CRITICA LETTERARIA: DANTE

 

Luigi De Bellis

 
 
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L'esperienza delle "Rime"
di G. CONTINI



Il Contini descrive l'intero arco dell'esperienza dantesca delle Rime cosí varia e complessa, a partire dagli anni guittoniani, attraverso la partecipazione allo Stil Novo, fino alle rime petrose, alla tenzone con Forese, alle grandi canzoni morali. Particolare rilievo ha la serietà con cui Dante esperimenta ogni volta materia e linguaggio e particolarmente precisi risultano i riferimenti delle prove per lo più ancora provvisorie delle Rime ai risultati compiuti e perfetti della Commedia.

I maestri e gli amici di Dante mostravano già tutti una notevole latitudine di possibilità tecniche e di gusto. Non parliamo dei Siciliani, per i quali il problema della coerenza stilistica difficilmente potrebbe addirittura esser posto. Il primo Guido era stato un- curiale guittoniano tanto docile da meritarsi, quando poi ebbe mutata la maniera, da parte d'un altro rimatore di stretta osservanza quale Bonagiunta, non soltanto rimproveri ad personam, ma la precisa obiezione critica che poesia non è scienza; senonché la sua novità non era solo quella dottrinale (apparentemente) di Al cor gentil, e neppure si fermava al mito della donna salutifera, ma giungeva a includere l'aneddotica borghese di Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo e il primitivo « realismo » di Diavol te f era. Anche più disinvolto, il Cavalcanti sapeva rifare

con uri virtuosismo del resto freschissimo un po' tutti i «generi» della lirica, il tema della pastorella transalpina (In un boschetto), la canzonetta siciliana (Fresca rosa novella), certo panismo naturalistico inventato dal Guinicelli (Beltà di donna); in fatto d: rigore ed esoterismo dottrinale riusciva a battere i più sapienti (Donna mi prega), l'analisi psicologica era capace di portarla fino alla parodia; né, beninteso - tutti questi erano modi da gran signore -, comprometteva mai la sua malinconia splenetica di gentiluomo un po' snob. Quanto a Cino, se si guarda bene, l'unità tonale di questo, secondo il luogo comune, precursore di Petrarca è un tantino involontaria, o diciamo psicologistica (il limite del suo petrarchismo avanti la lettera sta, appunto qui); e fra tanti guai e lacrime e paura e senso della morte può aver luogo perfettamente, sulla stessa linea ma in fondo, un sonetto su motivo obbligato (Tutto ciò ch'altrui aggrada), che oggi nessuno si sogna più d'intendere come un temibile documento romantico, ma si riconduce ai modi caricaturali d'un Cecco Angiolieri e del trecento giullaresco. La varietà di Dante, che materialmente non è minore, fra la ballata della ghirlandetta o quella per Violetta e le rime petrose, fra il sonetto per la Garisenda e la canzone Tre donne o la montanina, ha un tutt'altro significato. Mai in lui un sospetto, di scetticismo. Ci sono scherzi anche nella sua opera, ma remotissimi dai centri dell'ispirazione. In fondo, una serietà terribile: tutte le «imitazioni» sono lasciate depositare fino all'ultimo, giungono alle estreme conseguenze (alcuni frutti della lettura dei Siciliani dureranno indelebili nelle Rime), ma non deviano mai verso l'amplificazione un po' cinica da cui può uscire la parodia. In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell'ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall'ansia di perfezione. Vi è da una parte, in universale e nella ricchezza dei tentativi danteschi, una tecnica dolce, che vuol cancellare il suo sforzo, si risolve in un piano tessuto scrittorio modulato senza dislivelli - ma è poi lo stesso mondo della Vita Nuova, la rinunzia alla terra e l'ascrizione a una donna tanto più reale quanto meno si concede al poeta, quanto più si sottrae fino al suo saluto e al suo sguardo, e diventa realissima quando è fisicamente morta; lo stesso clima dove la vittoria sul peccato, ripetiamo: lo sforzo della vittoria sul peccato, tende a perdere d'eccezionalità e a normalizzarsi nell'accettazione quotidiana d'un ideale. E cosí (distinguiamo assai sommariamente questi due poli estremi d'ispirazione) v'è una tecnica aspra, che sottolinea lo sforzo, esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima - ma essa è una sola cosa col sentimento dell'amore e della vita difficile, dell'ostacolo, del superamento.

E appunto la mancanza di «lirismo» nella lirica di Dante che spiega meglio come, a uno sguardo storico generale, non appaia in essa uno «sviluppo» stilistico chiaro é distinto, ma un processo d'inquietudine permanente. La prima svolta che si possa individuare in una formula, è costituita dalle nove rime. Di abbandono del guittonismo per lo stilnovismo non è infatti il caso di parlare in senso proprio, perché, dal punto di vista della scuola, le rime guittoniane di Dante sono galanterie, scommesse, peccata iuventutis, e quella presunta conversione è solo uno scivolare d'amicizia in amicizia (s'è visto che significhi l'importanza dell'amicizia), da quella per l'omonimo da Maiano, per Lippo, forse per Chiaro Davanzati é Puccio Bellondi, a quella per Guido Cavalcanti e Lapo Gianni.

