Vicende, logiche e inattualità del territorio dell’Alta Murgia
di Biagio Salvemini

gli spazi inutili e la loro storia
L’Alta Murgia corrisponde ad una delle due lacerazioni vistose della trama storica, per il resto relativamente continua, dell’insediamento pugliese.
Come la pianura del Tavoliere, essa respinge l’insediamento ai suoi margini. I 12 grossi centri collocati a corona sembrano volgere le spalle alla pietraia murgiana, poverissima di risorse primarie come la terra coltivabile e l’acqua superficiale, e di risorse ‘integrative’ come quelle del bosco, delle zone umide, del monte. Essi emergono dentro una vivace e ricca vicenda di costruzione e diffusione di centri abitati e manufatti produttivi che l’archeologia e la storiografia vanno scoprendo, ma che si svolge in larghissima parte sui bordi dell’altopiano, a stretto contatto con le risorse degli ambienti che lo circondano da ogni lato: la fossa bradanica a Sud-Ovest; le prime balze collinari subcostiere di Nord-Est, dove l’agricoltura del grano e del pascolo si contamina con l’agricoltura dell’arbusto e dell’albero; le stesse terre disabitate, pesanti all’aratro ed infestate dalla malaria, della valle dell’Ofanto e del Tavoliere a Nord-Ovest.
A giustificare questa interruzione improvvisa dell’insediamento – la forma più vistosa dell’umanizzazione dello spazio – per secoli si è riproposto il paradigma dell’inutilità di quelle terre all’uomo; una inutilità ben più radicale di quella del Tavoliere.
La vasta pianura settentrionale pugliese può produrre, nel secondo Cinquecento, l’immagine di un’area “malissimo abitata”, priva di alberi ed acqua utilizzabile ma “infettata” da acqua stagnante, dagli insetti e dalla malaria; dunque una “provincia … in quanto a sé la più inutile che vi sia”. D’altro canto essa è “provincia assai giovevole alle altre del regno”: è “granaio non solo di Napoli e del regno, ma di molte città d’Italia”, ed è al tempo stesso capace di nutrire “la maggior parte del bestiame del regno” (C. Porzio, Relazione del Regno di Napoli al Marchese di Mondesciar Viceré di Napoli tra il 1577 e il 1579, in Id., La congiura dei baroni del Regno di Napoli contro il Re Ferdinando Primo e gli altri scritti, a cura di E. Pontieri, Napoli 1964, p. 326). Al contrario l’Alta Murgia appare inutile, oltre che a se stessa, agli altri. Le descrizioni e le compilazioni geografiche che inseguono paesaggi umanizzati in Terra di Bari – ad esempio quella di metà Cinquecento di Leandro Alberti (L. Alberti, Descrittione di tutta Italia … , Bologna 1550, in particolare pp. 218 ss.) – semplicemente non la percepiscono: seguono l’incisiva umanizzazione dei bordi, ma il cuore di quello spazio, appena scalfito da una umanizzazione superficiale, episodica, instabile, appare semplicemente un vuoto.
Fra Sette e Ottocento questo paradigma viene rielaborato ed argomentato da discorsi condotti su registri diversi e livelli vari di sofisticazione, ma accomunati da un criterio di giudizio nuovo: la quantità di “pubblica felicità” che una società può ricavare dall’ambiente in cui è insediata, sotto la guida di governi illuminati o sotto lo stimolo degli interessi individuali mediati dalla “mano invisibile”. Osservato con uno sguardo orientato in questo modo, il paesaggio murgiano diventa uno di quegli spazi, tutt’altro che rari sul contorno mediterraneo, che non è possibile riscattare né con l’azione dei governi né dando libero corso all’interesse privato: uno di quegli spazi che il progresso deve porre ai margini. La Murgia collocata fra gli agri di Andria, Barletta e Corato, che sale verso l’interno fino a Castel del Monte, presenta, in una relazione di primo Ottocento (Relazione di Andrea Modula, del Commissariato civile del Tavoliere, in P. Di Cicco - a cura di -, Il Tavoliere di Puglia nella prima metà del XIX secolo, Foggia 1966, pp. 47-8). un’immagine sinistra e disperata:
de’ frequenti e poco interrotti strati di calcare, delle terre in pendio e spesso elevate in modo che, soggette
all’urto de’ venti impetuosi, veggono aduggiare la vegetazione ed inaridire le piante al momento stesso in cui si
sviluppano, de’ macigni rotti dalla mano dell’uomo per piantarvi in mezzo degli alberi, in qualche punto degli
strati di argilla rossa, che fra i tufi e le pietre tiene luogo di terreno vegetabile … è solo nelle valli … e nelle
poche pianure … che può rivenirsi della terra atta ad esser posta a profitto.

Il fatto che gruppi umani, per quanto sparuti e residuali, tentino di “porre a profitto” ambienti di questa natura, provoca in osservatori, amministratori, viaggiatori ormai emancipatisi dalle culture e dalle pratiche del gran tour e lettori di libri di economia politica, afasia o meraviglia. Nei casi culturalmente più elaborati, la modesta umanizzazione di quei paesaggi viene configurata tramite la categoria del “paradosso”, destinato ad una particolare fortuna nelle scienze sociali che fra Otto e Novecento si vanno istituzionalizzando e trasformando in discipline accademiche: ad esempio nel robusto apparato concettuale del grande geografo francese di primo Novecento Albert Demangeon (Cfr. A. Demangeon, La géographie de l’habitat rural (1927), in Id., Problèmes de géographie humaine, Parigi 1947, in particolare p. 162). La tradizione meridionalista, e molti studi che ancora oggi vi si richiamano in maniera più o meno esplicita, si collocano su una linea non dissimile, insistendo in raffigurazioni di questi ambienti “paradossali” fondate, piuttosto che sull’analisi delle loro logiche e delle loro vicende, sulla misurazione della loro distanza da un qualche modello di spazio umanizzato presupposto come ‘normale’ e positivo.
