LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO

Cesare Pavese:  I dialoghi con Leucò

Nella breve lettera che Pavese scrisse all'amico Davide Lajolo due giorni prima del suicidio, ad un certo punto si legge: «Se vuoi sapere chi sono adesso, rileggiti La belva nei Dialoghi con Leucò: come sempre, avevo previsto tutto cinque anni fa». Il dialogo citato era stato composto infatti il 18-20 dicembre 1945. Riportiamo qui queste pagine non tanto per gli elementi che esse possono fornire per aiutare a comprendere l'uomo Pavese, quanto invece per testimoniare l'impianto, le tematiche, le modalità espressive dei Dialoghi con Leucò, l'opera di Pavese meno popolare e che invece l'autore prediligeva.

Per una prima lettura (ma si tratta di pagine che di letture ne esigono parecchie...) basterà tener presente: che ognuno di questi dialoghi è preceduto da una breve didascalia dell'autore; che Artemide fu dea venerata in tutta la Grecia classica (ma con ogni probabilità di origine preellenica) il cui nome «era probabilmente un'assimilazione popolare ad artamos = macellaio, uccisore» (Dizionario di antichità classiche di Oxford) e che a lei erano sacre le foreste e le colline ricche di animali selvatici; che delle numerose leggende mitologiche su Endimione, giovane di straordinaria bellezza, la più famosa è quella che lo presenta amato da Artemide; che lo straniero, il dio viandante, è Ermete. Non sfugga nel testo la ricerca di una prosa evocativa, ricca di echi e di un alone poetico.

Noi siamo convinti che gli amori di Artemide con Endimione non furono cosa carnale. Ciò beninteso non esclude - tutt'altro - che il meno energico dei due anelasse a sparger sangue. Il carattere non dolce della dea vergine - signora delle belve, ed emersa nel mondo da una selva d'indescrivibili madri divine del mostruoso Mediterraneo - è noto. Altrettanto noto è che uno quando non dorme vorrebbe dormire i e passa alla storia come l'eterno sognatore.

I Dialoghi con Leucò

II titolo dei Dialoghi con Leucò è quasi sicuramente collegato a una vicenda privata di Pavese: la sua passione negli anni 1945-46 per Bianca Garuffi (Leucotea, e quindi "Leucò" è la grecizzazione di "Bianca"), risoltasi anch'essa in una tormentosa frustrazione (con lei, dopo questa esperienza, avviò un romanzo a quattro mani rimasto incompiuto, Fuoco grande, pubblicato nel 1956). Nei Dialoghi con Leucò i temi di fondo che incontriamo nelle altre opere dì Pavese l'amore, l'infanzia, il passare del tempo, il destino ineludibile ecc. - sono tutti presenti, ma filtrati e complicati attraverso un apporto culturale di grande varietà derivante sia dall'assidua frequentazione dei testi della grecità sia dagli studi di etnologia, di analisi del mito, di storia delle religioni, di psicanalisi ai quali Pavese si era dedicato all'incirca agli inizi degli anni Quaranta (e che sul piano pratico sfoceranno nell'istituzione, da lui voluta, della einaudiana "Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici").

È difficile dare qui un'idea della varietà di motivi e di "timbro" dei vari dialoghi; possiamo soltanto dire che un tema di fondo della produzione di Pavese- il passaggio dall'infanzia (coi suoi miti), alla maturità, che è consapevolezza ma anche frattura - è qui trasferito e in certo qual modo emblematizzato nel passaggio - a cui questi interlocutori in vario modo si rifanno - dal mondo dei Titani (indistinto caos) al mondo degli Dei (razionalità e coscienza del limite). Questi due momenti, questi due stadi - il titanico e l'olimpico - sono parsi ad alcuni critici una ripresa della dialettica dionisiaco/apollineo di Nietzsche: «L'apollineo e il dionisiaco diventano in Pavese l'olimpico e il titanico, e fra i due ordini c'è una sola possibile conciliazione, l'opera d'arte che entrambi li presuppone. E se Pavese attribuisce all'Olimpo una facoltà raziona lizzatrice destinata ad annullare il titanico è perché paventa di esserne posseduto» (Mondo). All'interno quindi di questa complessa architettura culturale (qui fugacemente indicata), gli interlocutori mitologici finiscono con l'affrontare, sia pure attraverso una fitta trama di allusioni e di simboli (che rende spesso ardua la comprensione), i problemi e i conflitti della condizione umana. Si tratta insomma di un tipo di dialogo che può essere rapportato (fu lo stesso Pavese a suggerirlo) alle Operette morali leopardiane. Ma dalle Operette i Dialoghi si distinguono perché, più che alla dimostrazione di una tesi con un serrato impianto argomentativo, essi mirano a suggerire - con l'allusione dotta, con una fitta trama di analogie e soprattutto con una scrittura retoricamente calcolata -stupori, angosce, inquietante senso del destino. Per raggiungere questi obiettivi Pavese si affida soprattutto a una prosa per così dire melodica, nella quale la parola è utilizzata in tutte le sue valenze semantiche e foniche e il ritmo del periodo ha di volta in volta qualcosa di stupefatto, o di solenne, o di arcano: nei Dialoghi Pavese ha dato, della sua capacità di prosatore, una delle prove più alte, anche se non priva di un sospetto di (talvolta eccessiva) sofisticazione.

Nel dialogo riportato non è difficile individuare con una lettura attenta le caratteristiche generali cui sopra abbiamo accennato: da un lato un tema che in Pavese si alimentava di esperienza autobiografica - l'amore e la donna come sgomento, come rivelazione del limite e in definitiva come annientamento, morte (illuminante quanto è detto nella citata lettera a Lajolo) -, da un altro l'impegno a tradurre questo lacerto di vita in forma artistica, con una prosa calibrata di echi e riprese (rr. 15-16: «toccato... toccato», rr. 18-22: «dormire... dormo... dormendo»,- r. 39: «Non diciamo il suo nome. Non diciamolo. Non ha nome»; ecc.) che di frequente si risolve in canto (rr. 11-13: «E tu vai per le strade a quest'ora dell'alba», «quando escono appena dal buio», «e nessuno le ha ancora toccate»; rr. 20-21 : «di ascoltar lo stormire del vento»; r. 24: «io non trovo più pace nel sonno»).

Dopo aver sottolineato l'intensità lirica di questo dialogo, Michele Tondo scrive: «La belva è incentrato sul motivo della rivelazione della donna come rivelazione della morte: a fermarsi alle sole componenti etnologiche che sottendono il dialogo, si corre il rischio di non cogliere tutto il dolente e umanissimo sentimento della donna, nella quale Pavese finisce per assommare tutte le sue aspirazioni, ma il cui sorriso è "incredibile, mortale". Tutto il dialogo respira nel cerchio di una drammatica rivelazione del proprio destino: di qui il tono lento, pausato, come di sbigottita tristezza».

 

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