Per una scuola istituzionalmente sovversiva
di Damiano de Virgilio

Sa di concreto. Di reale: unicuique suum, a ciascuno il suo! Una scuola per ciascuna attitudine ed inclinazione dei soggetti in formazione. Suona anche bene: che non suoni equo, non ha, evidentemente, grande importanza. E, poiché è ugualmente realistico che attitudini, inclinazioni, motivazioni allo studio e alla cultura in genere sono largamente condizionate dalla estrazione socio–economica del soggetto, una scuola che articola e diversifica precocemente la propria offerta formativa, la scuola, per intenderci, del Bertagna-pensiero e della Moratti-azione è evidentemente una scuola che non si perde in chiacchiere e che con tempestivo pragmatismo (finalmente!) offre la formazione più consona a ciascuna delle classi sociali da cui i soggetti in formazione provengono. Che poi qualcuno disattenda sì fatali aspettative scegliendo, magari con qualche successo, percorsi formativi non del tutto inerziali rispetto al proprio status socio-economico non deve stupire, né allarmare. Anzi, deve far piacere: fa tanto democratico e neo-liberista!
Sembra pure razionale: del resto qualcuno, che di queste cose evidentemente s’intendeva, ha detto, più o meno, che ciò che ha che fare con il reale è pure amico stretto del razionale.
Saremmo, quindi, con la Legge 53/2003 e, segnatamente, con le proposte ad essa organiche, connesse alla effettiva progettazione del secondo ciclo di istruzione e formazione, alla quadratura del cerchio. Eppure, qualcosa s’ostina a non quadrare: la realtà che la scuola deve assumere come quella in cui vede inverato il proprio ruolo istituzionale è quella di essere hegelianamente razionale o costituzionalmente orientata a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che…impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (cfr. art. 3 della Carta Suprema, se non l’hanno già modificato)?
La Scuola, quella seria, che non ha abiurato al solenne dettato costituzionale, non può non trovare ripugnante la struttura rigidamente binaria (tale appare a chi è troppo avanti negli anni per cedere alle lusinghe delle agili passerelle e degli ameni passaggi fra i due canali) in cui è destinata ad essere articolata la Secondaria Superiore. Ripugnante è una legge di riforma che, a parole, marca già una separazione e, nei fatti, scava un baratro. Per sempre.
Da una parte, chi è destinato all’ispirato esercizio della theorìa, a “comprendere, ma non ad accettare passivamente alcunché”, a vedersi consentita “una partecipazione attiva alla vita sociale, politica e culturale, consapevole dei diritti e dei doveri” frequentando sì uno degli otto indirizzi in cui si articola l’offerta formativa liceale, ma in special misura attraverso la iniziatica assimilazione della cultura classica che (e qui il registro si fa ieratico, definitivo: quello che di norma s’adotta per le Verità rivelate) “trova il suo naturale terreno di elezione e di compiuta maturazione nel Liceo classico” [Documento MIUR - I licei nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, reperibile su www.edscuola.it/archivio/norme/programmi/riforme_02.html].
Dall’altra, invece, chi, ghettizzato negli “Istituti dell’istruzione e della formazione professionale”, dovrà semplicemente “impadronirsi di determinate competenze tecnico-professionali più o meno consolidate” per diventare il braccio obbediente dei sacerdoti delle “competenze teoretiche”, una volta che la “ulteriore specializzazione conoscitiva da realizzare nell’ambito dell’università” ovvero la “acquisizione di successive competenze tecnico-professionali complesse” [Documento MIUR – cit. - §.3] li abbiano definitivamente incoronati classe dirigente.

