La Politica in Movimento
di
Marcello Travaglini

Consigliere al Comune di Potenza, eletto come indipendente nella lista del PRC, mi auguro che il ruolo di consigliere comunale che mi accingo a svolgere sia vissuto collettivamente con chi ha condiviso con me i percorsi di questi anni.
Il problema dei rapporti tra partiti e movimento ha suscitato, negli ultimi tempi, un certo interesse soprattutto prima e dopo le ultime elezioni amministrative.
Molte persone che si riconoscono nei “movimenti” hanno scelto di partecipare in prima persona alla vita istituzionale delle nostre città, delle province o anche a livello europeo e questa scelta è maturata più o meno contemporaneamente in diversi luoghi, a volte sostenuta a volte no dai propri gruppi di riferimento. Evidentemente si sono intrecciate ragioni comuni che hanno portato a questa decisione.
Sicuramente i partiti della “sinistra” hanno spinto affinché nelle loro liste ci fosse la presenza di persone “rappresentative” del movimento, per ovvie ragioni (in alcuni casi in modo del tutto strumentale, in altri perché si era effettivamente cresciuti, da Genova in poi, nella costruzione di percorsi comuni). Il viceversa penso vada ricercato nel bisogno di dare maggiore concretezza, contributi più sostanziali al bisogno di cambiamento che il movimento esprime.
Se è vero, infatti, che da Seattle ’99 in poi, è iniziata “una nuova narrazione del mondo”, che i contenuti e le ragioni sono echeggiate in ogni angolo del pianeta, al punto da portare in piazza decine di milioni di persone per dire No alla guerra, senza se e senza ma, è pur vero che tutto questo (tranne alcuni esempi, comunque molto significativi) non si è tradotto in vittorie tangibili: non si è fermata la guerra, né i processi di privatizzazione, di precarizzazione del lavoro, di assalto alle risorse del pianeta. Questa impermeabilità dei governanti del mondo alle pressioni della “società civile” pone senz’altro il problema della efficacia della lotta dei movimenti. Ed in questo senso va vista la scelta di quelle persone che hanno deciso di mettersi in gioco, presentandosi alle elezioni, portando con sé nuovi linguaggi e nuovi metodi, nel tentativo di “contaminare”, anche dal di dentro, le istituzioni.
Quelli che come me non si ritrovano negli schemi della politica tradizionale, che non si identificano o sentono riduttiva l’appartenenza ad un partito o ad un’associazione, hanno trovato nei “luoghi del movimento” lo spazio per un confronto a più voci: scambi di idee, incontri, contatti, relazioni, forum sociali locali, nazionali o mondiali hanno costituito una sostanziale discontinuità con il passato e hanno fatto intravedere la possibilità di una nuova fase politica. E’ questa la vera svolta: abbandono della delega, invasione di campo con i propri corpi, le proprie idee, le proprie modalità, i propri linguaggi, le proprie diversità: il confronto non avviene più solo all’interno delle proprie nicchie autoreferenziali, i punti di vista si mischiano, si confondono tra loro risolvendosi in un fondo di idee comuni, non già frutto di mediazioni, con conseguenti semplificazioni mortificanti, ma piuttosto prodotto di sintesi amplificata delle idee stesse. E’ nella sintesi delle diversità che si è mosso il movimento confrontandosi, a volte con difficoltà attraverso i differenti linguaggi e inventando nuovi luoghi della politica, forum, piazze, assemblee, quartieri, Nuovi Municipi. E’ in questo contesto che è possibile capire come la radicalità di molti cattolici e credenti contro il consumismo sfrenato si sia potuto intrecciare alla radicalità di disobbedienti, antagonisti, ecc.; che la cultura del consumo critico, dell’attenzione ai comportamenti individuali, alla vita quotidiana si siano intrecciati con le istanze dei lavoratori, dei disoccupati, dei migranti; che il no alla guerra sia diventato non solo un rifiuto della violenza dell’impero, ma anche una diversa modalità di portare il conflitto nelle piazze, con la pratica del rifiuto della violenza.
Tutto questo ci fornisce la chiave di lettura per spiegare la sensazionale riuscita delle mobilitazioni nazionali e internazionali degli ultimi anni: milioni di persone sono scese in piazza al di fuori della politica tradizionale.
