LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto III

Beatrice, quel sole che ancor fanciullo mi aveva acceso il cuore d’amore, mi aveva rivelato, portando prove e confutando opinioni erronee, il dolce volto della bella verità ( sulle macchie lunari);

e io, per dichiararmi corretto (del mio errore) e persuaso (della verità), levai il capo più diritto tanto quanto conveniva per parlare (a Beatrice con la dovuta riverenza);

ma mi apparve uno spettacolo che tenne la mia attenzione così strettamente legata a se, per vederlo, che non mi ricordai di fare la mia dichiarazione.

Come attraverso vetri trasparenti e chiari, oppure attraverso acque limpide e tranquille, ma non così profonde che il loro fondo non possa essere visto i lineamenti dei nostri volti si riflettono così tenui, che una perla su una bianca fronte non è percepita con minore difficoltà dai nostri occhi,

altrettanto indistinti vidi molti volti nell’atteggiamento di chi sta per parlare; per cui io caddi nell’errore contrario a quello che fece nascere l’amore fra Narciso e la fonte.

Dante scambia i volti delle anime beate, che ora gli appaiono, per immagini riflesse, commettendo così l'errore opposto di Narciso, che, specchiandosi nell'acqua di una fonte, credette di essere di fronte ad una persona vera e si innamorò di quell'ombra riflessa (Ovidio - Metamorfosi III. versi 413-510). Il ritorno, all'inizio del canto III, ad un contenuto più decisamente sentimentale e descrittivo di contro a quello scientifico-morale delle macchie lunari, recupera l'esperienza delle Rime giovanili: l'impalpabile atmosfera di quel tempo felice (quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto), la stessa ricchezza affettiva capace di conferire un tono intimo e raccolto all'espressione (di bella verità m'avea scoverto... il dolce aspetto), l'identico uso di immagini incorporee, vaghe, sognate (quali per vetri trasparenti e tersi ... ), nelle quali la realtà sembra pronta a dissolversi in notazioni pittoriche (debili sì, che perla in bianca fronte) o in esiti musìcali (non sì profonde che i fondi sien persi) fatti di suoni senza stridore, trasparenti come acque nitide e tranquille. Anche la tecnica espressiva è uguale: "Una sintassi sempre limpida e lineare, senza artificiosa tensione retorica, senza inversioni e tortuosità di costrutti, senza innaturali fratture o chiasmi e stacchi" (Marti). Nel ritorno alle suggestioni, alle delicatezze e alla sensibilità raffinata della lirica giovanile, il Poeta chiederà aiuto per rendere in modo concreto il mondo nel quale la materia si scorpora nello spirito o diventa una vibrazione luminosa. Su questo ritorno, che gli anni e le vicende della vita hanno arricchito di esperienza e approfondito, il Poeta verrà costruendo non solo I'episodio di Piccarda, ma tutta la poesia del Paradiso.

Non appena io m’accorsi di loro, ritenendole immagini riflesse in uno specchio, volsi indietro gli occhi, per vedere di chi fossero;

ma non vidi nulla, e tornai a volgerli davanti a me fissandoli negli occhi della mia dolce guida, la quale, sorridendo, ardeva nelle sue sante pupille.

“ Non ti meravigliare se io sorrido ” mi disse “ a causa del tuo pensiero puerile, poiché esso non poggia ancora saldamente sulla verità,

ma, come al solito, ti riconduce verso ipotesi vane: ciò che tu vedi sono anime vere (non immagini riflesse ), relegate in questo cielo per inadempimento dei loro voti.

Nel canto IV (versi 28-39), Dante spiegherà l'ordinamento morale del paradiso, rilevando la distinzione fra un paradiso fisico e un paradiso spirituale. Poiché ogni anima è collocata nel cielo che con la sua influenza ne ha determinato l'indole al momento dei concepimento o della nascita, quelle che non hanno adempiuto completamente i voti fatti appaiono nel cielo della Luna. Infatti a coloro che sono sottoposti al suo influsso deriva, secondo il Buti, una certa "mutabilità" nel loro desiderio di fronte al bene.

Perciò parla con loro e ascoltale e credi (a quanto ti diranno); perché la luce divina che le appaga non permette che esse si allontanino da lei.”

Ed io mi rivolsi all’ombra che sembrava più desiderosa di parlare, e incominciai, quasi nello stesso modo di colui che è turbato da un intenso desiderio:

“ O spirito creato per la tua salvezza, che scaldandoti ai raggi della vita divina provi quella dolce beatitudine che, se non la si gusta direttamente, non potrà essere mai capita, mi sarà gradito se vorrai soddisfare il mio desiderio rivelandomi il tuo nome e la vostra condizione”.