Spazi come quelli murgiani rischiano in questo modo di essere due volte vittime dei processi di modernizzazione. Essi costituiscono, da un lato, una delle tante aree emarginate dallo sviluppo e dai violenti processi di gerarchizzazione – culturale e sociale ma anche territoriale – che lo accompagnano; aree rese ‘inutili’ e quindi soggette alle aggressioni, alle sperimentazioni speculative, ai sogni ingegneristici di una loro piena rifunzionalizzazione ai bisogni ed alle forme nuove di vita. Dall’altro questa ‘inutilità’ tende a diventare, spesso anche allo sguardo attrezzato delle scienze sociali costruitesi dentro i processi stessi di modernizzazione, un dato naturale, iscritto nei tempi lunghissimi della geologia, della pedologia, della climatologia. Le ragioni eventualmente proposte per la loro salvaguardia e conservazione andrebbero pertanto ricercate nelle associazioni erbacee e biologiche che esse custodiscono, ben più che in ciò che gli uomini vi hanno lasciato.
Obbiettivo di queste pagine non è quello di rovesciare questo paradigma, a suo modo robusto, capace di cogliere aspetti importanti dello spazio murgiano, ma di storicizzarlo. L’’inutilità’ della Murgia non è una sua vocazione naturale ma una costruzione culturale e sociale, da collocare in tempi e contesti da precisare. L’intrico dei segni depositati nei millenni della presenza umana per lunghe fasi si sfilaccia, diventa inconsistente o episodico; in altre fasi, a saperli guardare, essi si infittiscono, si addensano in luoghi puntuali o lineari, si organizzano fino ad assumere un carattere sistemico, ed alludono a forme di utilizzazione incisive. L’ultima fase di addensamento e sistematizzazione dei segni dell’uomo – quella compresa fra il XV ed il XIX secolo – è anche quella più efficacemente documentabile e leggibile, certo a fatica, ancora nell’ambiente devastato di oggi. E, di conseguenza, è quella che con più ragione richiede decifrazione puntuale, salvaguardia, progettazione.

il palinsesto dei poteri
L’umanizzazione, di questo come di ogni altro ambiente, non è descrivibile solo come interscambio fra gruppi sociali e risorse naturali mediato dal livello e dalla qualità delle tecniche e dei saperi disponibili. Istituzioni, poteri e culture vi giocano un ruolo fondamentale, contribuiscono in maniera decisiva a dar forma all’insediamento ed alla costruzione del paesaggio.
Una parte consistente del paesaggio murgiano di età moderna ha le sue premesse nei tempi della “mutazione feudale”. La ripresa, a partire dall’XI secolo, dello slancio demografico e della valorizzazione agricola della terra consegnata nell’alto medio evo alla silva ed al saltus coincide, in parti consistenti dell’Europa, con il collasso dei poteri che hanno vigore su aree vaste, con l’emergere di poteri signorili diffusi e la sistemazione della rete parrocchiale. La nuova geografia insediativa si va definendo in un rapporto più stretto con questa geografia istituzionale che con la geografia delle risorse primarie. E’ attorno ai nodi di questa quadrettatura istituzionale minuta e regolare, intorno alle chiese parrocchiali ed ai castelli signorili, che prendono forma, si “incellulano”1, i villaggi – la forma insediativa più importante dell’Europa pre-industriale. (E’ un concetto sul quale è tornato numerose volte R. Dossier: cfr., ad esempio, il suo Paysans d’occident, Xie-XIVe siècle, Parigi 1984. Sulla Puglia fra alto medio evo e prima età moderna cfr., fra l’altro, J.-M. Martin, La Pouille du Ve au XIIe siècle, Roma 1993; R. Licinio, Uomini e terre nella Puglia medievale. Dagli Svevi agli Aragonesi, Bari 1983). Una variante di questo processo che prevale nell’Italia non comunale, in particolare nel Mezzogiorno appenninico, è quella dell’”incastellamento” dei gruppi umani sui cucuzzoli collinari.
In Puglia, in particolare in quella murgiana, il processo ha una qualità diversa non solo a causa della scarsità dei luoghi su cui incastellare, ma anche per il prevalere di forme insediative certo non paragonabili a quelle dei comuni centro-settentrionali, ma dotate di autonomia politica e dimensione ben maggiori di quelle dei “castelli”. In larga parte della Puglia il collasso dei poteri ampi nella sostanza non c’è stato. Il potere bizantino, prima col tema di Langobardia poi con il catapanato d’Italia, non consegna i luoghi a milites e vescovi, ma seleziona alcuni centri in cui situare le articolazioni della sua macchina amministrativa. Vecchie civitates ne ricevono stimoli importanti e si rianimano, alcune vengono ‘inventate’. Le più importanti tendono ad esercitare in proprio una parte del comando politico. Al tempo stesso, esse diventano centri propulsori della riconquista dello spazio a fini agro-pastorali, e diffondono il popolamento propagginando, a partire dai primi gradoni collinari, insediamenti di livello gerarchico inferiore e ad essi sottoposti: i “casali”. Sostenuto da questa armatura politica, il paesaggio comincia a riprendere forma seguendo in parte le tracce del periodo tardo-antico. (Di grande utilità, anche per storia recente del territorio pugliese: G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari, 1996).
Emerge una economia rustica capace di alimentare circuiti ben più vasti di quelli locali: gli olivi tornano a diffondersi sulla costa, il grano non è più un elemento di un paniere di beni da autoconsumare ma ridiventa coltura specializzata destinata a consumatori lontani e fortemente monetizzata; contadini e massari si spargono anche nelle pianure delle terre nere ostili, dove fanno loro concorrenza, oltre agli animali locali, le pecore abruzzesi che dopo secoli, a partire dal Duecento, sono tornate a transumare.
