CRITICA LETTERARIA: DANTE

 

Luigi De Bellis

 
 
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Dante, poeta del Medioevo

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Introduzione alla poesia della "Commedia"

Struttura e poesia nella "Commedia"

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Universalità ed evidenza della poesia dantesca: la lingua e l'allegoria

La realtà terrena della "Commedia"

Cronaca e storia nella "Commedia"

Il "Paradiso" come epica della grazia

L'ultima pagina della "Commedia"


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Giudizi e testimonianze attraverso i secoli



Partendo dalla pura notizia di cronaca che ci dà il Villani, intendiamo testimoniare il diverso modo con cui scrittori e letterati dei vari secoli hanno guardato a Dante: dalla prima idealizzazione del Boccaccio alle riserve puristiche del Bembo; dalla lunga tradizione esegetica toscana dei Gelli, dei Borghini, dei Galilei, che presentano anche intuizioni geniali, all'irriverente e corrosivo spirito volterriano del Bettinelli, per concludere con il rinnovato entusiasmo romantico e risorgimentale del Mazzini e del Gioberti.

1.

Nel detto anno 1321, del mese di luglio, morì Dante Alighieri di Firenze nella città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d'ambasceria da Vinegia in servizio de' signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna, dinanzi alla porta della chiesa maggiore, fu seppellito a grande onore, in abito di poeta e di grande filosafo.
Mori in esilio del Comune di Firenze in età circa cinquantasei anni. Questi fu grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico: fu sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare e versificare, come in arringa parlare nobilissimo dicitore, in rima sommo, col pia pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e pia innanzi. Fece in sua giovanezza il libro della Vita nova d'amore. E fece la Commedia, ove in pulita rima e con grandi e sottili questioni morali, naturali e astrolaghe, filosofiche e teologhe, con belle e nuove figure comparazioni e poetrie, compuose e trattò in cento capitoli ovvero canti, dell'essere e stato del ninferno, purgatorio e paradiso, cosí altamente come dire se ne possa, siccome per lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Commedia di garrire e sciamare a guisa di. poeta, forse in parte piú che non si convenia, ma forse il suo esilio gliele fece fare.

GIOVANNI VILLANI

2.

Abitò dunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) più anni sotto la protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece più scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini. Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse di farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro.

GIOVANNI BOCCACCIO

3.

Chi legge la Commedia di Dante vi troverrà molte cose teologiche e naturali essere con gran destrezza e facilità espresse; troverrà ancora molto attamente nello scrivere suo quelle tre generazioni di stili che sono dagli oratori laudate, cioè umile, mediocre ed alto; ed in effetto, in uno solo, Dante ha assai perfettamente assoluto quello che in diversi autori, cosí greci come latini, si truova. Chi negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce., e queste cose amorose con tanta gravità e venustà trattare, quanta sanza dubbio non si trova in Ovidio, Tibullo, Catullo e Properzio o alcun altro latino? Le canzoni e sonetti di Dante sono di tanta gravità, sottilità ed ornato, che quasi non hanno comparazione in prosa e orazione soluta.

LORENZO DE' MEDICI

4.

Il vostro Dante, Giuliano, quando volle far comperazione degli scabbiosi, meglio avrebbe fatto ad aver del tutto quelle comperazioni taciute, che a scriverle nella maniera che egli fece:

                    E non vidi giamai menare stregghia 
                    a ragazzo aspettato da signorso;


e poco appresso:

                    E si traevan gíù l'unghie la scabbia, 
                    come coltel di scardova le scaglíe.