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È più o meno questo, per grandi linee, il sano piano di crescita che il governo Berlusconi ha disegnato per riformare la scuola superiore: una scuola che “cresce proprio come te”, secondo lo spot, insolitamente autocritico, che propaganda il progetto controriformistico della legge-delega 53/03 (il “te” sta, infatti, per l’adolescente-tipo in età scolare, quello che, conclusa la farsa mediatica in cui sciorina sorrisi a 32 denti, torna a crescere nella solitudine della sua crisi socio-psico-affettiva: cresce, cioè, male, anzi, malissimo). La quale, per fare le cose per bene e una volta per tutte, intraprende dal basso, dalla scuola materna, la spietata operazione di cancellazione di quel che di meglio la scuola italiana, pur al fondo sempre nostalgicamente segnata da un impianto organizzativo ed ordinamentale di chiara marca gentiliana - il che è a dire classista e fascista –, è riuscita faticosamente a costruire in mezzo secolo di buone pratiche didattiche e di pur perfettibili interventi normativi nel segno di una effettiva democratizzazione dell’istruzione e della volontà di attenuazione dello svantaggio culturale degli strati sociali più deboli, contribuendo in maniera decisiva allo sviluppo civile ed economico del Paese. Mezzo secolo durante il quale la scuola italiana ha mostrato di saper intercettare, non senza limiti e colpevoli inadeguatezze, i bisogni formativi delle masse e di volerli raccordare su un piano di parità con quelli di un mercato del lavoro la cui fisionomia si lasciava spesso faticosamente ricostruire in relazione ad uno sviluppo industriale tumultuoso e talora contraddittorio. In tutti questi anni la classe docente, nella sua massima parte, ha mostrato grande senso dell’istituzione facendosi carico, senza sostanziali riconoscimenti economici, di mediare il rigido impianto classista di una scuola di fatto primo-novecentesca con quegli “spezzoni di riforma” con cui la classe politica tamponava le emergenze indotte da una riforma scolastica sempre invocata, ma puntualmente differita. E, tuttavia, nonostante la costitutiva provvisorietà dei provvedimenti tampone e grazie al senso di responsabilità dei docenti, la scuola italiana ha raccolto incoraggianti riconoscimenti sulla scena internazionale (si vedano, ultimi per ordine, non per importanza, i risultati delle ricerche internazionali “Iea Icona 2000-2001” e “Ocse - Pisa 2003”, entrambi consultabili sul sito http://www.cede.it/ricerche-internazionali/index.htm).
Ora, con la legge-delega 53/03 le destre al potere conculcano non solo la legge 30/00 in cui il precedente governo di centro-sinistra (le cui politiche scolastiche - pur esse non certo al riparo da aspre censure, non foss’altro per aver spianato la strada a quelle tutte marketing ed impresa dell’attuale governo – meriterebbero una riflessione più ampia di quella che qui è possibile) aveva formalizzato la sua idea di scuola riformata, ma anche tutto questo patrimonio di positive esperienze stratificatosi faticosamente per decenni. E, senza consultare fattivamente, nella fase elaborativa della proposta di legge, gli addetti ai lavori – docenti, associazioni professionali della scuola, ecc.-, mai invitati neppure alle parate di regime in cui il manager titolare del MIUR illustrava per le tv e i giornali del capo la sua riforma ad una platea compiacente ed accuratamente preselezionata, quelle stesse destre, appunto, dopo aver blindato i 7 articoli che strutturano la legge-delega, ne vanno corroborando la deleteria azione mediante la diffusione di documentazioni para-normative dai nomi rassicuranti: Indicazioni, Orientamenti,... Il tutto mirante alla costruzione di un sistema dell’istruzione e della formazione che radicalizza la matrice classista e gentiliana di quello ancora per poco vigente e che, schematicamente, ha nei seguenti principali descrittori i suoi (s)qualificati punti di forza:
– anticipo a 2 anni e mezzo dell’età minima del “fanciullo” per la sua iscrizione alla “materna”, che, prontamente ribatezzata “scuola dell’infanzia”, tornerà di fatto a svolgere retrive funzioni di badantato e di asilo, a discapito delle attività educative fino ad oggi promosse;
– ritorno, nella scuola elementare (nominalmente ammodernata in “primaria”), al maestro praticamente unico, promosso per l’occasione a “prevalente”;
– riduzione del tempo scuola e sostanziale cancellazione del tempo prolungato;
– abrogazione dell’obbligo scolastico fino al compimento del 15° anno d’età e conseguente anticipo della scelta fra istruzione liceale e formazione professionale a 13 anni e mezzo;
– istruzione e formazione professionale aventi pari dignità solo dichiarata rispetto al canale liceale e caratterizzate da curricoli a forte connotazione addestrativa e a debolissimo impianto culturale.

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D’altronde, è vero. Non è possibile non riconoscerlo. Coglie lucidamente nel segno chi è del parere che una riforma scolastica fattualmente egalitaria non possa darsi senza una revisione radicale dei rapporti fra classi [cfr. L. CANFORA, Crescere intellettualmente e umanamente attraverso una disciplina, in “Insegnare”, n. 1, 2002].
Sì, ma qualcosa si dovrà fare, sia pure solo provocatoriamente, nelle more di quel futuro certo radioso, ma non comunque prossimo, in cui saremo tutti liberi e uguali. Per esempio, si potrebbe cominciare con l’abbandonare la visione, che è chiaramente sottesa alla legge 53/03, di una scuola in condizione di speculare sudditanza rispetto alla società e con l’accogliere - così, per non stare solo a guardare - una prospettiva sovversiva: quella di riguardare non più come speculare ma, direi, verticale il rapporto fra scuola e società. Una sorta di frazione, con la scuola a numeratore e la società a denominatore. La prima come luogo alto di elaborazione di un programma di istruzione ed educazione pensato per una società omogenea e tendenzialmente equa. La seconda come punto d’approdo di quel programma, luogo ultimativo della utenza, ma pure spazio garante della sua fungibilità e del suo radicamento.