La feudalità, quando arriva, non è il prodotto del collasso dei poteri centrali, ma, al contrario, uno degli elementi di una nuova strutturazione sovralocale del comando politico. Lo stato normanno dà forma al territorio inquadrandolo, oltre che in distretti feudali e militari, in circoscrizioni giudiziarie, ed i suoi ufficiali, insediandosi in centri strategicamente disposti, contribuiscono a farvi crescere funzioni direzionali e, indirettamente, ad alimentare le loro pretese di autonomia. Così, a differenza che nei borghi incastellati, il castello feudale diventa un carattere certo imponente del panorama dei centri pugliesi, ma non lo riassume e non lo domina senza residui: esso è un elemento di una dialettica plurale, simbolicamente e materialmente minaccioso perché custodisce un potere legittimamente armato, ma oggetto di contestazioni, rivolte e conflitti acuti. Quando, con gli Angioini, il potere centrale si indebolisce e la feudalità comincia a dar vita a grandi “stati” semiautonomi, i signori non avranno di fronte una campagna su cui esercitare giustizia e da cui estrarre redditi, ma un territorio irto di poteri con cui confrontarsi anche quando i luoghi in cui sono situati sono formalmente ad essi infeudati. L’indebolirsi del centro tende a favorire tutti i poteri diffusi, non solo quelli feudali ma anche, dove hanno assunto consistenza, quelli, per così dire, urbani. Il carattere di “universitates” dei centri abitati, cioè la loro qualità di soggetto collettivo capace di esprimere autogoverno ed essere titolare di risorse, viene largamente riconosciuto ed ufficializzato. Le “universitates” affermano pretese su spazi che cercano di definire e confinare, e su di essi fanno valere il proprio potere, sul piano della efficacia e della legittimità, di fronte ai poteri dei signori e del re. Nell’ambito dello spazio di pertinenza dei centri, i diritti di possesso individuale sulla terra, il demanio regio, il demanio signorile, i possessi ecclesiastici coesistono con gli spazi patrimoniali nella disponibilità dell’“università” e col demanio “universale” indisponibile perché di pertinenza di tutti coloro che possono dimostrare piena appartenenza al corpo locale. E del resto, la diffusione e molteplicità dei diritti legittimi opponibili nei tribunali è alimentata dal precoce dissolversi della condizione contadina servile e dal netto prevalere della condizione libera in un contesto di monetizzazione e mercantilizzazione spinta della produzione. Così i diritti di disposizione sulle risorse territoriali si sovrappongono e si intrecciano costruendo un seminario di conflitti. Violenze e prepotenze con mobilitazione di clienti e protettori, insieme al ricorso ad ogni livello giurisdizionale, sono caratteri di una quotidiana dialettica sociale che vede i “cives” partecipare come attori di primo piano, e non sempre nel ruolo delle vittime predestinate.
La grande crisi trecentesca rappresenta una minaccia decisiva al pluralismo territoriale pugliese. Essa non è semplicemente un episodio della vicenda ciclica di avanzamento ed arretramento della valorizzazione dell’ambiente, dal momento che modifica, una volta per tutte, un elemento di fondo della precedente crescita insediativa: la articolazione e la connessione fra centri dominanti e casali. Il crollo della popolazione non è proporzionale nei singoli luoghi: centinaia di casali scompaiono, la gerarchizzazione fra quelli che sopravvivono è violenta, e qualcuno di essi finisce per collocarsi su un livello elevato della scala onorifica e politica dell’insediamento. La corona dei dodici centri attorno all’altopiano murgiano assume la fisionomia a noi familiare. Gli abitanti dei casali in disfacimento si rifugiano dentro le mura dei centri di riferimento, e con essi vi si trasferiscono depositi, mulini, tappeti, a volte palmenti e rifugi di animali. Due grossi edifici ad utilizzazione discontinua, la masseria e lo jazzo, surrogano in qualche misura la presa diretta e continua che il casale e la sua edilizia minuta e diffusa realizzavano sul suolo. E comunque, jazzi e masserie riescono solo in parte a sdrammatizzare l’opposizione, ormai nettissima, fra spazio abitato e spazio disabitato, fra i luoghi dell’abitare affollati di uomini ed i luoghi deserti del lavorare.
In queste aree durissimamente colpite dalla crisi demografica e nelle loro campagne deserte, in particolare nei due strappi vistosi della rete insediativa che appaiono ora ancora più netti – quelli corrispondenti al Tavoliere ed all’Alta Murgia - diventa possibile per i poteri centrali la concezione e la sperimentazione di forme di costruzione dall’alto del territorio di inaudita incisività. La Dogana della Mena delle Pecore, istituita nel 1447 da Alfonso il Magnanimo a fini fiscali, utilizza la nuova struttura dell’insediamento e contribuisce a renderla irreversibile. Le “locazioni” di Andria e Canosa, i “ristori” delle Murge di Terlizzi, Grumo, Toritto, Spinazzola, del Parco di Minervino e del Bosco di Ruvo, il grande “riposo generale” della parte nord-occidentale dell’Alta Murgia, consegnano terra potenzialmente utilizzabile da parte degli insediamenti collocati sull’orlo dell’altipiano, a “forestieri” dotati di una forte identità - ed estraneità - di mestiere e di luogo. Al tempo stesso, man mano che il fronte tirrenico settentrionale diventa il centro di gravitazione, sul piano demografico e politico, del Regno di Napoli, man mano che cresce il ruolo della capitale e si definisce, in particolare in Terra di Lavoro, una economia agricola intensiva e policolturale, si profila per il fronte adriatico più proiettato ad oriente il duplice ruolo di frontiera armata verso gli infedeli e di fornitore di grano alla capitale ed all’area ad essa circostante. La parte di Puglia che non è stata sottratta agli insediati a favore dei pastori abruzzesi, viene così indirizzata verso una specializzazione precoce, governata dall’Annona napoletana e dal vincolismo delle “tratte” (i permessi di esportazione) concesse o meno a seconda del livello di sicurezza annonaria di Napoli e della forza dei soggetti che le chiedono.
