LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO

Cesare Pavese:  Rompere la propria solitudine

Cesare Pavese è una personalità di fondamentale importanza anzitutto per la cultura e la letteratura del Novecento: con la sua opera di traduttore e di critico, verso gli anni Trenta, contribuì a creare, assieme a Vittorini, il cosiddetto mito dell'America; lavorando nell'editoria (presso la casa editrice Einaudi di Torino sin dalla sua fondazione) ebbe il merito di proporre alla cultura italiana testi e temi estranei sia agli orizzonti idealistici sia a quelli marxisti (si pensi alla "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici", da lui ideata e fondata con la consulenza di specialisti come Ernesto De Martino e Giuseppe Cocchiara, che fece conoscere le opere di Kerényi, Malinowski, Propp, ecc.); con le poesie di Lavorare stanca (1936) indicò una strada notevolmente innovativa rispetto alle tendenze di quegli anni; in ambito narrativo produsse opere che, a differenza di quanto è avvenuto per altre coeve e celebrate in quei decenni, continuano ancora ad attirare l'interesse della critica e nel contempo - caso non molto frequente - quello di un vasto pubblico.

Ma oltre a questo, c'è da sottolineare l'esemplarità del suo destino umano: nel quale un dissidio presente sia a livello biografico sia a livello artistico si concludeva - malgrado i disperati tentativi di esorcizzarlo (con l'impegno creativo, col lavoro, con la militanza politica) - con una sconfitta, il suicidio, che assume valore di testimonianza. Come ha scritto il Sapegno a questo proposito, «nessuno più di lui nell'orizzonte della nostra cultura così chiusa e proclive alle soluzioni più facili e tranquillanti, ha espresso quella fondamentale riluttanza alla vita, quell'interna lacerazione e preventiva consumazione di tutti gli affetti e gli ideali che la compongono, quella primordiale vocazione di morte, che è alle radici di tanta parte della nostra civiltà. E il fatto di avere accolto in sé e bruciato fino in fondo nella sua persona tutte le esperienze e il tormento di una condizione decadente, basta a conferire a quel destino d'uomo un rilievo, una funzione storica che non sappiamo chi altri da noi potrebbe più degnamente impersonare».

Mestiere di vivere e mestiere di scrivere

Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nella cascina di San Sebastiano: qui il padre, cancelliere di tribunale a Torino, aveva un piccolo podere dove la famiglia trascorreva le vacanze estive. Saranno questi i luoghi (e le infantili esperienze ad essi collegate) che Pavese farà poi oggetto di mitizzazione e di riflessione, collocando nell'infanzia la matrice prima di una sensibilità e di una mitologia personale. Un'infanzia, la sua, presto segnata da un trauma, la morte del padre nel 1914, quando egli non ha ancora sei anni. Gli studi liceali al "D'Azeglio" di Torino lo mettono a contatto con quell'eccezionale educatore che fu Augusto Monti, che aveva collaborato alle riviste di Gobetti, viveva con particolare lucidità e dedizione i problemi della scuola (I miei conti con la scuola, 1965), rievocava nelle sue opere narrative (conglobate e riedite ne I sanssóssì, 1963) storie e ambienti del vecchio Piemonte e soprattutto (per quel che ci interessa) costituiva il punto di riferimento e di aggregazione per un gruppo di giovani (suoi ex-alunni e non, la "fraternità", come si erano denominati) nel quale a un certo punto entra anche Pavese, trovandosi accanto Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Massimo Mila, Norberto Bobbio (che dalla tensione culturale e civile - gobettiana - di quell'ambiente ha dato una suggestiva rievocazione in Trent'anni di storia della cultura a Torino, 1920-1950, Einaudi, Torino 1977).
Durante gli anni universitari maturano via via i suoi interessi per la letteratura americana; si laurea infatti nel 1930 con una tesi su Walt Whitman, pubblica su «La lettura» un saggio su Sinclair Lewis, di cui intanto traduce Il nostro signor Wrenn (pubblicato nel 1931). Alla ricerca di una sistemazione, alterna il lavoro di traduttore (nel 1934 esce la traduzione di Dedalus di Joyce, nel 1935 42° Parallelo di Dos Passos) a lezioni private, a precari incarichi di insegnamento; scrive intanto qualche racconto, ma soprattutto poesie.

