“Che cos'è la verità?”
di
Francesco Mancini

In diverse occasioni è capitato di sottolineare che alle guerre ed alle spese per armamenti si può porre fine soltanto facendo venir meno il flusso di risorse finanziarie e, quindi, di ricchezza, che, attraverso i sistemi bancari e le altre istituzioni finanziarie, pervengono dal mondo intero agli apparati affaristico-militari e soprattutto a quello controllato dalle multinazionali statunitensi.
Come noto, infatti, il complesso militare e quello spionistico – o di intelligence, come si preferisce denominarlo - degli USA sono di gran lunga i più potenti e costosi del mondo a livelli, da decenni non paragonabili a quelli degli altri paesi, ormai perfino se considerati nel loro complesso.
In pratica, non solo le risorse di uomini d’affari e finanzieri, ma anche quelle di umili risparmiatori, lavoratori e pensionati, per lo più inconsapevoli, vengono distolti dall’acquisto e dalla produzione di beni e servizi atti al soddisfacimento dei bisogni quotidiani, per essere impiegate nella fabbricazione e nel traffico di armamenti e, più in generale, nel mantenimento e nella espansione dei complessi affaristico-militare-spionistici.
L’azione dei pacifisti e di quanti si oppongono alla globalizzazione degli affari da parte delle multinazionali può essere quindi realmente efficace solo se indirizzata al sabotaggio del debito pubblico, in particolare di quello statunitense, e delle emissioni azionarie ed obbligazionarie delle imprese di armamenti.
Non esiste un altro mezzo efficace e non è presuntuoso o velleitario affermarlo.
Non è, a rigore, neanche una affermazione semplicisticamente classificabile come di sinistra o, men che mai, di destra, perché tanto lineare ed ovvia da rasentare la banalità.
Se affermazioni di questo genere appaiono temerarie o estremistiche o ingenue o faziose o utopistiche e, quindi, non rigorose né “scientifiche”, ciò accade per il fatto che esse sono assai rare ed isolate nel dibattito politico ed economico corrente.
Da ciò, l’opinione pubblica trae l’erronea convinzione che si tratti di opinioni e posizioni, magari un po’ balzane, di una qualche esigua minoranza.
Questa convinzione è del resto rafforzata dal fatto che l’azione presentata come l’unica efficace e risolutiva non venga presa in seria considerazione né proposta o anche solo richiamata dai tanti che hanno assunto il ruolo di guida delle opposizioni e di critica e denuncia del potere politico, militare, affaristico e finanziario dominante nell’età contemporanea.
Un tale comportamento appare inquietante, dal momento che semmai si arriverà ad una situazione di pace stabile, questo potrà accadere solo se ai fabbricanti e trafficanti di armamenti verranno meno le risorse per continuare la loro attività, dato che – sembra di poter capire – è proprio con le armi che si fanno le guerre.
Non è da escludersi che i guru dell’opposizione possano talvolta essere interessati all’esercizio della loro abilità dialettica e quindi alla valorizzazione della propria produzione intellettuale ed alla demolizione delle tesi di avversari e concorrenti, più che alla soluzione dei problemi.
Per altro verso, l’opinione dei non addetti ai lavori è negativamente e pesantemente condizionata dalla scarsa familiarità, diffidenza ed avversione non solo verso gli argomenti e gli strumenti dell’economia e della finanza, ma anche nei confronti delle discipline economiche in generale.
Del resto, queste ultime, anche o soprattutto presso le classi colte, spesso vengono considerate né carne né pesce e collocate in una specie di limbo, in quanto ritenute prive delle caratteristiche distintive sia delle discipline umanistiche che delle scienze esatte.
Non ci sarebbe da meravigliarsi, pertanto, se da una qualche indagine di opinioni, dovesse risultare che la gente comune, colta o incolta, sia oscuramente convinta che in materia economica e finanziaria tutte le opinioni possano ritenersi legittime e che, conseguentemente, le scelte di schieramento siano più che altro da ascrivere a motivi di telegenicità di un qualche personaggio particolarmente abile a simulare e dissimulare passioni davanti alle telecamere.
Per lo più i non addetti ai lavori non immaginano neanche lontanamente che anche per le discipline economiche, come per le altre scienze esiste un corpus di nozioni e proposizioni su cui c’è concordanza pressoché generale nella comunità degli economisti.