Per questo essa, prontamente e con occhi sorridenti: “ Il nostro amore non si nega ad un desiderio legittimo allo stesso modo dell’amore divino che vuole simile a se tutta la corte celeste.

Nel mondo io fui monaca; e se la tua memoria ricorda con attenzione, l’essere io diventata più bella ( passando dalla vita terrena a quella celeste ) non mi nasconderà a te,

ma riconoscerai che sono Piccarda, che, posta qui con queste altre anime elette, godo della beatitudine nel cielo che gira più lentamente.

Piccarda, figlia di Simone Donati e sorella di Forese, il caro amico di gioventù di Dante, e di Corso, l'odiato capo della fazione dei Neri a Firenze, è stata ricordata anche nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15). Sappiamo che entrò in giovane età nell'ordine delle Clarisse e che ne uscì per sposare un nobile fiorentino, Rossellino della Tosa, uno dei più turbolenti rappresentanti dei Neri. Secondo alcuni cronisti del tempo sarebbe stata rapita dal chiostro dal fratello Corso, che la costrinse con la forza a sposare il della Tosa. Questa è pure la versione fornita da Dante, anche se si può pensare, invece che a un rapimento vero e proprio, a una serie di forti pressioni esercitate su Piccarda perché abbandonasse il convento. Non si sa l'anno in cui il fatto avvenne (forse tra il 1283 e il 1293), ma l'Ottimo tramanda una notizia secondo la quale Piccarda, subito dopo essere stata rapita dal chiostro, "infermò e finì li suoi dì e passò allo sposo del cielo... E dicesi che la detta infermità e morte corporale le cancedette Colui ch'è datore di tutte le grazie, in ciò esaudiendo li suoi devoti preghi".

I nostri sentimenti che si infiammano soltanto per ciò che piace allo Spirito Santo, gioiscono perché conformati all’ordine universale stabilito da Dio.

E questa condizione che appare tanto umile (essendo noi nell’ultimo dei cieli), ci è stata assegnata per questo, perché i voti da noi fatti rimasero inosservati, e non furono adempiuti in qualche parte”.

Per questo io le risposi: “Nelle vostre mirabili sembianze traspare una luce sovrannaturale che vi trasfigura rispetto a quello che eravate in terra: perciò non fui sollecito nel ricordare; ma ora ciò che mi dici (di te) mi aiuta, così che mi è più facile riconoscerti.

Un quadro "muto, pallido, immobile, ma animato da un segreto movimento spirituale" (Momígliano) ha presentato le prime anime beate nei versi 10-16: esse sembrano emergere da uno spazio ìnfinito, nel quale alla fine torneranno a dissolversi (versi 122-123), mentre si sta realizzando in loro quel processo di smaterializzazione o di dissolvenza, che le porterà, nei cieli seguenti, a trasformarsi in un mobile tripudio di luci, in una vibrazione di canti e preghiere, in un inarrestabile movimento di danza. I beati della prima sfera conservano ancora qualcosa della primitiva figura umana (le postille debili del volto), che permette dì intuire la incorporea leggerezza di quei visi "appena profilati e affioranti" (Grabher), che già riflettono la quieta trasparenza del cielo e la pace distesa dello spirito (verso 85). Ma la presenza del divino che si scopre all'anima, opera una trasfigurazione (trasmuta), per cui Piccarda può ben affermare di esser più bella: "In quella poeticissima incapacità di precisare - non so che divino - senti lo smarrimento contemplativo di Dante" (Grabher) di fronte all'anima che è fissa in Dio, completamente appagata dalla sua visione. Siamo lontani ormai dalle figure e dalle scene costruite di materia e di violento realismo dell'Inferno come da quelle fatte di ombre e di contorni ammorbiditi e sottili del Purgatorio.

Ma sciogli un mio dubbio: voi che dimorate felici in questa sfera, non desiderate un grado di beatitudine più alto per contemplare più da vicino Dio e per diventare più intimamente amici con Lui ( cioè: per amarlo ed essere amati di più ) ?