È nelle rime morali di Dante lo zelo del neofita entrato da poco fra le disputazioni dei filosofanti. Un pari entusiasmo troviamo nel Dante amatore di poesia e studioso di letteratura che questi stessi anni vengono elaborando (entusiasmo scientifico e morale ed entusiasmo d'occitanista sono contemporanei, nel De vulgari). Dante giovane aveva conosciuto un provenzalismo di seconda mano e, diciamo cosí, specializzato, ossia manierato, attraverso i guittoniani e i Siciliani; e anche i precedenti provenzali del dolce stile, dunque gl'irresponsabili antenati del Dante della Vita Nuova, sono stati indicati in autori secondari singolarmente disertati dalla grazia, il noioso Guilhelm de Montanhagol, magari Guiraut Riquier, che furono astuti amministratori di poesia nella generale decadenza inaugurata dalla morte di Folchetto (trascuriamo naturalmente, nel parlar cosí, l'unico poeta vero dei periodo, il grande arcaizzante Peire Cardinal, perché non fu caposcuola). Occorre dire che un occitanismo tanto indiretto non poteva che spettare ai temi astratti, essere rituale? «Se volemo cercare in lingua d'oco», dice la Vita Nuova (XXV, 4), «noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni». E su questa estensione limitata, e compatta, non è grandissima varietà esteriore, poiché l'anima provenzale è sottilmente raccolta sul mestiere; ma se precisamente Dante si destinava a raccoglierne l'insegnamento essenziale, lo stile, doveva pur risalire quel breve corso d'un secolo e mezzo, differenziare le generazioni. Intelligenza di questa filologia a nutrimento di poesia! È cosí che il provenzalismo dantesco di prima mano si chiama: incontro con i trovatorí del periodo aureo, quelli della Commedia: Guiraut de Bornelh, Bertran de Born, Folchetto, Sordello (cronologicamente sfasato, questo, come autore periferico); sopra tutti, Arnaut Daniel. Entro le Rime codesto provenzalismo autentico è rappresentato dall'esperienza delle petrose: l'esperienza che resterà, degradata, nella Commedia come verbalità del difficile, dell'ostacolo, come presa di possesso del reale non pacifico, secondo la descrizione che s'è fatta sopra. Questo ricorso interpretativo che si fa alla Commedia non è un mero artificio didattico, né riguarda lo scadimento a precedente e a materia che si suol far subire dagli autori alla propria poesia già raggiunta, ma spetta alla necessaria integrabilità di quelle liriche immobili, alla mancanza d'una piena autosufficienza. La legittima ammirazione corrente per questa serie suggestiva deve pur lasciar chiaro come, innanzi ai «frammenti» di poesia petrosa che s'articolano nella Commedia (per esempio, il cerchio dei traditori), l'ispirazione delle petrose appaia, essa, radicalmente «frammentaria».

Accanto al sentimento del reale difficile in sé, quale oggetto, che presentano le petrose, la tenzone con Forese offre un reale conosciuto attraverso una gamma di risentimenti e la deformazione violenta della caricatura. E la rappresentazione n'è già ricca e tecnicamente spiritosa. Un solo esempio, nella prima quartina del secondo sonetto: si sa come il culmine dell'artificio stilistico, provenzalmente, sia la sestina, il cui verso inclina con violenza verso la fine, destinata a ospitare le parole più determinate, e pertanto lo spettacolo della più cruda realtà; è con un simile procedimento che i petti de le starne, con la carnalità specificata del loro aspetto tentatorio, si presentano in clausola, e succedono in tale funzione al fortemente idiomatico e allusivo nodo Salamone; mentre, subito sotto, l'ingegnosa collazione delle sorti cronologie si fa indizio perentorio della crisi fondamentale delle Rime, quand'esse stanno (non indarno) per cessare. Uno dei più acuti ordinatori ideali di esse, senz'altro il più elegante, Ferdinando Neri, dichiara: «Questa canzone è un problema che anch'io rinunzio a spiegarmi: v'è dell'amor cortese, qualche mossa ciniana, qualche altra " pietrosa "». Di là dall'aneddoto, il «problema» è quello stesso generale dell'insufficienza del Canzoniere a giustíficare se stesso, dell'inesplicabilità iuxta propria principia. La montanina è la sola lirica di Dante a cui si riesca ad assicurare una data relativamente tarda, ed è su una linea involutiva, quasi d'errore. Può trovarsi migliore argomento a riconfermare, in conclusione, come l'ossessione della Commedia nell'animo dell'esegeta delle Rime, non sia un vano fantasma agitato dal principio d'autorità? Solo in questo canone si vede placato il travaglio esplorativo di Dante e il furore dell'esercizio.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it