Alla scuola andrebbe affidata una mission ossimorica: essere istituzionalmente sovversiva. È davvero da ingenui pensare proprio alla scuola come al luogo elettivo in cui, tra le altre attività, sollecitare la promozione di processi di revisione dei rapporti tra classi, piuttosto che come ad una istituzione – così, di fatto, la legge 53/03 la riguarda – deputata a sanzionare processi per lo più sclerotizzati che si esplicano al di fuori o, meglio, al di sopra di essa, mentre al più le demandano la funzione di ammortizzare il conflitto, di lubrificare gli attriti sociali che quegli stessi processi, oggettivamente condizionati dalla logica di ineluttabilità che inerisce ai differenti destini sociali connessi alle diverse classi di appartenenza dei soggetti, provocano inesorabilmente?
Basterebbe, per cominciare, che la scuola prendesse a coltivare la sana abitudine di controllare il suo lessico. Per evitare di farsi involontaria complice del processo di ambiguo arricchimento semantico cui sono soggetti alcuni significanti che, elaborati in certi settori del potere non certo pensosi delle pari opportunità formative da garantire ai soggetti in formazione, trasmigrano nella scuola, onde, da essa accolti con quella deferenza che hanno spesso i semplici e gli onesti per i potenti, benché di non specchiata probità, ed opportunamente santificati dalla curvatura pedagogica e didattica che vi ricevono, ritornano alla società civile per gli usi consentiti dalla legge. Anche quelli più protervi.
Un esempio per tanti. Prendiamo la parola flessibilità: sinuosa, languida, seducente parola d’ordine assai à la page nei salotti del potere economico e finanziario, lì dove si pensano le strategie padronali di sfruttamento del lavoro la cui esecutività viene delegata ai fidi scherani dei palazzi del potere politico ed accademico. Costoro caldeggiano l’adozione di un cinico modello economico della cui efficacia salvifica per le sorti che giudicano un po’ troppo stative di questa società post-moderna - ora accusata d’essere ancora troppo localizzata, ora un po’ troppo globalizzata, insomma incertamente "glocalizzata" - vogliono tuttavia persuadere tutti gli uomini di buona volontà: il neoliberismo. Il quale tra i suoi più urgenti obiettivi ha quello di sradicare non solo diritti e valori di tutela faticosamente acquisiti e difesi dai lavoratori in decenni di meritorie battaglie sindacali, ma, quel che è più grave, la cultura dei diritti connessi ai rapporti di lavoro. Complice un dominio mediatico che è saldamente nelle mani dei pifferai della cultura d’impresa e che s’incarica di farsi instancabile banditore di ideologie caotiche ma comunque assai funzionali all’obiettivo di pervenire ad una totale precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tra le quali quella che così, in soldoni, confusamente argomenta: a fronte della esponenziale mutevolezza della fenomenologia politica ed economica planetaria propria di questi nostri tempi così calamitosi, in concomitanza di una crisi economica senza precedenti perché condizionata dai complessi problemi indotti dalla inesorabile dimensione glocalizzata imposta ad ogni severa politica di sviluppo, in assenza della possibilità di prevedere, se non la conclusione, almeno una tregua di qualche durata nella serie infinita di crociate promosse dai paesi del nord del mondo più fedeli all’idea della centralità e unità dell’occidente contro la viltà terroristica di chi è costitutivamente e colpevolmente fuori di essa; ebbene, in considerazione di tutte queste e di numerose altre questioni - su cui di frequente arzigogolano sul piccolo schermo con inopinato sussiego pure guitti ed attricette di regime - non sia più dato per alcuno di pensare alla propria vita come uno spazio da progettare secondo parametri di lungo termine. E questo non per la medicea sapienza che nel merito della durata dell’esistenza individuale ammonisce che del doman non c’è certezza, nè per la non lusinghiera valutazione, questa di marca sofoclea, che le stirpi umane, finchè sono in vita, siano pari al nulla. Piuttosto, invece, per un fatto che - per chi lo capisce - è di sì palmare evidenza che è sufficiente esprimerlo apoditticamente: nulla più in questo mondo, soprattutto dopo l’“11 settembre” per antonomasia (data simbolo di una sorta di millenarismo post-moderno), può per alcuno darsi per certo ed acquisito per sempre. La tragica vulnerabilità di quello che si accredita come il popolo più autorevole della terra, imposta come austero memento ai popoli del mondo, ha comportato la messa in moto di un processo di catarsi esso pure di dimensioni ecumeniche, e, perciò stesso, efficace quant’altri mai. Il quale addita nell’instabilità, nell’insicurezza, nella precarietà, parenti prossime, ma povere, della flessibilità, l’inesorabile destino che in questo millennio appartiene agli esseri viventi.
