CRITICA LETTERARIA: IL CINQUECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
  HOME PAGE

L'ideale eroico del Rinascimento

MACHIAVELLI

Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

Il significato "nazionale" del "Principe"

La figura del "Principe"

Arte e tecnica nella prosa del Machiavelli

Il linguaggio tecnico del "Principe"

Dal "Principe" ai "Discorsi"

La passione politica del Machiavelli

I personaggi della Mandragola

GUICCIARDINI

La concezione del "particulare" e della storia nel Guicciardini

Il Guicciardini storico

Aspetti della "storia d'Italia" del Guicciardini

ARIOSTO

Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

La ricerca della pura arte nella poesia dell'Ariosto

L' "ironia" ariostesca

L'atmosfera poetica del "Furioso"

Il paesaggio del "Furioso"

Il "Furioso" come grande "romanzo" del Cinquecento

Il linguaggio "narrativo" dell'Ariosto

L'uomo dell'Ariosto

Le "Satire" e le "Lettere"


Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito


Iscriviti
Cancellati




 


La ricerca della pura arte nella poesia dell'Ariosto
di F. DE SANCTIS



Per il De Sanctis l'Ariosto rappresenta la riduzione di tutti gli ideali a quello esclusivo della bellezza dell'Arte, propria del mondo rinascimentale. Il suo impegno e la sua serietà sono quelli dell'artista interamente dedito alla rappresentazione del proprio sogno poetico, attraverso un continuo e tenace esercizio formale.

Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellí per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c'era dunque nella sua testa? C'era l'Orlando furioso. Niuna opera fu concepita né lavorata con maggior serietà.
E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso, o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro sentimento dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne' suoi fini il desiderio un po' di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este. Ma sono fini che rimangono accessori, naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finché non abbia dato alle sue creazioni l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di lavoro uscí l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l'Arte.

Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l'uno e l'altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all'artista nocquero la scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perché l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme cosí dense e fisse, che il suo sguardo profondo non poté sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.

Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l'artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da Orfeo, tra' profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d'uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l'arte. Andate a vedere quest'uomo mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo, nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la libertà e non sa patire la servitú, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un Iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia, l'Artista.

Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via ritorna si circonda, come d'una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell'arte, a cui egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell'altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co' suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: - Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo cosí bene qua dentro, uscirà cosí sulla tela? - E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto; perché non è tranquillo chi ha qualche cosa a realizzare sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello, è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l'anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata ai di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Cosí è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all'arte. E l'Ariosto le dava questo mondo dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it