladio ed aver aperto le porte del cavallo di legno in cui erano nascosti i guerrieri achei.

" Son io che sono vivo, e ti può essere gradito " risposi, " se desideri fama, che io registri il tuo nome tra le altre cose che ricorderò. "

Ed egli: " Desidero proprio l’opposto; va via di qua e non mi dare più fastidio, perché senza risultato usi le tue lusinghe in questa bassura! "

Allora lo afferrai per la collottola, e dissi: " Occorrerà che tu dica il tuo nome, o che nemmeno un capello rimanga sulla tua testa".

Per cui egli: "Per il fatto che tu mi strappi i capelli, né ti dirò chi sono, né te lo rivelerò, se anche tu mi cada sulla testa mille volte ".

Nella violenza con la quale Bocca rifiuta di dichiarare il suo nome è la coscienza del male da lui compiuto. A consapevolezza non si accompagna tuttavia il rimorso (Farinata aveva invece esordito pensosamente: alla qual forse fui troppo molesto) o la vergogna (Vanni Fucci arrossisce, vedendosi scoperto fra i ladri). Nell’animo di Bocca c’è posto soltanto per l’ostinazione e il rifiuto. Il gesto brutale di Dante risulta così in parte giustificato.

lo avevo già afferrato e attorcigliato i suoi capelli, e gliene avevo strappati più di una ciocca, mentre egli latrava con gli occhi ostinatamente volti in basso,

allorché un altro gridò: " Che ti prende, Bocca? non ti basta battere i denti? hai bisogno anche di latrare? quale diavolo ha messo la mano su di te? "

" Ormai " dissi " non ho più bisogno che tu parli, perverso traditore; ìnfatti, per aumenta. re la tua vergogna, io porterò notizie vere sul tuo conto. "

" Vattene " rispose, " e racconta ciò che vuoi; ma non tralasciare, se potrai uscire di qui, di menzionare colui che poco fa è stato così pronto a parlare.

Egli è punito qui per il denaro ricevuto dai Francesi: "Io vidi" potrai dire "quello di Dovera là dove i dannati soffrono il freddo ".

Bocca degli Abati si vendica del suo denunciatore denunciandolo a sua volta, E’ il cremonese Buoso di Dovera o Dovara, che tradì per denaro il suo partito, allorché, posto al comando (nel 1265) di un esercito ghibellino, non oppose resistenza all’avanzata dell’esercito quello di Carlo di Angió.

Se ti venisse chiesto "Chi altro c’era?", sappi che accanto a te si trova quello dei Beccaria al quale Firenze tagliò il collo.

L’abate di Vallombrosa Tesauro dei Beccaria, legato pontificio in Toscana, fu processato nel 1258 dai Fiorentini sotto l’imputazione di essersi accordato con i fuorusciti ghibellini per tradire la parte guelfa e fu decapitato.

Credo che più in là sì trovi Gianni dei Soldanieri con Gano e Tebaldello, che aprì le porte di Faenza di notte. "

Il fiorentino Gianni dei Soldanieri, appartenente ad una nobile famiglia ghibellina, tradì nel 1266 il suo partito guidando una rivolta popolare guelfa che pose fine alla podesteria dei frati Gaudenti Catalano e Loderingo (cfr. canto XXIII, versi 103-108).
Gano di Maganza, uno dei protagonisti della Chanson de Roland, messosi d’accordo con i Saraceni, provocò la disfatta di Roncisvalle e la morte di Orlando.
Il faentino Tebaldello dei Zambrasi, per vendicarsi di una beffa fattagli da alcuni Ghibellini di Bologna che si erano rifugiati a Faenza, consegnò la sua città in mano ai Guelfi bolognesi all’alba del 13 novembre 1280.

Ci eravamo già allontanati da lui, quando vidi in una sola buca sepolti nel ghiaccio due dannati, in modo che la testa dell’uno faceva da cappello a quella dell’altro;

e con la stessa avidità con cui l’affamato mangia il pane, così quello che stava di sopra aveva conficcato i denti nell’altro nel punto in cui il cervello si congiunge al midollo spinale:

non diversamente Tideo rose per odio il capo di Menalippo, da come quel dannato rodeva il cranio e il cervello.

Narra Stazio nella sua Tebaide (VIII, 740 sgg.) che uno dei sette re che assediarono Tebe, Tideo, colpito a morte dal tebano Menalippo, lo uccise e che, prima di morire a sua volta, preso da odio feroce, cominciò a rodergli il capo. In questo preludio al grande episodio del conte Ugolino, che occuperà la prima metà del canto seguente, il richiamo mitologico è, come altre volte, violentemente accostato alla notazione realistica e conferisce a quest’ultima una particolare solennità, illuminando, come ha felicemente notato il Grabher, il particolare della fame "di quel disdegno per cui la fame si fa dramma". L’atto del dannato che rode la testa del suo compagno di pena, atto apparso in un primo momento in una luce di sinistra oggettività (verso 126), si proietta, attraverso il richiamo mitologico, sul piano - eroico e tragico - delle passioni senza limite, che si alimentano del dolore e nell’infinità del dolore trovano la loro misura.

" O tu che manifesti attraverso un atto così bestiale il tuo odio verso colui che stai divorando, dimmene il motivo " dissi, " a questo patto,

che se tu giustamente ti duoli di lui, sapendo chi siete e la sua colpa, su nel mondo io ti possa ricompensare,

se quella lingua con la quale io parlo non si inaridirà. "





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