Ma il processo di costruzione dell’insediamento che abbiamo osservato nei secoli centrali del Medioevo non si è consumato invano. La quadrettatura dei poteri locali si è, con la crisi trecentesca, indebolita e sgranata, i suoi nodi si presentano ormai più radi e isolati; ma essa riemerge in forme diverse e non meno efficaci. I centri abitati si irrobustiscono con la crescita demografica cinquecentesca, conquistano e difendono statuti cittadini man mano aggiornati, trascrivono privilegi, pretese ed esenzioni in Libri Rossi che le solennizzano e le salvaguardano, ricavano prestigio dal fatto di essere in molti casi sede vescovile, dal momento che, con l’infittirsi delle diocesi ed il diradarsi dell’insediamento, le diocesi stesse tendono a coincidere con le circoscrizioni delle “università”. A sua volta, il protagonismo dei poteri centrali nella costruzione del territorio, date le caratteristiche di fondo del cosiddetto “stato moderno” che va realizzandosi anche nel sud d’Italia, non si esprime tramite catene di trasmissione del comando organizzate in forma burocratica, ma con istituzioni e corpi dotati di una sfera significativa di autonomia, che agiscono in nome del re aggiungendo complessità alla dialettica fra i poteri, invece di semplificarla. La straordinaria macchina della dogana pecoreccia e quella dell’annona napoletana devono confrontarsi con le prerogative territoriali di altre magistrature regie, con quelle dell’altrettanto molteplice e complesso universo ecclesiastico rafforzatosi con la Controriforma, con i diritti signorili, ed infine con le pretese delle “università”, in competizione fra loro e con gli altri soggetti legittimamente presenti sul territorio. Lo spazio umanizzato è di conseguenza oggetto di pratiche pattizie minute, che depositano sul suolo e sulle sue forme di utilizzazione una immensa e confusa normativa, “disordinano” ogni disegno con pretese di organicità e creano distanze incolmabili fra la realtà e le norme.
Ma, per queste vie, lo spazio stesso finisce per essere controllato e governato. Ogni roccia, ogni macchia, ogni lama e specchia di una pietraia a prima vista fuggita dall’uomo come quella murgiana, viene denominata, compassata, rappresentata da una cartografia che mescola la geometria elementare con forme loquaci di scritto e di ornato. Raffigurato in apprezzi, platee, cabrei, catasti, atti di pacificazione sanciti dai notai, rivendicazioni possessorie presentate ai giudici, il suolo diventa oggetto di conflitti su cui cresce una forma della politica che coinvolge non solo le élites ma gruppi consistenti di popolo, ed è dotata di codici e senso. La masseria e lo jazzo non sono edifici produttivi adattati ad un ambiente ed alle sue risorse, ma espressioni di un delicato sistema di compatibilità fra una folla di soggetti e pretese; si configurano come pietrificazioni di metodi di produzione - l’”uso di Puglia” - in parte diversi da luogo a luogo e definiti nella fase di passaggio fra tardo medio evo e prima età moderna. A quei metodi, emersi in un preciso contesto, ci si richiama come vigenti ovunque e “ab immemorabili” perché, sostenuti dal prestigio di un tempo immaginario su di essi depositatosi, pongano limiti a dinamiche produttive troppo intense e potenzialmente minacciose per gli equilibri instabili raggiunti. Massari e pastori sono perciò figure profondamente ambigue e spesso radicalmente equivocate da osservatori ed interpreti: gestori di risorse dotati di vaghe assonanze moderne, che anticipano capitali e assumono lavoro salariato, essi sono privi di una parte consistente della capacità di decidere e di allocare i fattori della produzione a seconda delle opportunità e delle convenienze calcolate in termini di profitto; imprenditori senza innovazione, collocati a cavallo fra la sfera dell’economia e quella della politica come organizzazione della coesistenza conflittuale di una molteplicità di interessi e soggetti insistenti sulle risorse limitate di un quadro territoriale dato.
L’esito ultimo, che qui ci interessa da vicino, è che le forme di costruzione del territorio che spingono allo sradicamento degli insediamenti dal proprio suolo ed alla esasperazione della specializzazione produttiva sotto lo stimolo delle convenienze del mercato e delle esigenze dei poteri, vengono frenate, mediate, sottoposte a vincoli robusti. Dentro questi vincoli prendono forma, e riescono a durare a lungo, logiche territoriali strutturate.

un sistema di flussi compensato
Ne richiamo qualche tratto essenziale ragionando, in primo luogo, per differenza (Rimando, per la bibliografia e la documentazione, a B. Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in Storia d’Italia. La Puglia, a cura di L. Masella e B. Salvemini, Torino 1989, pp. 3-218. La linea interpretativa che propongo oggi è per molti versi diversa).
L’agricoltura specializzata premoderna, dati i picchi ed i vuoti della domanda di lavoro nel ciclo annuale, rischia di produrre società seminomadi. In un’area in larga parte cerealicola come la nostra, il numero dei residenti deve situarsi in una posizione intermedia fra due livelli estremi: quello bassissimo adeguato alle fasi morte dell’annata agricola, e quello altissimo adeguato alla domanda di lavoro delle fasi acute. Se la popolazione insediata è sufficiente a soddisfare il bisogno di braccia della semina e della mietitura, essa precipita in una situazione di disoccupazione pressocché totale nelle altre fasi del ciclo; se è così scarsa da trovare occupazione piena anche nelle fasi di stanca dell’annata, deve essere integrata nelle fasi acute con periodiche massicce invasioni di mano d’opera esterna. In situazioni di debole vertebrazione istituzionale, insediativa ed identitaria, specializzazione del paesaggio rurale e crescita dei flussi umani si dispiegano e alimentano a loro volta la debole strutturazione dei poteri e degli insediamenti, in un circolo vizioso che finisce per lasciare sul paesaggio manufatti inconsistenti, spesso miserabili. Ad esempio nell’Agro Romano di età moderna, al momento della mietitura, decine di migliaia di contadini scendono dai monti e da villaggi lontani e si ammucchiano in borghi dotati di strutture abitative minuscole ed autonomia politica inconsistente, che alla fine della mietitura vengono riconsegnati alla desolazione.
