Precarietà e povertà
di Cristina Tajani

In età pre-moderna e nel primo capitalismo, la collocazione della maggioranza della popolazione entro i confini dell’esclusione sociale e politica e della povertà materiale era un fatto accettato come “naturale”. La povertà stessa era un “fatto sociale naturale”.
Il capitalismo occidentale del secondo dopoguerra ha, invece, mostrato il carattere includente del compromesso fordista, conseguenza in parte delle esigenze di valorizzazione interne al processo di accumulazione capitalistica (i produttori delle merci dovevano potenzialmente essere i consumatori di quelle stesse merci in virtù di una limitata internazionalizzazione dei mercati) e in altra parte della spinta delle lotte delle classi lavoratrici in direzione della piena cittadinanza politica ed economica.
Oggi il problema della povertà materiale travalica le sacche di marginalità ed “eccedenza” sociale cui erano destinati i soggetti “non produttivi” e diventa un problema generale che coinvolge anche chi è pienamente inserito nel ciclo della produzione. Il modello è quello statunitense, in cui il 35% degli occupati (dato ONU di qualche anno fa) vive sotto la soglia di povertà (li chiamano working-poors…). Assistiamo, allora, alla definizione di una nuova geografia della centralità e della marginalità sociale che offre molti aspetti per un paragone con la pre-modernità.
La tendenza alla polarizzazione dei redditi si è andata accentuando negli ultimi decenni insieme alla perdita del potere d’acquisto dei redditi da lavoro dipendente (inclusi quelli dei lavoratori formalmente autonomi, delle partite IVA, dei collaboratori e quant’altro) come confermano ormai tutti i dati (si vedano i rapporti IRES, ISTAT del 2002 e 2003).
La dicotomia tra povertà e ricchezza non si dipana solo tra un nord ed un sud del mondo, ma all’interno degli stessi paesi a capitalismo avanzato e nelle metropoli globali si possono tracciare i confini tra le aree di inclusione e quelle di esclusione sociale ed economica. Tra queste ultime, ormai, si inseriscono pienamente le aree di precarizzazione del lavoro.
È sempre più evidente che la precarietà oltre ad essere un fattore di compressione verso il basso del costo del lavoro nell’immediato, a causa della discontinuità e dell’insicurezza dei redditi, diventa una promessa di povertà nel futuro: i giovani precari di oggi avranno un destino di pensionati poveri grazie a decontribuzione, buchi contributivi e fondi separati per i lavoratori autonomi (basti ricordare che un co.co.co riceverebbe, dopo 40 anni di contribuzione, una pensione pari circa al 35% dell’ultima retribuzione).
Nel 2002 un rapporto dell’IRES calcolava che tra i 2 milioni di co.co.co registrati all’INPS in Italia circa 1 milione e 300 mila lavoratori, dunque oltre la metà, si situa nelle fasce basse di reddito con un introito annuo di 7500 euro circa. Mentre il reddito medio lordo calcolato sui 2 milioni di lavoratori si aggira sugli 11.590 euro annui e le donne guadagnano, sempre in media, la metà degli uomini rimanendo i soggetti (insieme agli ultracinquantenni espulsi dal mercato del lavoro, i giovani in cerca di prima occupazione e i migranti) più esposti a rimanere ingabbiati nella “trappola della precarietà” (ovvero, sulla scorta dei dati, nella “trappola della povertà”).
La povertà diventa così una condizione da cui è impossibile emanciparsi una volta per tutte mentre il confine tra sussistenza ed indigenza è sempre più legato all’andamento del mercato.
In questo quadro parlare di lotta alla povertà, nel nostro paese, significa parlare anche di lotta alla precarietà del lavoro, di opposizione ad una riforma delle pensioni iniqua, di ammortizzatori sociali, di scuola e sanità pubblici. Coerentemente con un indice di povertà (come ad esempio l’IPU) che misuri la deprivazione non solo in termini di reddito monetario ma anche di accesso ad elementari servizi sociali quali la scuola, la sanità ed i trasporti, la lotta alla povertà ed alla marginalizzazione sociale passa anche per la rivendicazione di un salario sociale che includa servizi quali il trasporto, lo studio, l’accesso al credito ed agli alloggi che rappresentano la voce di spesa più onerosa nelle nostre città.

gennaio - aprile 2004