In questo viluppo inestricabile di cause ed eventi pasticciati e mediaticamente esplicati con la stesso intento di chiarezza che mettono i croupiers da strada nel gioco delle tre carte, la flessibilità porta un contributo eccellente quale concetto-valore preordinato alla accettazione indolore di una politica deregolatoria del mercato del lavoro: essa si fa il volto buono della precarizzazione di quel mercato. In quanto tale ha, tra l’altro, spianato la strada a una legge come la 30/2003, la c.d. legge Biagi, che prevede un babelico ventaglio di oltre 40 forme contrattuali. Nelle quali il meccanismo produttivo-capitalistico riuscirà ad incasellare flessibilmente, cioè precariamente, i fragili profili professionali in uscita dalla rigida formazione professionale della legge 53/2003, con il loro corredo sub-culturale fatto di “determinate competenze tecnico-professionali più o meno consolidate”.
C’è poco da fare: a profili professionali mediocri, cui la scuola avrà sprezzantemente negato la possibilità di acquisire un robusto corredo di conoscenze con cui raccogliere su un piano di effettiva parità le sfide di un’economia e di una società in fase di altissima transitorietà, non potrà che corrispondere un irrisorio potere contrattuale. Il lavoro sarà nuovamente riguardato come un privilegio concesso ad interim ad un’umanità inferiore, ma grata all’èlite organizzata che, per imporre le proprie scelte, tornerà a giovarsi della zelante collaborazione di una classe dirigente addestrata sulla lingua di Pindaro e di Orazio. Perciò, appare patetica, più che peripatetica, l’allusione con cui il ghost writer del documento ministeriale sui licei apre la sua dotta dissertazione [Documento MIUR, cit.: “La scuola liceale…ha saputo conservare saldi legami con le sue origini ideali, quel Liceo di Atene dove insegnò Aristotele”, § 1].
Quando, infatti, in esordio enfatizza che la formazione liceale “tra i suoi caratteri distintivi…può annoverare la capacità di adattarsi ai diversi contesti storici e alle diverse esigenze culturali e professionali”, non è evidentemente a quelle della società nel suo complesso che pensa, ma a quelle, senz’altro ‘flessibili’, del mondo dei grandi affari a buon prezzo. Se così non fosse, dovrebbe conseguentemente guardarsi dal privare la società di un numero più ampio di soggetti in grado di interpretarne e soddisfarne prontamente i sempre mutevoli bisogni: dovrebbe, cioè, generalizzare a tutti i vari indirizzi ed orientamenti della secondaria superiore la qualità a-specifica e versatile della decantata formazione liceale, rendendo complessivamente unitario, non duale, il sistema di istruzione e formazione secondaria. E invece no. Perché? Perché un sistema unitario così concepito non è flessibile. Non è, cioè, funzionale alla ristrutturazione già in atto dei rapporti economici e sociali che più che della riflessione aristotelica mi pare debitrice della ben più rude storiella che il facondo Menenio Agrippa snocciolò, peraltro senza grande successo, un bel po’ di secoli or sono, alla plebe romana fuoruscita sul monte Sacro o Aventino: quella dello sciopero di protesta delle membra contro l’apparente parassitismo del ventre, che i nostri maestri non mancavano mai di raccontarci alle elementari. Forse perché sembrava molto educativa: ci insegnava, al di là probabilmente della consapevolezza di chi ce la narrava, che non dalle apparenze bisognava giudicare il ruolo delle masse anonime e mal pagate nella società, ma che tutti avevano in essa un ruolo importante anche se oscuro. Eppure, già allora questa favoletta non ci sembrava molto convincente. Tale, del resto, apparve pure all’uditorio di Agrippa: ma questo i nostri maestri non ce lo dicevano.
Come apparirà all’uditorio della Moratti? Bisognerà aspettare, per saperlo.
Nell’attesa guardiamoci almeno dalla flessibilità.
Resti fuori dalle aule, dai collegi dei docenti, dai consigli di classe e d’istituto: “Fuori dal tempio le parole dei mercanti”.
In sua vece si usi una parola che non si è ancora compromessa. Che non si è sporcata le mani. Che non china, come l’altra, il capo dinanzi ai poteri forti del mercato e della finanza, né si rassegna alla conseguente perdita dei diritti: elasticità. È una parola che sa di intelligenza; di disponibilità all’inclusione; di attitudine al mutamento, quand’esso si fa necessario; ed, insieme, di tensione al recupero, una volta cessata l’emergenza, della propria forma. Cioè, della propria identità. Ovvero, quel che più conta, della propria dignità.
Insomma, una parola che sa ancora di Scuola.

gennaio - aprile 2004