L’armatura insediativa ed istituzionale delle aree cerealicole pugliesi non le protegge del tutto dalle conseguenze della loro proiezione mercantile e della loro specializzazione precoce. Le pratiche agricole presentano una intrinseca propensione ad espandersi sull’incolto, in particolare ad aggredire il bosco, custode di risorse ‘integrative’ fondamentali (ad esempio il legname da costruzione e riscaldamento), ma anche riserva di produttività altissima per una coltura assai defaticante per il suolo come il grano. Nella prima età moderna, in particolare sui gradoni bassi a nord-est dell’altipiano murgiano, i boschi appaiono consistenti: quello di Andria era talmente fitto da risultare “impenetrabile” fino ad impedire le operazioni di misura e compasso al tempo della “reintegra generale” delle terre di Dogana a metà Cinquecento (A. Gaudiani, Notizie per il buon governo della Regia Dogana della Mena delle Pecore di Puglia, a cura di P. Di Cicco, Foggia 1981, pp. 160-1. Questo fondamentale scritto è databile fra il 1700 ed il 1714. Il Gaudiani riporta questo parere ma non lo condivide: egli ritiene che la mancata misurazione del bosco di Andria non vada attribuito alla sua impermeabilità (altri boschi ugualmente fitti erano stati compassati), ma al suo carattere giuridico di “demanio, o defense d’università”, in quanto tale utilizzabile dai pastori di Dogana in forma mista con i “cittadini” di Andria), ed il bosco di Ruvo era “folto ed impenetrabile” fino all’inizio degli anni Trenta del Settecento; ma alle soglie dell’Ottocento il loro degrado è evidente: i Carafa di Andria, signori di Ruvo, sottopongono il bosco locale ad “un taglio così barbaro” che “al cadere del secolo XVIII era rimasto denudato”, e “se si trovavano i poveri a legnare o tagliar spine, erano crudelmente bastonati dagli armigeri baronali a cavallo” (G. Jatta, Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia, Napoli 1844, pp. 219-20). Così il paesaggio, man mano che si struttura sotto l’azione dell’uomo, tende ad irrigidirsi, a presentare inerzie pericolose di fronte al mutare della congiuntura. Quando l’andamento della domanda è positiva, la cerealicoltura fuoriesce dai suoi luoghi, specializzazione, polarizzazione e rapporti sociali si esasperano, gli equilibri ambientali diventano precari. Quando la domanda cala, l’ambiente non ripiega, come altrove, sui moduli dell’agricoltura autoconsumatrice della microazienda contadina. Le masserie cerealicole tendono a convertirsi all’allevamento, ma spesso gli sbocchi mercantili ed i prezzi dei prodotti animali hanno un andamento simile a quelli del grano, e le convenienze in questa direzione sono scarse. Così il paesaggio, nelle fasi stanche del mercato, inselvatichisce. Di conseguenza i conflitti sono acuti, il malessere sociale è diffuso ed endemico. Né esso viene sdrammatizzato da pratiche di tipo comunitario. I rapporti solidaristici appaiono relativamente deboli in questa società che si regge sul contratto, e non hanno il sostegno della famiglia patriarcale e della parentela di lignaggio, qui del tutto sconosciute. La microproprietà fondiaria, quando la si conquista, è povera degli elementi simbolici che inducono il contadino ‘normale’ a difenderla ad ogni costo ed a trasmetterla ai discendenti; la si compera e la si vende a seconda delle occasioni, passa per le linee femminili e quindi perde il nesso col cognome. Insomma, l’esatto contrario dell’idillio campestre a cui fanno riferimento troppe guide turistiche ed anche qualche discorso dotto. Basterebbe a smentirli un dato riassuntivo impressionante: la mortalità, più alta di dieci punti circa di quella di società contadine anche vicine (oltre il 40 per mille rispetto al trenta per mille), che insegue da vicino una natalità essa pure altissima, alimentata dalla bassa età al matrimonio.
D’altro canto le forme di umanizzazione dell’ambiente murgiano, come si è visto per cenni, sono di tutt’altra qualità rispetto a quelle dell’Agro Romano, e suggeriscono livelli di complessità e sofisticazione delle relazioni fra società e risorse assai più alti. In questo ambiente l’inserzione dell’uomo è robusta, la popolazione relativamente stabile, le identità locali forti e le istituzioni del governo locale ben definite. La ‘pesantezza’ dell’insediamento è simbolizzata dalla ‘pesantezza’ del costruito: invece del legno, del fango, del mattone di tanta edilizia abitativa e produttiva contadina europea, domina la pietra, che accomuna molta edilizia rustica alle case, alle mura che le circondano, alle grandi cattedrali intorno a cui si stringono. Gli effetti distruttivi che hanno spesso la specializzazione produttiva e l’esposizione al mercato sulle società rurali premoderne non possono dispiegarsi pienamente; in questo territorio così irto di poteri, identità, politica, essi vengono in vari modi ridimensionati e compensati.
In primo luogo, il paesaggio agricolo a campi ed erba che si distende a perdita d’occhio si complica, nei pressi delle mura urbane, sia sotto il profilo agronomico che giuridico. L’orto, data l’alta densità abitativa del borgo, non può essere annesso alla casa, ma lo ritroviamo appena fuori le mura, nel cosiddetto “ristretto”, dove la presa dell’”università” sul suolo è solida, le chiusure dei campi coltivati sono consentite, le servitù nei confronti di pretese di altri poteri limitate. Ed anche contigui alle mura sono spesso i microfondi posseduti da una parte dei “bracciali” che lavorano nelle grandi masserie cerealicole: nei loro campi minuscoli, essi coltivano, oltre ai cereali, il vino, che presenta un calendario agricolo in parte inverso a quello del grano (richiede lavoro quando l’altro non ne ha bisogno) e consente di occupare una parte dei tempi morti dell’annata cerealicola. La stessa masseria cerealicola, come si è accennato, non è in alcun modo la base logistica della travolgente avanzata del grano che – in una interpretazione diffusa – connoterebbe le campagne europee di età moderna; essa è un organismo complesso, strutturato attorno a regole di inserimento in un contesto conflittuale e teso. Una parte della terra a ridosso degli edifici viene coltivata a legumi che massaro e lavoratori fissi autoconsumano, un’altra parte – fra il quinto ed il sesto - è tenuta salda e chiusa in maniera da fungere da “mezzana” per il pascolo degli animali da lavoro in proporzioni precisamente definite; e pratiche e tempi di rotazione, di utilizzo delle aree a riposo e di quelle lasciate aperte dopo la mietitura, di aratura e concimazione, vincolano contrattualmente la gestione del massaro.