Piccarda dapprima. sorrise lievemente con quelle altre anime; poi mi rispose illuminata da tanta letizia, che ben mostrava di ardere nel fuoco dell’amore divino:

Dio è il primo loco, cioè il primo amore, per la sublimità del suo sentimento e perché da Lui deriva ogni amore particolare. Una interpretazione meno recente e "mai accettabile per la degradazione del motivo ch'essa comporta nel paragone" (Mattalia), propone per il verso 69 questa spiegazione: come arde una fanciulla nella fiamma del primo amore.

“ Fratello, la nostra volontà è appagata dalla potenza dell’amore; divino, che ci fa desiderare solo ciò che possediamo, e non suscita in noi il desiderio di altro.

Se desiderassimo essere collocate in un grado più alto, i nostri desideri discorderebbero dalla volontà di Colui che ci ha giudicate degne del cielo della Luna;

cosa che vedrai non aver luogo in queste sfere celesti, se qui è necessario vivere sotto il segno dell’amore, e se tu esamini attentamente la natura di questo amore.

Anzi è condizione essenziale a questo stato di beatitudine mantenersi nell’ambito del divino volere, in virtù del quale le nostre volontà singole diventano una sola, così che, il modo in cui in paradiso le anime beate sono distribuite di cielo in cielo, piace a noi tutti come piace a Dio che ci infonde desideri conformi al suo volere.

E nella volontà divina è la nostra pace: questa volontà è simile a un mare verso il quale ritornano tutti gli esseri che essa crea direttamente e che la natura ( come causa seconda) produce”.

Allora compresi chiaramente come ogni parte del cielo è pienezza di beatitudine, sebbene la grazia divina non scenda nella stessa misura in ogni luogo.

Anche la dimostrazione di Piccarda è di carattere dottrinale-didascalico come quelle precedenti di Beatrice (canto I, versi 103-141 e canto Il, versi 61-148), che tale dimostrazione richiama per una identica solennità di argomento e dignità di stile, ma che, poeticamente, supera in virtù di una maggiore vibrazione lirica: il tema trattato - la beatitudine intesa come il confluire armonico di tutti gli esseri in Dio - diventa sentimento, anzi non è altro che il sentimento d'amore che investe ed illumina in ogni parte l'anima di Piccarda. La trattazione ha un primo avvio nei versi 43-45: nel paradiso l'amore che lega le anime beate a Dio e fra di loro prende norma da quello divino, che vuole simile a sé tutta la sua corte. Per questo la volontà dei beati si uniforma alla volontà divina, accettando l'ordine universale stabilito da Dio (versi 52-54), anzi godendo di quanto Egli ama, vuole e dispone. Ma il dubbio di Dante (non desiderano le anime che sono poste nel cielo più basso un più alto loco?) esige una dimostrazione più approfodita, poiché il modo di pensare terreno e quello puradisiaco sembrano, in questo momento, opporsi senza possibilità di accordo. Nel mondo, infatti, la visione di una condizione migliore di vita porta al desíderio di conquistarla, se non addirittura all'invidia. Poco fa, invece, Piccarda ha affermato che posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera più tarda. Da un punto di vista oggettivo esiste nel mondo celeste una maggiore o minore felicità (versi 89-90), corrispondente ad un maggiore o minore merito, ma da un punto di vista soggettivo ogni anima è assolutamente felice, perché il grado di felicità ad essa assegnato è proporzionale alla sua capacità di acquisto e di godimento, Ma l'ampio distendersi delle parole di Piccarda trova il suo momento di più intensa liricità allorché la beatitudine che risplende nei mirabili aspetti delle anime viene definita come l'adempimento, in ciascuna, della volontà divina, per cui le singole volontà desiderano solo ciò che desidera Dio. In questa suprema. volontà, che è acquietamento di ogni aspirazione, trova pace ogni creatura che si muove affannosamente per lo gran mar dell'essere (canto I, 113): anche, il tormentato pellegrino che dalle fiere della selva oscura è giunto al sommo ben. La poesia dell'episodio di Piccarda emerge, oltre che dal velato racconto della sua vita, anche da questa zona che il Croce definirebbe "strutturale", e che un critico attento come il Cosmo ha considerato addirittura "la sostanza dell'episodio". Certamente queste terzine, pur essendo sostenute, come ogni parte, dottrinale nella Commedia, dalla terminologia della Scolastica, si svolgono secondo le commosse cadenze di un inno religioso: l'inno del supremo abbandono della creatura in Dio. La forza interiore che appoggia questi versi è rivelata dalla presenza della triade fiamma-amore-desiderio: il motivo del raggio luminoso, che ha aperto il canto, si trasforma, infatti, nell'immagine della fiamma che arde (verso 69), la luce di verità del verso 2 diventa ora virtù di carità, che attira a sé ogni desiderio (fa volerne... li nostri disiri... nostre voglie... a tutto il regno piace), mentre la ripetizione insistente di parole uguali o quasi uguali, come se la voce non sapesse staccarsene, sottolinea la gioia inebriante dell'anima. Si generano così "immagini di mistico ed annegante struggimento in un ritmo costantemente acensionale... in un impasto di natura decisamente lirica. Figurazione felicemente emblematica della perfetta fusione tra verità ed amore, tra luce ed ardore, è quella che traduce il tenersi dentro alla divina voglia nell’ampia, infinita vastità del mare. al qual tutto si muove ciò chella cria e che natura fece (versi 86-87); un’immagine di naufragio e di beatitudine immensa, di morte anche e d’annegamento in una vita ebbra d’infinito, ove Iddio è eterno approdo d’etrno amore...”(Marti).