Come che molte altre cose di questa maniera si sarebbono potute tralasciar dallui senza biasimo, ché nessuna necessità lo strignea più a scriverle che a non scriverle; là dove non senza biasimo si son dette. Il qual poeta non solamente se taciuto avesse quello che dire acconciamente non si potea, meglio avrebbe fatto e in questo e in molti altri luoghi delle composizioni sue, ma ancora se egli avesse voluto pigliar fatica di dire con più vaghe e più onorate voci quello che dire si sarebbe potuto, chi pensato v'avesse, et egli detto ha con rozze e disonorate, si sarebbe egli di molto maggior loda e grido, che egli non è; come che egli nondimeno sia di molto. Che quando e' disse:

                    Bíscazza, e fonde la sua facultate,

Consuma o Disperde avrebbe detto, non Biscazza, voce del tutto dura e spiacevole; oltra che ella non è voce usata, e forse ancora non mai tocca dagli scrittori. Non fece cosí il Petrarca, il quale, lasciamo stare che non togliesse a dire di ciò che dire non si potesse acconciamente, ma, tra le cose dette bene, se alcuna minuta voce era, che potesse meglio dirsi, egli la mutava e rimutava, infino attanto che dire meglio non si potesse a modo alcuno.

PIETRO BEMBO

5.

Di maniera ch'ei si può dire, ch'ei sia stato il primo il qual abbia scritto nella nostra lingua di cose scientifiche, e abbia espresso in quella la maggior parte delle cose umane, e che abbia sadisfatto a tutte le belle imitazioni, e, oltre a di questo, scritto poi delle divine con tanta dottrina e maiestà e leggiadria insieme, ch'egli ha dimostrato al mondo come ei si può esser poeta, e trattar delle cose divine, senza parlar favolosamente di Dio, e senza attribuirgli di quelle cose e di quegli affetti, che avevano fatto prima gli altri.

GIAMBATTISTA GELLI

6.

Potiamo ben dire, che quanto all'esteriore e alla superficie delle parole in questo Poema si tratti dell'Inferno essenziale dopo questa vita, e cosí del Purgatorio e Paradiso, de' quali l'Autore va con diverse finzioni, come poeta parlando, adornando questa sua opera con tutta l'arte, e facendola ricca di altissimi concetti di tutte le scienze, e bene spesso colla più profonda teologia spiegando in versi quello che solo a pensare e imaginare è difficilissimo; la principal sua intenzione (come si è detto) è di trattare dell'Inferno, Purgatorio e Paradiso morali che sono in questa vita, cioè prima dello stato di quelli che vivono morti nel peccato, acconsentendo alli loro disordinati affetti, e non cercando altro che di sodisfare all'appetito sensuale; secondo, di quelli che per contrario s'aiutano quanto possono per vincere i mali abiti dalli quali si sentono tirare al male, e in questa maniera si vanno purgando da essi; terzo, di coloro che già purgati godono la sicurissima pace della lor buona conscienza illuminati internamente da Dio, e a esso solo con la lor volontà perfettamente uniti. Di modo che tutto quello che ei descrive secondo la prima apparenza, non è per altro che per ricoprire il bellissimo e vero ritratto della felicità e perfezione umana, non di quella sola che ci hanno insegnato i filosofi, ma di tutta quella ancora che per divina rivelazione ci si è fatta conoscere.

VINCENZO BORGHINI

7.

Se è stata cosa difficile e mirabile l'aver potuto gli uomini per lunghe osservazioni, con vigilie continue, per perigliose navigazioni, misurare e determinare gl'intervalli dei cieli, i moti veloci e i tardi, e le loro proporzioni, le grandezze delle stelle, non meno delle vicine che delle lontane ancora, i siti della terra e dei mari, cose che, o in tutto o nella maggior parte, sotto il senso ci caggiono; quanto piú maravigliosa deviamo noi stimare l'investigazione, e descrizione del sito e figura dell'Inferno, il quale sepolto nelle viscere della terra, nascosto a tutti i sensi, è da nessuno per niuna esperienza conosciuto, dove se bene è facile il discendere, è però tanto difficile l'uscirne, come bene c'insegna il nostro Poeta in quel detto:

Uscite di speranza, voi ch'entrate;

e la sua guida in quell'altro:

È facile il discendere all'Inferno, 
ma 'l piè ritrarne, e fuor dell'aura morta 
il poter ritornare all'aura pura, 
questo, quest'è impres'alta, impresa dura:

che dal mancamento dell'altrui relazione viene sommamente accresciuta la difficoltà della sua descrizione. Per lo che era necessario allo spiegamento di questo infernal teatro corografo e architetto di più sublime giudizio, quale finalmente è stato il nostro Dante: onde se quegli, che sí accortamente svelò la mirabil fabbrica del cielo, e si esquisitamente disegnò il sito della terra, fu reputato degno del nome di Divino, non doverà già il medesimo nome essere per le già dette ragioni al nostro Poeta conteso.