Tutto questo contiene la dimensione dei flussi, ma certo non li elimina. I movimenti di uomini, merci ed animali rimangono consistenti. Ma essi si presentano da un lato ampiamente istituzionalizzati, dall’altra hanno un raggio relativamente corto e sono inseriti in meccanismi di reciprocità fra zone complementari contigue e le società che vi sono insediate. In generale le fasi di tensione acuta delle aree cerealicole premoderne, quelle della semina e della mietitura, non hanno qui il carattere tumultuario, di “festa selvaggia” che tende a far scolorire il limite fra lecito ed illecito, frequente altrove. I fornitori di braccia delle zone vicine formano per tempo, negli studi notarili, “compagnie” che si recano a piedi sulle Murge del grano sotto la guida di figure di prestigio riconosciuto dalle comunità, gli “antenieri”, in grado per autorevolezza e solvibilità di mantenere gli impegni contrattuali assunti con i gestori di masserie e di garantire un comportamento probo da parte dei propri uomini.
Flussi di uomini istituzionalizzati e di raggio breve si realizzano in ogni direzione, ma hanno una particolare intensità ed organicità con la affollata costa olivicola. La costa fornisce, alla semina ed alla mietitura, masse di lavoratori compensate solo in parte dai cerealicoltori murgiani che si recano sulla costa stessa per raccogliere olive a ottobre-novembre. Di conseguenza la Murgia paga più salari destinati ad essere spesi nella zona olivicola, di quelli che in quest’ultima guadagnano i suoi cerealicoltori: un deficit compensato dalle file interminabili di carri che scendono lungo le vie perpendicolari alla costa per approvvigionarla, sotto l’attenta sorveglianza dei governi cittadini, del grano che la diffusione dell’olivo rende sempre più insufficiente, incrociandovi, in senso opposto, il poco olio che risale quelle strade destinato ai grandi borghi dell’interno. I cerealicoltori acquistano dagli olivicoltori molto lavoro per la semina e la mietitura e poco olio; gli olivicoltori acquistano dai cerealicoltori poco lavoro per la raccolta delle olive e molto grano. Così le voci dello scambio grosso modo si compensano, ed il sistema può funzionare senza accumulare tensioni.
Dentro questo sistema di flussi compensato, la pietraia dell’altipiano murgiano trova una sua collocazione. Le terre nere del Tavoliere o della fossa bradanica, adoperabili sia per il pascolo invernale che per i cereali, sono, come si è visto, avvolte in un intreccio di vincoli che mettono sotto controllo la conflittualità potenzialmente esplosiva tra ‘ragione pastorale’ e ‘ragione agricola’, e consentono la convivenza di diritti e pretese molteplici. Quando la congiuntura è favorevole ed i prezzi salgono, i limiti e le regole poste all’utilizzo delle terre in piano diventano oggetto di conflitti acuti, e la ricerca di risorse da valorizzare si fa spasmodica. In particolare in queste fasi le risorse dell’Alta Murgia, per lo sguardo calcolante moderno di una povertà assoluta, diventano preziose. E’ in particolare una fonte di valore rilevante il fatto che, a differenza che altrove, sull’altipiano pastorizia ed agricoltura non siano in conflitto. I rilievi carsici consentono la cerealicoltura solo negli affossamenti fra due dossi (le “lame”): lì si raccoglie la terra dilavata dalle colline insieme al concime naturale delle pecore che vi pascolano, consentendo rendimenti assai elevati per unità di seme anche se modestissimi per unità di superficie. Di conseguenza sulle Murge non sempre la pastorizia è lasciata alla ostile gente della montagna. Decine di migliaia di pecore soprattutto di Altamura e Gravina, ricoverate in jazzi in solida pietra a differenza dei rifugi provvisori di corde, giunchi e sterpi delle pecore del Tavoliere, spesso collocati sulle pendici calcaree che scendono rapidamente sulla fossa bradanica, interagiscono positivamente sia con le pratiche cerealicole delle terre nere in piano sia con quelle tipiche delle terre rosse e leggere. Aratori, seminatori, mietitori, pastori locali e delle zone limitrofe si diramano lungo i tratturi tracciati sull’altopiano, popolano stagionalmente jazzi e masserie, producono merci che hanno destinazioni lontane. E vi lasciano un sistema di segni giuridici, documentari, pedologici, edilizi.

il policentrismo delle agrotowns
Questi flussi intensi non mettono capo ad un polo urbano che domina gerarchicamente la struttura dell’insediamento, né si diffondono casualmente nella campagna deserta, ma fanno capo a nodi molteplici, situati nei centri di addensamento dell’abitato, dei poteri e delle identità locali.
I luoghi abitati della Murgia barese presentano, nel contesto dell’Europa rurale di età moderna, al tempo stesso una dimensione demografica media eccezionalmente elevata ed una scarsa differenziazione fra la popolazione e le funzioni direzionali di ciascuno di essi. Come si è visto, i luoghi dell’abitare ed i luoghi del lavorare rimangono drasticamente separati. Le funzioni abitative dei manufatti agresti sono nulle o irregolari, le grandi masserie possono essere abitate, a seconda delle stagioni, da qualche unità lavorativa o da masse di lavoratori che si ammucchiano negli “scariazzi” e che vivono normalmente nei grandi borghi. Il modello insediativo europeo, articolato in poche città abitate da amministratori e soldati, mercanti ed artigiani, circondate da vasti contadi ad esse subordinati e punteggiati di villaggi contadini, è qui totalmente assente. L’opposizione fra i due mondi economici, politici e mentali della città e della campagna è inesistente, dato che i contadini abitano in centri di dimensioni gigantesche rispetto al villaggio tipico e non privi di funzioni direzionali, e sono quindi essi stessi cittadini; e viceversa una parte larghissima dei cittadini, invece di svolgere attività artigianali o mercantili, fanno i contadini.