Nell’ambito di tale comunità, soprattutto la scuola istuzionalista si è dedicata ad analizzare la genesi, la struttura ed il funzionamento delle istituzioni economiche, monetarie e finanziarie ed i comportamenti ed i moventi degli uomini d’affari e delle imprese.
Questa scuola di pensiero, la cui fondazione viene fatta risalire alla pubblicazione nel 1924 dell’opera The trend of economics di Rexford Tugwell, ha come riconosciuto precursore il grande sociologo ed economista Thorstein Veblen e come esponenti di rilievo, fra gli altri, John Galbraith, Oliver Williamson, Ronald Coase, Douglass North, James Buchanan, Friedrich von Hayek.
Non si può legittimamente affermare di conoscere il pensiero economico del Novecento se non si conoscono i risultati del lavoro di ricerca di questi studiosi, come degli esponenti di altre correnti teoriche, che pure hanno contribuito ad elaborare quel complesso di teoremi e proposizioni in cui la generalità degli economisti si riconosce.
In particolare, l’opera degli economisti istituzionalisti, sia di destra che di sinistra, ha smontato molti dei miti del pensiero economico tradizionale, dimostrando fra l’altro come la prassi degli affari ed il profitto siano in contrasto e si reggano proprio sulla violazione delle regole della sovranità del mercato, della libera concorrenza e dell’iniziativa privata, di cui pure gli imprenditori si dichiarano i portabandiera.
A puro titolo di esempio, si riportano alcune citazioni da un’opera di Ronald Coase, premio Nobel 1991 per l’economia, risalente agli anni trenta ed entrata stabilmente nel corredo teorico di ogni economista degno di questo nome, che evidenziano il contrasto fra la natura e la logica operativa dell’impresa e le regole del mercato e del meccanismo dei prezzi:
“l’impresa è una istituzione centralizzata e retta da principi gerarchici alternativi al mercato cui si ricorre quando i costi di transazione diventano troppo alti”;
“… il funzionamento di un mercato ha un costo …, creando un’organizzazione e permettendo a una certa autorità (un “imprenditore”) di allocare le risorse, vengono risparmiati i costi del mercato.”
“Queste, dunque, sono le ragioni per cui organizzazioni come le imprese esistono in un’economia di scambio in cui viene generalmente ipotizzato che la distribuzione delle risorse è “organizzata” dal meccanismo dei prezzi. Un’impresa, quindi, è costituita da un sistema di relazioni che nascono quando la destinazione delle risorse dipende da un imprenditore.”
Per lo più, per ovvie ragioni, la gente comune e i non addetti ai lavori non conoscono i risultati della evoluzione delle discipline economiche del Novecento, così come in genere non conoscono i progressi dell’astronomia e dell’astrofisica contemporanee.
E tuttavia, politici, politologi e mass media per lo più non rinunciano ad influenzare ed indirizzare le idee della pubblica opinione, con affermazioni, punti di vista e schemi teorici che hanno la stessa validità ed attualità, mutatis mutandis, della teoria geocentrica o delle convinzioni aristoteliche sulla forma della Terra.
Ma la mancanza di conoscenza e di interesse e talora il disprezzo per le discipline economiche sono tali da non consentire in molti casi neanche di padroneggiarne i fondamenti e rudimenti più elementari.
Per dirne una, gli stessi lavoratori e pensionati che sono vittime di quelle particolari rapine di stato, che in Italia vanno sotto il nome di riforme previdenziali, così come politici, politologi, sindacalisti e mass media che pretendono di rappresentarne gli interessi ed esprimerne le posizioni, hanno per lo più dimostrato di non conoscere veramente la natura ed il funzionamento di un sistema previdenziale.
In particolare - si parla ovviamente di quanti fra loro siano in buonafede – essi non sono stati in grado di capire e spiegare, in occasione dell’ultima cosiddetta riforma, che le pensioni non fanno parte della spesa pubblica, ma sono un semplice giro contabile del valore attualizzato dei contributi versati dagli assicurati e dai loro datori di lavoro.
