Pensioni: la menzogna del potere, il potere della menzogna
di Francesco Mancini

Nel messaggio televisivo a reti unificate col quale ha preannunciato l’ennesimo provvedimento legislativo in materia di pensioni, poi in effetti varato dal governo a tempo di record, il presidente del consiglio ha scongiurato gli italiani di non credere a quanti affermano che il sistema pensionistico pubblico è in equilibrio e non presenta problemi. Ha invece raccomandato caldamente, affettando mimica e tono preoccupato da buon padre di famiglia, di credere a lui, che viceversa afferma che il sistema previdenziale è disastrato ed in grave squilibrio, tanto da mettere in forse nel prossimo futuro le pensioni di tutti (attuali pensionati, lavoratori e in genere contribuenti in attività, giovani in cerca di prima occupazione o alle prime esperienze lavorative).
Vale la pena di rammentare, al riguardo, che in tempi diversi e non sospetti, ma comunque assai recenti (nel corso del 2003), il buono stato di salute e le prospettive positive del sistema pensionistico sono stati affermati e certificati documentalmente nelle relazioni dell’INPS e dell’INPDAP, oltre che dalla Ragioneria Generale dello Stato.
Anche le organizzazioni sindacali sostengono che la cosiddetta “riforma Dini” (legge 335 del 1995) ha risolto, a regime, ogni problema di sostenibilità dell’onere delle pensioni e che, pertanto, non sono necessarie modifiche del sistema previdenziale, men che mai radicali. CGIL, CISL e UIL hanno richiamato, a ulteriore sostegno di quanto affermato, il primo atto dello stesso governo attualmente in carica in materia di pensioni: la relazione della commissione presieduta dal sottosegretario al welfare Alberto Brambilla, che effettuò la verifica della performance della già citata c.d. riforma Dini con riferimento alla data del 31 dicembre 2001, accertando che il provvedimento legislativo aveva sostanzialmente funzionato e conseguito i risparmi previsti.
Le stesse confederazioni hanno messo a punto un documento unitario intitolato “Pensioni: le bugie del governo”, inviato ai loro iscritti, in cui riassumono i punti principali (otto bugie), sui quali il capo del governo avrebbe mentito alla nazione. È il caso di sottolineare, in proposito, che, mentre il presidente del consiglio, per effetto delle modifiche recentemente apportate alle prerogative connesse alla sua carica, non rischia nulla a dare del mentitore a chicchessia, ciò non vale, ovviamente, per i comuni cittadini, compresi i segretari generali delle organizzazioni sindacali, i quali possono in ogni momento essere chiamati a rispondere in sede penale delle proprie affermazioni, qualora vi venissero ravvisati gli estremi della calunnia.
Nella sostanza, le organizzazioni sindacali hanno affermato che, a seguito dei tre provvedimenti legislativi adottati negli Anni Novanta, il sistema previdenziale pubblico è in equilibrio e che, anzi, sarebbero proprio le modifiche che si intende introdurre a squilibrarlo ed a mettere in forse anche le pensioni delle nuove generazioni. I sindacati hanno sottolineato, inoltre, che, diversamente da quanto affermato dal governo, le modifiche proposte comportano in pratica la cancellazione delle pensioni di anzianità. Essi negano, altresì:
– che veramente le modifiche siano state richieste dall’Unione Europea;
– che veramente esse comportino l’asserito miglioramento dei trattamenti pensionistici;
– che veramente sia necessario l’utilizzo obbligatorio del trattamento di fine rapporto per lo sviluppo della previdenza complementare;
– che veramente si vogliano superare le diversità di trattamento ancora presenti nel sistema previdenziale;
– che veramente siano previste norme particolari in favore dei lavoratori addetti ad attività usuranti.
A prescindere dalle posizioni assunte nella circostanza dai sindacati, non è certo contestabile che negli Anni Novanta siano stati adottati ben tre diversi provvedimenti legislativi in materia di pensioni (legge Amato nel 1992, legge Dini nel 1995, legge finanziaria Prodi nel 1998), né che le modifiche introdotte abbiano già comportato rilevanti cosiddetti “risparmi”, valutati dalle confederazioni sindacali in circa 100 miliardi di euro, e altri ne comporteranno in futuro.