Questi cittadini senza città e contadini senza contadi, protagonisti della particolare economia rustica su descritta, hanno comunque poco a che fare con la retorica dei campi. Gli spazi vasti del mercato, gli scambi, i contatti con genti di lingue e costumi diversi segnano il clima sociale e mentale della città contadina. Se è debole quella che possiamo chiamare l’economia del vicolo, cioè le mille forme della produzione artigianale e per il consumo diretto, depressa dalla diffusione dei prodotti manifatturati caricati in porti lontani sulle navi che vi hanno trasportato il grano e l’olio pugliesi, rigogliosa è l’economia della piazza. Lì la famiglia, condannata ad un livello basso di autoconsumo, vende le derrate che ha prodotto ed acquista manufatti provenienti da lontano, spesso anche il cibo quotidiano; lì si organizzano i flussi a lunga e corta distanza di uomini e merci, si contrattano prestazioni lavorative, si realizza la frequente compravendita dei microfondi che integrano il reddito del lavoro salariato, si stipulano i contratti di fitto agricolo quasi sempre a breve termine: il tutto tramite sensali, notai, giudici, agrimensori, antenieri. Questa presenza di professionisti di ogni tipo di intermediazione non intacca la prevalenza netta dell’elemento rurale nella composizione professionale di questi centri, ma gli dà un tono particolare. Il profilo sociale e culturale dell’onnipresente contadino si costruisce dentro un ambiente di magazzini ed “hostarie”, di scambi monetari ed intensa mobilità.
Questa particolare atmosfera dei borghi posti a corona lungo i confini dell’area murgiana, e di molti altri della Puglia centro-settentrionale, deriva dal fatto che essi hanno tutti, sia pur in varia misura, funzioni direzionali sul sistema di flussi dentro il quale viene valorizzata, fra tardo medio evo e prima età contemporanea, anche l’Alta Murgia. Nel loro complesso, essi appaiono inseriti in una rete di luoghi più ampia, fondata su economie mercantilizzate e governate. Si tratta di una rete, per così dire, di secondo grado. Ciascun luogo produce un gruppo ristretto di derrate destinate a sbocchi lontani, ed è quindi, sotto il profilo mercantile, finanziario, dei trasporti terrestri e marittimi, strettamente connesso in prima istanza ai luoghi di destinazione delle sue merci. Ma la produzione di queste merci, nel contesto dei vincoli e delle risorse in cui si realizza, è possibile solo attivando nessi tendenzialmente orizzontali, derivati da quelli realizzati con i mercati lontani ma indispensabili, fra le campagne in cui quella produzione stessa viene realizzata e, quindi, fra i luoghi in cui abitano i produttori. I nostri dodici centri murgiani presentano una faccia rivolta all’interno, verso l’altopiano, ed un’altra verso l’esterno, che oltre ad organizzare l’annata agro-pastorale, salda ed organizza i nessi con gli acquirenti lontani e con i centri circostanti.
Territorio non autonomo, capace di funzionare solo se messo in relazione con territori contermini e lontani, la Murgia è parte di un insieme di spazi correlati che si sovrappongono e si intrecciano. E’ il tessuto di flussi di uomini, merci, decisioni, influenze che ha costruito nei secoli ciò che resta del suo paesaggio; sono in primo luogo i suoi contadini che, percorrendola in lungo ed in largo per produrre derrate da commercializzare in cambio di redditi in moneta, conferiscono ad essa una identità e ne tracciano i confini.

l’inutilità contemporanea
Questo sistema di flussi, vincoli e compatibilità entra in tensione acuta nel secondo Settecento. La spinta, da parte di amministratori, intellettuali, proprietari, usurpatori di demani, a far saltare le norme esplicite o implicite che lo governavano inalberando la parola d’ordine della ”libertà” nell’uso delle risorse e della loro appropriazione individuale, si fa irresistibile.
E’ in questo contesto che si ridefinisce e si struttura il paradigma dell’“inutilità”. Che non è, ovviamente, semplice rappresentazione, ma coinvolge pratiche, forme dell’economia, modi di essere del territorio e del suo governo. Una volta trasformato il suolo in uno spazio ‘liscio’, una volta liberato dalle sue qualificazioni, dai vincoli e dalle disuguaglianze giuridiche e politiche che avevano creato il contesto per l’organizzarsi delle logiche territoriali prevalse in età moderna, esso diventa un recettore di investimenti produttivi, è pienamente calcolabile secondo i parametri della massimizzazione economica. Su questo piano la condanna dell’Alta Murgia non può che essere senza appello. Mentre “popoli di formiche” continuano a cercarvi testardamente frammenti di reddito, tutt’intorno ad essa, sulle terre profonde delle piane a nord-ovest ed a sud-ovest e sui primi gradoni collinari paralleli alla costa, si scatenano processi impetuosi ed incontrollati di trasformazione, che si dispiegano pienamente nell’Ottocento: la pastorizia cede rovinosamente il passo ai dissodamenti, le colture arboree ed arbustive si lanciano alla conquista dell’incolto in concorrenza con i grani, l’“uso di Puglia” viene travolto. I flussi diventano più intensi e lunghi, perdono la tradizionale forma reticolare e si vanno rapidamente polarizzando su alcuni centri costieri, Bari in primo luogo. Ne risulta un aumento indubbio delle merci circolanti e dei redditi di una popolazione in crescita considerevole, ma anche un incremento della specializzazione produttiva e dell’esposizione mercantile che la distruzione degli ammortizzatori sociali ed economici trasforma a volte in eventi catastrofici: la grande crisi degli anni Ottanta dell’Ottocento è solo l’episodio più vistoso. I dodici centri devono ora volgere le spalle alla pietraia a cui fanno corona, si proiettano sulle zone del loro territorio capaci di rese più alte, e al contempo cercano una collocazione nel nuovo sistema di flussi; ad esempio spingono per non essere tagliati fuori dal sistema viario costruito vigorosamente nel corso dell’Ottocento, che, puntando decisamente sui nuovi poli, finisce per disegnare esso pure un vuoto in corrispondenza dell’altopiano (A. Massafra, Campagne e territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Bari 1984). Gli esiti sono assai diversificati. Un indicatore grezzo ma efficace come quello della dimensione demografica, proiettato sul lungo periodo, racconta una storia inequivocabile: dopo secoli in cui avevano seguito una traccia relativamente coerente, i centri murgiani vedono divaricarsi l’andamento della propria popolazione.