GALILEO GALILEI

8.

Per cotal povertà di volgar favella Dante a spiegare la sua Comedia dovette raccogliere una lingua da tutti i popoli dell'Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero aveva raccolta la sua da tutti quelli di Grecia. Cosí Dante fornito di poetici favellari impiegò il colerico ingegno nella sua Comedia; nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia, in narrando ire implacabili ed in membrando quantità di spietatissimi tormenti, come appunto nella fierezza di Grecia barbara Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti avvenute ne' combattimenti de' troiani co' greci, che rendono inimitabile la sua Iliade.
Ma nel suo Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode infinita gioia con una somma pace dell'animo, quanto in questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto a que' tempi impazienti di offesa o di dolore era meravigliosissimo Dante; appunto come per lo concorso delle stesse cagioni, l'Odissea, ove si celebra l'eroica pazienza d'Ulisse, è appresa ora minor dell'Iliade, la quale a' tempi barbari d'Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di Dante, dovette recare altissima meraviglia.

GIAMBATTISTA VICO

9.

Pur de' bellissimi versi, che a quando a quando incontravansi, mi facean tal piacere che quasi gli perdonava. Ma giunto poi, saltando assai carte senza leggerle, a Francesca d'Arimino, al conte Ugolino, a qualche altro passo siffatto: oh che peccato, gridai, che si bei pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian condannati! Amico caro, diss'io rivolgendomi verso Omero, guai a noi se questo poema fosse più regolare e scritto tutto di questo stile. Si lesse più d'una volta Ugolino; chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco od in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno squarcio sí originale e sí poetico, per colorito insieme e per passione, non cedeva ad alcuno d'alcuna lingua, e che l'italiana mostrava in esso una tal robustezza e gemeva in un tuono cosí pietoso che potrebbe in un caso vincere ogni altra.

E buon per noi, che lungamente si lesse e si gustò questo tratto, perché tutto il resto ci fastidí senza misura. Il Purgatorio e il Paradiso molto peggio si stan dell'Inferno, che neppur una di tali bellezze non hanno, la qual si sostenga per qualche tempo con nobile poesia. Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci, per cento canti e per quattordici mille versi, in tanti cerchi e bolge, tra mille abissi e precipizi con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e noiava me, suo duca e condottiere, delle più nuove e più strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui divenuto or maestro di cattolica teologia, or dottore della religione degl'idoli, insieme le favole de' poeti e gli articoli della fede cristiana, la filosofia di Platone e quella degli arabi mescolando, sicché mi pareva essere troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto che non sia stato vivendo e poetando. Oh che dannate e purganti e beate anime son mai quelle, e in qual Inferno, in qual Purgatorio, in qual Paradiso collocate? Mille grottesche positure e bizzarri tormenti non fanno certo gran credito a quell'Inferno né all'immaginazione del poeta. Tutti poi quanti sono ciarlieri e loquacissimi di mezzo ai tormenti, o alla beatitudine, e non mai stanchi in raccontare le strane loro venture, in risolvere dubbi teologici o in domandar le novelle di mille toscani loro amici o nemici, e che so io. Nulla dico de' papi e de' cardinali posti in luogo di poco rispetto per verità, mentre Traiano imperatore e Rifeo guerrier di Troia sono nel Paradiso. Rileggete con questa riflessione quell'imbroglio non definibile, e poi mi direte che ve ne sembri.