Ma come accade che, se un cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, si chiede quello (di cui è rimasto il desiderio ) e si ringrazia per quello ( di cui si è sazi ),

cosi io ringraziai con l’atteggiamento e con le parole Piccarda, e le chiesi di rivelarmi quale fosse la tela (cioè il voto) che aveva incominciato ma non finito . “

Una vita virtuosa perfetta e un grande merito (acquistato presso Dio) collocano in un cielo più alto una donna ” mi disse “ secondo la cui regola giù nel vostro mondo si prendono l’abito e il velo monacali,

affinché fino alla morte si passi ogni giorno e ogni notte con Cristo, lo sposo che accetta ogni voto il quale sia reso conforme al suo volere dall’amore.

"La storia della vita umana segue alla descrizione della vita divina" (Malagoli) e viene introdotta dalla figura di Santa Chiara d'Assisi (1194-1253), che, seguendo l'esempio di San Francesco, abbandonò il mondo e fondò un ordine di clausura (l'ordine delle Clarisse). La metafora Cristo-sposo, che regge nei versi 100-102, prelude a quelle analoghe con le quali San Tommaso presenterà San Francesco nel canto XI del Paradiso.

Per seguire la via di Santa Chiara abbandonai, ancora giovinetta, la vita del mondo, e vestii il suo abito, e promisi di osservare la regola del suo ordine.

In seguito uomini, più avvezzi a fare il male che il bene, mi rapirono fuori dal dolce chiostro. Dio solo sa quale fu poi la mia vita.

Piccarda è, con Francesca e Pia, una delle figure su cui la critica ha amato soffermarsi per cogliere, attraverso l'esame di ogni sfumatura, l'origine della commozione da esse suscitate. Se il momento dell'inno sulla beatitudine è il più acceso e vibrante, i versi 46-48 e 103-108 sono i più umani, i più vicini a noi, perché ricchi di elementi che, nonostante il loro trasferimento su un piano sovrannaturale, mantengono intatto il pathos di sentimenti e ricordi terreni. Il racconto di Piccarda è scarno, chiuso fra due momenti (lui nel mondo vergine sorella e fuor mi rapiron della dolce chiostra) che trovano la loro conclusione, il loro porto di pace solo in Dio (Iddio si sa qual poi mia vita fusi) : è propria di Dante la "capacità di disegnare una vita con una lìnea e spirarvi attorno l'aura di un'anima" (Momigliano). La concretezza poetica della figura di Piccarda nel canto III trova la sua anticipazione nelle luminose espressioni con le quali il fratello Forese l'ha, presentata nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15): la mia sorella, che tra bella e bona non so qual lesse più, triunfa lieta nell'atto Olimpo già di sua corona. In questi versi già era prospettata, accanto al trionfo paradisiaco, la difficoltà della sua conquista, raggiunta dopo una lotta che ha meritato a Piccarda, come agli antichi atleti vittoriosi, la corona del premio. Nasce così l'elegia di Piccarda: una storia tutta terrena, che la luce divina ha ormai reso fuggevole e velato ricordo. Il Grabber, commentando questi versi, ha trovato forse gli accenti più suggestivi per illuminare la figura di questa fiorentina che, apparendo improvvisamente nel primo cielo del paradiso, sembra riportare a Dante il ricordo della Firenze della sua giovinezza, di una città fatta di violenze ma anche di tenaci virtù, nella quale il Poeta aveva vissuto il suo amore per Beatrice e creato, nella Vita Nova, una raffinata poesia religiosa. "Un cenno solo - dal mondo per seguirla - e vedi la terra con le sue lotte e già senti l'anima che se ne allontana (fuggimi); e basta una parola - giovinetta - per dare alla vergine sorella quel tanto di umano che la fa sentire unita al « mondo» ma come una candida, fragile creatura, la cui volontà di rinunzia si fa per questo più grande. E l'abito la chiude in un totale isolamento e la mistica « promessa» (verso 105) la invola agli occhi dei terreni. Ma ecco la violenza umana che la strappa alla dolce chiostra, a quella vita di smarrimento in Dio, che tanto rimpianto suscita nel suo cuore, anche se larvatamente espresso in un aggettivo solo: dolce. Ma tutto qui si sublima in un superiore dominio di sé che è pudore, raccoglimento in Dio: anche il tormento e la tristezza del bene perduto, anche la colpa degli, uomini. Anzi per essi c'è, non dico una parola d'accusa, ma un profondo, sebbene tacito compianto per essere a mal più ch'a bene usi; tanto che, per un'alta carità, neppure li individua... e, all'infuori del rimpianto per la dolce chiostra, non ha malinconie per cose terrene, anzi, superata del tutto la vicenda umana... tutta si rifugia in Dio: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. Qual poi... : ... non un cenno al tormento della sua vita qual fu poi, tra gli uomini, fino alla morte... Ombra e silenzio, come già fece della giovinetta il monastico velo, chiudono il suo cuore in quello d'Iddio.