Mi torna in mente Genova 2001: volti di monache, giovani rasta, signori anziani, lavoratori, donne e uomini di tutte le razze e di tutti i colori, mescolati insieme per dire no all’ingiustizia globale, per un mondo necessariamente diverso. Ma già qualche mese prima, molta gente e varie associazioni, tutte al di fuori dei partiti di governo e dei sindacati confederali si ritrovarono ad organizzare manifestazioni contro le politiche degli organismi che dettano le regole al mondo. A Napoli, il 17 marzo 2001, improvvisa, così parve, si scatenò la repressione delle forze dell’ordine con i primi episodi di gratuita violenza e “tortura”; in sostanza l’inizio dell’intimidazione che proseguirà a Genova. Da quel momento fino a luglio molte persone, sparse su tutto il territorio nazionale, cominciarono ad organizzare forum informativi sulle conseguenze delle politiche liberiste e a divulgare quei numeri che sono diventati icone delle ingiustizie del mondo.
In Basilicata cominciammo a fare lo stesso. Fu costituito il Basilicata Social Forum e molte persone si riaffacciarono, nell’indifferenza della politica dei palazzi, alla politica partecipata. Furono all’epoca organizzati vari incontri e, man mano che il G8 si avvicinava, l’interesse saliva insieme a quella strana sensazione che ti spinge ad agire. Alla fine anche la rappresentanza dei lucani fu numerosa. Le giornate di Genova furono qualcosa di eccezionale: tutto avvenne nel giro di tre giornate nelle quali il re si ritrovò nudo, fu svelata la possibilità di un altro mondo possibile e il re nudo diede libero sfogo alla sua paura, usando una violenza mai vista prima in Italia. In quei tre giorni si capì che il corso della storia si poteva cambiare. Lo capirono meno quei partiti del centrosinistra, DS in testa, che riuscirono a non partecipare alla manifestazione del 21 luglio, malgrado arrivasse dopo la tragica giornata in cui fu spezzata, da un colpo di pistola, la giovane vita di Carlo Giuliani.
Dopo Genova abbiamo portato avanti con entusiasmo l’esperienza del Basilicata Social Forum, interessante e significativa; si sono create nella regione occasioni di relazioni e contatti che in diverse situazioni hanno poi trovato autonome evoluzioni. Ma anche in questa occasione ci siamo spesso scontrati con le logiche della politica tradizionale: le associazioni strutturate (partiti e non) sono spesso schiacciate su atteggiamenti più attenti alla propria visibilità e al proprio tornaconto che all’obiettivo di cambiare il mondo. L’esperienza del Basilicata Social Forum, così come quella degli altri fori sociali italiani, andrebbe analizzata più approfonditamente per capire come il movimento prova a darsi una qualche strutturazione. Resta il fatto che la parentesi del Basilicata Social Forum ha lasciato aperta la necessità di individuare ulteriori percorsi possibili.
La decisione di partecipare alle elezioni comunali è, per quanto mi riguarda, un altro esperimento sulla linea della ricerca di nuove possibilità di cambiamento. Avrà successo se il mio ruolo di consigliere comunale sarà vissuto collettivamente e nella condivisione dei percorsi futuri. La scommessa in molti casi è quella di poter aggirare la morsa nella quale i partiti costringono le amministrazioni, a cominciare dai municipi, attraverso il diretto contatto con la gente, incentivando in tutti i modi la partecipazione propositiva, nel tentativo di ridisegnare con le proprie mani, i propri saperi e la propria mente le città e i territori, per migliorare le condizioni di vita delle donne e degli uomini che ci vivono.
Oggi il movimento ha bisogno di qualche successo ottenibile forse anche attraverso un confronto alla pari con i partiti, che miri a rompere le logiche dell’appartenenza e della competizione, nella consapevolezza che tale processo richiederà tempi lunghi e sperimentazione di nuove modalità: “camminare domandando” come direbbe Marcos dal Chiapas.
Il movimento dei movimenti è forse l’anomalia dalla quale potrà nascere una nuova comunità, in cui diverso sarà il significato che daremo a termini come sviluppo, pace, benessere, conservazione, rispetto, equilibrio, ed in cui anche alla terra, all’acqua e all’aria impareremo a domandare.
In definitiva penso che questa esperienza istituzionale non debba essere vista semplicemente come un modo per rinnovare la classe politica, ma piuttosto come un tentativo di cambiare le regole del gioco verso forme di democrazia sostanziale, convinti come siamo che l’obiettivo non è prendere il potere ma cambiare il mondo.

settembre - dicembre 2004