E questo è un poema, un esemplare, un'opera divina? Poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza azioni o con azioni soltanto di cadute, di passaggi, di salite, di andate e di ritorni, e tanto peggio quanto più avanti ne gite? Quattordici mille versi di tal sermoni, chi può leggerli senza svenir d'affanno o di sonno? Quale idea debbono aver della poesia que' giovani che si vedono a par d'Omero e degli altri maestri lodar Dante, tanto da quelli diverso?

SAVERIO BETTINELLI

10.

Qual passione maggiore e più nobile vorremmo noi cercare nel suo poema (giacché si dice essere il suo poema privo di passione), che quella veemente continua collera, e quell'invincibile odio contro al vizio, e quel grande, insuperabile affetto alla virtú, che per tutto ardono e risplendono in esso, e l'animo de' leggitori or ad orrore, or a compassione, or a sdegno, e talora a schernire i malfattori commovono? Anzi non v'ha altro poema antico né moderno che faccia in te gli effetti dell'epico, della tragedia, della satira, della poesia lirica, o di quant'altre mai poesie fossero al mondo inventate, quanto quel solo di Dante.

GASPARO GOZZI

11.

Dante può riguardarsi come il padre della nostra Lingua: ei la trovò povera, incerta, fanciulla, e la lasciò adulta, ricca, franca, poetica: scelse il fiore delle voci e dei modi da tutti i dialetti e ne formò una Lingua comune che rappresenterà un giorno fra tutti noi l'Unità Nazionale, e la rappresentò in tutti questi secoli di divisione in faccia alle nazioni straniere. Dante fu grande come poeta, grande come pensatore, grande come politico ne' tempi suoi: grande oltr'a tutti i grandi, perché, intendendo meglio d'ogni altro la missione dell'uomo Italiano, riunì teorica e pratica, potenza e virtú: - Pensiero ed Azione. Scrisse per la Patria, congiurò per la Patria: trattò la penna e la spada. Costante nell'Amore, adorò fino all'ultimo giorno la memoria della donna che gl'insegnò prima ad amare. Irremovibile nella Fede, patì miseria, esilio, persecuzioni, né mai tradì la riverenza alla Patria, la dignità dell'anima, la credenza ne' suoi principii. Le madri Italiane un giorno ne trasmetteranno la vita, come insegnamento, ai fanciulli Italiani.

GIUSEPPE MAZZINI

12.

Il merito sovrano di Dante è di essere stato il primo a cogliere le potenziali bellezze della parola evangelica e ad improntarle in una nuova lingua; onde il suo poema è veramente la Bibbia umana del nuovo incivilimento, essendo, per ragion di tempo e di pregio, il primo riverbero della divina. La sua preminenza deriva obbiettivamente dal principio di creazione, che, avendo trovato nel robusto ingegno del gran poeta un terreno proporzionato, vi produsse tali frutti di miracolo, cui la mente umana non potrà forse uguagliare giammai. Da tal principio nasce l'ampiezza del lavoro, cosmopolitico, anzi immenso ed eterno, quanto ai confini, e veramente infinito, non di quella infinità panteistica che nel discreto consiste, ma di quella che emerge dal continuo, e importa la semplicità e l'ímmanenza; enciclopedico e polistorico, perché abbraccia tutte le specie di concetti, di fatti, di fenomeni, di cognizioni: universale nella poesia, nell'eloquenza e nelle gentili arti, come quello che è subbiettivo ed obbiettivo ad un tempo, acchiude germinalmente le varie sorti dei parti immaginativi, comprende i modelli ideali ed individuali in cui s'incarnano tali lavori, e ha verso le altre maniere di poesia e di facondia l'attinenza del genere verso le specie, abbracciando potenzialmente le lettere avvenire e le arti del mondo cristiano. Da ciò nasce che il lavoro di Dante, propriamente parlando, non ha protagonista; o piú tosto il suo protagonista è l'Idea, che ad ogni passo traluce sotto il diafano velo delle imagini, e poeticamente s'impronta ed incorpora nell'universo.

VINCENZO GIOBERTI

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