Quando si è cercato di spiegare come e perché rapportare le pensioni al totale della spesa pubblica o al prodotto interno lordo sia un puro e semplice raggiro, si è andati a cozzare contro il più solido dei muri di incredulità e scetticismo.
La solidità di quel muro si comprende, se si considera che la rapina e l’inganno in materia di previdenza sono stato storicamente praticati ed avallati, in tempi diversi, da tutte le forze politiche e sociali, e che nessuna di esse vuole precludersi la possibilità di ripetere lo stesso genere di “giochetto”, magari anche in tempi ragionevolmente ravvicinati.
L’ipotesi della buona fede non può reggere, evidentemente, nei confronti degli economisti, almeno non per quelli preparati e competenti.
Va invece tenuto in debito conto che per gli economisti, come fra i politici, i politologi, gli storici ed i cultori di altre cosiddette scienze umane, per lo più non vale la regola di dire sempre ciò che si pensa essere vero, ma soltanto ciò che si ritiene opportuno o utile o in linea con i fini e gli interessi della propria fazione o del proprio datore di lavoro.
Accade, perciò, che, nei convegni e dibattiti, davanti al pubblico o, ancor più, davanti alle telecamere, gli economisti siano reticenti su argomenti sgradevoli e forzino le proprie convinzioni ed acquisizioni teoriche, fino a sostenere tesi destinate magari ad essere totalmente rinnegate al buffet o mentre ci si sciacqua le mani nel bagno.
In simili occasioni è capitato di sentire in camera caritatis direttori generali e presidenti di banche affermare del tutto spontaneamente, senza essere stati in alcun modo provocati, il carattere intrinsecamente fraudolento delle istituzioni bancarie e finanziarie dell’era moderna e contemporanea.
Non si tratta del resto di punti di vista campati in aria ma ricavati da questa gente direttamente dalla propria prassi quotidiana, oltretutto in linea con quanti, come Marc Bloch, hanno rilevato come le caratteristiche distintive del sistema capitalistico moderno possano qualificarlo come “un regime che morirebbe in caso di una verifica simultanea di tutti i conti”.
Del resto, il numero e le dimensioni dei recenti scandali finanziari sembrano confermare in pieno l’esattezza della definizione.
Per ciò che concerne specificamente la fabbricazione ed il traffico di armamenti e, a maggior ragione, le guerre, gli economisti, purché sani di mente e competenti, sanno bene che tali attività distruggono, non producono ricchezza.
Essi sono altrettanto consapevoli che gli affari ed i profitti si possono fare sia producendo che distruggendo ricchezza.
Le risorse che vengono girate alle multinazionali delle armi dai governi, finanziandosi con il debito pubblico, costituiscono nello stesso tempo lo strumento ed il bottino della distruzione di ricchezza.
Questo malloppo viene pagato tramite la emissione di titoli del debito pubblico, che devono essere collocati sui mercati finanziari, ossia venduti a qualcuno, che in cambio di quella carta creata dal nulla dia denaro sonante.
L’entità di queste emissioni può essere ovviamente tale da richiedere un massiccio ricorso ai mercati finanziari esteri e, quindi, anche al denaro appartenente a risparmiatori, lavoratori e pensionati di altri paesi.
Questo, nel caso degli Stati Uniti, ha comportato una notevole svalutazione del dollaro, in particolare nei confronti dell’euro; rispetto a questa moneta, infatti, il dollaro ha perso un terzo del suo valore, dal momento che attualmente con un euro si acquistano circa 120 centesimi di dollaro, mentre prima della ultima formidabile escalation delle spese militari se ne acquistavano circa 90.
Gli economisti sanno benissimo che le cose sono andate in questo modo e non altrimenti.
Eppure, è tutt’altro che infrequente sentir affermare da molti di loro che la svalutazione è frutto delle manovre monetarie della Federal Reserve statunitense e delle alchimie del presunto mago Greenspan, che in tal modo avrebbe inteso favorire le esportazioni e scoraggiare le importazioni negli USA.
Si tratta di una bugia dalle gambe cortissime.
Nessuno sa meglio di quegli stessi economisti che la bilancia commerciale statunitense mai o rarissimamente ha raggiunto deficit così elevati come nell’ultimo periodo, corrispondente e successivo alla recente svalutazione del dollaro.