Nel maggio 1935 viene pretestuosamente accusato di attività antifascista e arrestato: in realtà egli si limitava a ricevere al suo indirizzo lettere politicamente compromettenti destinate ad una militante del partito comunista clandestino alla quale egli le passava senza aprirle; con questa «donna dalla voce rauca» (come da una definizione dello stesso Pavese essa viene ormai abitualmente indicata) egli aveva avviato una relazione amorosa sin dal 1929. Condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro - intanto esce presso «Solaria» la raccolta poetica Lavorare stanga -, passa il tempo in cui vi resta dedicandosi agli studi e alla letteratura; inizia fra l'altro a tenere una sorta di diario letterario ed esistenziale, Il mestiere di vivere. Ritornato dal confino - per condono - trova che la donna amata si è sposata, e questo gli provoca un altro trauma che «traccerà nella sua esistenza un solco di incolmabile dolore, di disperata frustrazione» (L. Mondo) e che condizionerà il suo futuro con l'angosciosa paura - di fronte all'esperienza sentimentale - che «ciò che è accaduto accadrà ancora». Tante pagine del Mestiere di vivere testimoniano questo oscuro incombere - motivato e complicato da insorgenti disturbi di ordine sessuale - della non realizzazione, del fallimento, sentiti come segno ineluttabile, come "cifra" del proprio destino.

Dalla vocazione di morte, dal "male oscuro" col quale combatterà per gli altri quattordici anni della sua vita, lo salvano - almeno per ora - l'esercizio letterario e dal maggio del '38 un rapporto di lavoro stabile con la casa editrice Einaudi; continua intanto a pubblicare le sue traduzioni, porta a termine nel 1940 La bella estate, inizia Feria d'agosto, pubblica nel 1941 Paesi tuoi. Richiamato alle armi e congedato perché affetto da asma, dall'8 settembre alla Liberazione si rifugia prima a Serralunga con la famiglia della sorella, poi in un collegio di padri somaschi a Casale Monferrato, estraneo a quanto succede nel paese, lontano da compagni di lavoro ed amici che si sono impegnati nella Resistenza. È certamente un'estraneità non priva di conflittualità, come dimostra la trascrizione che di questa esperienza egli farà ne La casa in collina, redatta nel 1947-48. Ripreso, dopo la Liberazione, il lavoro alla Einaudi - ma amici come Leone Ginzburg e Giaime Pintor o come il suo giovanissimo alunno Gaspare Paietta sono morti nella Resistenza - Pavese dà prova di notevole capacità organizzativa e di grande dedizione al lavoro, aderisce a quel clima di speranze e di fiduciose attese che fu proprio di tanta parte della società italiana e di tanti intellettuali, si iscrive al PCI e svolge la sua attività - particolare non secondario - alla sezione torinese intitolata a Gaspare Paietta. In tutto questo c'erano forse il tentativo di riscattare di fronte agli amici e a se stesso la mancata presa di posizione ai tempi della Resistenza e, certamente, il bisogno di rompere una condizione di interiore solitudine che peraltro veniva ambiguamente sentita come condanna e come vocazione. (E nel Mestiere di vivere coesistono al riguardo testimonianze significativamente contradditorie: 15 maggio 1939 «tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri»; 8 febbraio 1946: «Certo avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e ti accompagna»; 25 aprile 1946: «Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio d'essere solo. L l'unico vero bene quotidiano».) Di questi conflitti e dei tentativi di chiarificazione o di complicazione che eglí attuava attingendo a studi di vario genere - dai classici all'antropologia alla psicoanalisi - fornisce testimonianza e trasfigurazione la sua produzione narrativa di quegli anni. Sul piano biografico al successo professionale, come scrittore (nel 1950 vince il premio Strega con La bella estate), fanno da contraltare le frustrazioni affettivo-sentimentali; l'ultima, nel 1950, è quella collegata all'americana Constance Dowling. Ma intanto, in due mesi, alla fine del 1949 aveva scritto La luna e l 'falò, coagulando con rara felicità di esiti i suoi motivi di fondo e approdando ad una sorta di ultima spiaggia: ora egli stesso svuotava dal di dentro quei miti - le memorie ancestrali, l'infanzia, il paese - che si era costruito. La delusione amorosa per la Dowling - ancora una volta «ciò che è stato si ripete» - cade su questo stato di cose. E nel Mestiere di vivere egli annota i suoi bilanci (16 agosto: «La mia parte pubblica l'ho fatta- ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti») e la sua decisione (18 agosto: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più»): il 27 agosto si suicida in una camera d'albergo a Torino.

 

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