E questo altro spirito splendente che vedi alla mia destra e che si illumina di tutta la luce del nostro cielo, considera come riferito anche a se ciò che io dico di me:

fu suora, e le fu strappato dal capo il velo monacale così come avvenne per me (cioè con la violenza).

Quest'altro splendor: è Costanza, figlia di Ruggero Il d'Altavilla e ultima discendente della casa normanna. Nata nel 1154, sposò nel 1185 l'imperatore Enrico VI di Svevia, portandogli in dote il regno di Sicilia. Rimasta vedova nel 1197, fu reggente e tutrice del figlio Federico II. Morì nel 1198. Gli ambienti guelfi, ostilissimi agli Svevi (Federico II e, poi, Manfredi), raccolsero la leggenda secondo la quale Costanza si sarebbe ritirata in un monastero di Palermo. Da qui sarebbe stata fatta uscire per ordine delle autorità ecclesiastiche, che avrebbero preparato il suo matrimonio con Enrico VI, affinché il regno normanno, che ultimamente si era mostrato ribelle nei confronti della Chiesa, entrasse a far parte dei domini dell'Impero (cfr. Villani I Cronaca V, 16). Il Poeta, pur accogliendo questa versione dei fatti, elimina ogni asprezza polemica e, come già nel Purgatorio canto III, verso 113), presenta la figura di Costanza in un'aura di particolare solennità, che ha spinto alcuni critici a vedere nello splendore di santità che circonda la gran Costanza anche lo splendore della dignità imperiale da lei rivestita in vita.

Ma dopo che fu ricondotta tutta al mondo contro la su volontà e contro ogni norma morale e giuridica non abbandonò mai dentro di se il velo monacale.

Questo è lo spirito luminoso della grande Costanza che dal secondo imperatore della casa di Svevia generò il terzo e ultimo rappresentante . ”.

Costanza, da Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, generò Federico Il, terzo ed ultimo sovrano svevo, il quale fu l' "ultimo, imperadore de li Romani" (Convivio IV, III, 6), perché dopo la sua morte nel 1250 l'Impero, secondo Dante, restò vacante fino all'incoronazione di Arrígo VII di Lussemburgo nel 1312. Il termine vento per indicare i rappresentanti della casa sveva, vuole forse riferirsi alle vicende di questa famiglia e alla forza sconvolgìtrice con cui essa passò nella storia europea. Soave è la forma italianizzata, usata in quel tempo, del tedesco Schwaben, Svevia.

Così mi parlò, e poi incominciò a cantare “ Ave, Maria ”, e cantando si dileguò come (scompare) nelI’acqua profonda un oggetto pesante .

I miei occhi, che la seguirono finché fu possibile, dopo che non la videro più, cercarono Beatrice,

oggetto del loro desiderio dominante, e si volsero completamente verso di lei; ma ella risplendette davanti al mio sguardo di una luce così folgorante che dapprima la mia vista non riuscì a sopportarla;

e ciò mi rese più timido ad interrogarla (intorno ad altri dubbi ).

 

 

 

 




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