Un economista serio e competente sa bene che economia ed affari sono cose assai diverse.
Sa anche perfettamente che il prodotto interno lordo (PIL) di una nazione è un indicatore del volume d’affari non della ricchezza.
Vale la pena di ribadire che nel conteggio del PIL rientra tutto ciò che viene fatturato, sia per la produzione che per la distruzione di ricchezza.
È appena il caso di rammentare che si fatturano anche colpi di stato, omicidi, stragi, brogli elettorali, corruzioni ed altre attività illecite e criminali, ovviamente contabilizzate in voci di spesa per evidenti ragioni necessariamente assai vaghe.
Per le ragioni esposte, nulla vieta che, proprio mentre la nazione sta andando a rotoli, il volume degli affari e quello dei profitti siano particolarmente elevati.
Già nel 1776 nella Ricchezza delle Nazioni, Adam Smith ammoniva che “la quota del profitto non aumenta con la prosperità né diminuisce col declino della società” e che, “al contrario, è per natura bassa nei paesi ricchi e alta in quelli poveri, ed è sempre massima nei paesi che vanno più in fretta verso la rovina”.
Si può credere, pur con qualche difficoltà, che una parte consistente o anche maggioritaria degli economisti contemporanei pensi in buona fede che il padre fondatore si sbagliasse o, almeno, esagerasse nell’esprimere quelle convinzioni.
Ciò che, invece, non è assolutamente credibile è che essi non abbiano dubbi o riserve mentali quando celebrano i risultati e le prospettive dell’economia americana.
Bisogna dire, al riguardo, che anche il più scalcinato degli economisti o un qualunque ragioniere sa che la ricchezza è data da ciò che si possiede meno i debiti, non da ciò che si è prodotto in una unità di tempo, che – si vorrà dare atto – solo per un arbitrio ritenuto necessario a fini contabili e statistici viene convenzionalmente rapportata ad un anno.
Inoltre, anche la variazione di ricchezza relativa ad una unità di tempo non è data dal prodotto o dal fatturato, ma dalla differenza fra ricavi e costi, ossia, in altri termini, fra ciò che si è prodotto e ciò che si è distrutto.
E, come noto, nulla assicura che tale differenza debba essere necessariamente positiva, cosicché la ricchezza può sia aumentare che diminuire nell’unità di tempo.
Nel caso degli Stati Uniti, contestualmente alla colossale distruzione di ricchezza connessa alla escalation della spesa per armamenti e per le guerre, oltre che per il mantenimento e l’espansione dell’apparato militare e del pletorico e costosissimo complesso spionistico, il debito pubblico ha registrato negli anni dell’amministrazione Bush un altrettanto deciso incremento.
Oltre a ciò, si deve considerare che debito privato, deficit pubblici e disavanzi della bilancia commerciale hanno pure raggiunto livelli inquietanti.
Non si può che restare sconcertati nel constatare quanto pochi siano gli economisti che hanno il coraggio di affermare la più semplice delle verità, che essi conoscono benissimo, ossia che l’economia statunitense è in pieno sfacelo e che il principale responsabile di tale catastrofe è la politica imperiale del suo complesso affaristico-militare.
Questo apparato, per sua stessa natura, è il nemico più potente, implacabile e mortale di tutti i popoli della terra e dello stesso popolo statunitense.
Suo scopo non è in alcun modo la tutela del benessere, della ricchezza, della democrazia e della sicurezza di quel popolo ma l’arricchimento personale, familiare ed amicale dei propri esponenti – non a caso il professor Krugman lo definisce “crony capitalism” ossia capitalismo dei compari – senza alcuna vera preoccupazione per l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale delle stesse imprese controllate, che, infatti, ben spesso vengono depredate e fatte fallire.
Valutazioni del tipo appena esposto possono apparire eccessive o estremistiche o faziose.
A maggior ragione, perciò, vale la pena di considerarle seriamente e di metterle alla prova.
A tale scopo, si può provare ad adottare coerentemente quel principio plurimillenario che esorta a considerare gli atti anziché le parole o, meglio, gli effetti pratici più che quelli teorici delle idee e dei principi strumentalmente sbandierati e non solo nel campo dell’economia e della finanza.

settembre - dicembre 2004