E’ una storia che non è qui possibile raccontare (Alcune indicazioni in B. Salvemini, L’innovazione precaria. Spazi, mercati e società nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Roma 1995). A questa storia lo spazio murgiano non diventa estraneo, ma vi entra in forme ormai subalterne. Nel mentre i tratturi, i ripari temporanei, le cisterne, le aree coltivate in relazione stretta con quelle pascolate, gli jazzi e le masserie organizzavano i nessi agro-pastorali, i boschi residui vengono man mano cancellati, comincia una vicenda di manipolazione a volte non priva di valori da conservare, più spesso prepotente e vistosa, ma in ogni caso episodica, sporadica, asistemica: si sperimentano colture, come quelle della vite, destinate a vita breve, con ampia produzione di manufatti di sostegno; si tracciano chilometri di muretti a difesa di possessi che spesso hanno un valore più simbolico (sono ora “proprietà perfetta”) che reale; in tempi più recenti si inventano i villaggi della riforma agraria – spaesati agglomerati di case-parcheggio di braccianti in procinto di emigrare - per poi giungere ai poligoni militari, alle discariche, ai laghetti, agli spietramenti.

il valore dell’inutilità
E’ una vicenda che va interrotta nei suoi esiti distruttivi, e, al tempo stesso, proseguita in forme nuove, cercando nel paesaggio dell’Alta Murgia, negli attori sociali che lo praticano in forme non speculative e nei molti altri che lo ignorano, risorse su cui poggiare una utilità adeguata ai tempi e, come oggi si dice, ecocompatibile. Ma, in un contesto come questo, l’ansia di sfuggire alle logiche della musealizzazione ambientale, di ristabilire nessi fra società e natura, va controllata. La funzionalità fra l’altopiano murgiano e gli uomini insediati ai suoi margini rintracciabile nel passato è, come si è visto, incerta, parziale, minacciata; resa possibile da una configurazione della società e del territorio del tutto irrecuperabile. Se la funzionalità dell’ambiente agli uomini che vi vivono è sempre approssimativa, la disfunzionalità alle società odierne di una parte consistente dell’altopiano murgiano è un dato macroscopico, che non può essere cancellato né dalle pretese ingegneristiche di manipolazione dell’ambiente, né dai romanticismi presenti nelle retoriche ‘mediterraneiste’, in maniera mi sembra particolarmente pericolosa sulla sponda meridionale dello stesso Mediterraneo, che pretendono di estrarre da contesti del passato saperi e pratiche “locali” e “tradizionali” per riproporle oggi.
Non è detto che questa disfunzionalità debba essere considerata un elemento da cancellare. L’inattualità di una parte larga dell’Alta Murgia può essere riaffermata come una opportunità; va valorizzata dentro una concezione allargata del concetto di risorsa, che vi includa anche quelle non suscettibili di fruizione economica. Terra incolta e manufatti non convertibili ad usi abitativi o di ospitalità turistica di massa non sono di per sé inutili. Lo diventano se incuria e manomissione li rendono illeggibili. Uno degli obbiettivi da proporsi di fronte ad ambienti come il nostro è di restituire loro leggibilità, farne emergere le forme di umanizzazione centrando l’attenzione – e gli sforzi di ripristino/conservazione – non tanto su singoli luoghi e manufatti, di per sé privi di senso, ma sulle relazioni fra di essi, sui sistemi locali che hanno legato, ad esempio, iazzi e masserie ai dossi ed alle lame dell’altopiano ed alle terre profonde circostanti; i borghi ai “ristretti” ed ai campi cerealicoli e pascolatori; le masserie dell’interno ai microfondi olivetati della costa. Questo comporterebbe un intero programma di lavoro a molte dimensioni e bisognoso di molte competenze. Spesso queste catene relazionali mancano ormai di anelli visibili nel paesaggio, che occorrerebbe interpolare sulla base della documentazione d’archivio; l’analisi sistemica di scavo o di superficie permetterebbe di reintegrare in una grammatica significativa elementi a prima vista insignificanti o enigmatici come specchie, pagliai raggruppati, massi posti in verticale, grandi piante secolari isolate; la strumentazione dell’historical ecology consentirebbe di portare alla luce saperi e pratiche di utilizzazione delle risorse.
La spazialità che l’Alta Murgia potrebbe ricavare da queste conoscenze e dal loro uso pubblico e progettuale si presenterebbe in una qualche misura scoordinata. L’obbiettivo di restituire ad essa una nuova utilità dovrebbe trovare il modo di coabitare con l’altro, in una qualche misura opposto, di far emergere un carattere di fondo di questo come di ogni altro territorio: quello di custode del tempo, di deposito di manufatti e segni di società precedenti rimasti ad ingombrare ‘inutilmente’ lo spazio delle nuove società, di testimone della sconnessione irriducibile fra società e spazi ad esse temporaneamente consegnati; insomma di smentita macroscopica alle forme di vita, oggi particolarmente diffuse, che galleggiano su un presente senza memoria. D’altro canto potrebbe anche darsi che un progetto che punti a questa spazialità deforme, collocata per questo nella famiglia dei fenomeni sociali e non in quella delle cose, sappia parlare anche ad attori sociali collocati al di là della cerchia, oggi assai piccola e potenzialmente non granché espandibile, degli economicamente “interessati”, riesca a mettere in evidenza senso e valori infissi anche in questo suolo aspro ed ingeneroso, che una parte larga della società sia in grado di percepire.
E’ forse questa una delle vie percorribili perché, nella coscienza diffusa, si riempia quel vuoto della carta della Puglia centrale che abbiamo visto presentarsi più volte nell’immaginario di osservatori ed attori del passato, e che ha reso possibili le aggressioni più recenti, le più distruttive subite dall’altopiano murgiano nella lunghissima vicenda della sua umanizzazione.

gennaio - aprile 2004