È opportuno considerare la reale natura di ciò che, del tutto impropriamente, in materia di pensioni, si definisce risparmio, soffermandosi anche brevemente sul significato e gli scopi della previdenza. Come dovrebbe essere arcinoto, essa consiste nell’accantonamento, nella fase della vita in cui si è attivi e produttivi, di risorse da utilizzarsi allorché tale capacità viene meno. Per ciò che concerne specificamente il caso italiano, il sistema pensionistico ha avuto, fino a tempi recentissimi, carattere quasi esclusivamente pubblico. In pratica, gli assicurati - soprattutto i lavoratori dipendenti ed i loro datori di lavoro - hanno versato agli enti competenti, soprattutto INPS e INPDAP, i contributi previdenziali, affinché li gestissero con la prudenza del buon padre di famiglia.
Sembra il caso di rimarcare alcuni punti, che, forse perché troppo ovvi o banali o intuitivi, non vengono per solito richiamati o sottolineati:
– l’ente previdenziale gestisce risorse non proprie, che sono, cioè, di proprietà degli assicurati, nel caso italiano, in massima parte, dei lavoratori dipendenti;
– il valore di queste proprietà è pari al montante delle rendite, costituite dai contributi annualmente versati, capitalizzati a tassi d’interesse commisurati, sempre in accordo con il riferimento alla prudenza del buon padre di famiglia, agli impieghi finanziari a rischio zero (depositi bancari e titoli del debito pubblico a carattere non speculativo);
– i livelli dei tassi di remunerazione degli impieghi del tipo richiamato, ancorché ultraprudenziali, in tempi non lontani della storia del nostro paese (Anni Settanta e Ottanta) sono stati talmente elevati da comportare raddoppi cumulativi, in ragione geometrica, del montante in un numero assai limitato di anni (sei, cinque, quattro, perfino tre, nel periodo in cui i rendimenti della specie sono stati pari o superiori al 26%).
Inoltre, per quanto certamente superfluo, non andrebbe dimenticato che al momento del pensionamento il valore del montante maturato dall’assicurato presso l’ente previdenziale è di gran lunga superiore all’ammontare della pensione che annualmente gli viene erogata. Non è, anzi, da escludere che, anche per effetto delle decurtazioni e mutilazioni subite a seguito delle successive cosiddette riforme, la pensione stessa possa corrispondere all’interesse, sempre calcolato a tassi prudenziali, sul capitale complessivo maturato. In altri termini, il pensionato, in accordo con le regole della matematica finanziaria ed attuariale, in base alle quali andrebbe determinata la sua rendita pensionistica, resta sempre e comunque ampiamente in credito nei confronti dell’ente previdenziale, che continua a detenere larga parte, se non addirittura la totalità, della ricchezza di sua spettanza, cioè di sua proprietà. Eppure, nonostante l’ente previdenziale non faccia altro che restituire all’assicurato solo una piccola parte della sua proprietà – e forse neanche quella – l’idea corrente imposta dalla vulgata mass-mediatica è che siano i pensionati a costituire un peso e ad essere mantenuti dalla società.
In realtà, è vero l’esatto contrario. Fin dagli Anni Cinquanta, agli enti previdenziali pubblici furono attribuiti compiti e imposti oneri per lo più attinenti alla sfera assistenziale, per far fronte ai quali non furono dotati dei mezzi necessari, per cui attinsero alle risorse loro affidate per la gestione del sistema pensionistico. In pratica, il sistema previdenziale, anziché indebitarsi con le banche o con il pubblico, pagando i relativi interessi, ha “preso in prestito” gratis e senza chiedere il permesso ai proprietari i soldi di spettanza degli assicurati. Questi soldi sono stati spesi per fini assistenziali, anziché previdenziali, oltre che nell’interesse elettoralistici di forze politiche ed a vantaggio dei datori di lavoro, a molti dei quali è accaduto, anche a più riprese, di ripartirsi come dividendi i contributi erogati dall’INPS, per esempio a titolo di cassa integrazione. Tutto ciò sta a significare che il valore finanziario effettivo delle risorse accantonate per motivi previdenziali è da ritenersi molto più elevato, in quanto andrebbe calcolato ai tassi, ben più elevati, risparmiati evitando il ricorso all’indebitamento. Più in generale, il valore del patrimonio previdenziale, quale storico contributo al progresso sociale ed economico ed alla stabilità della nazione può considerarsi, senza alcuna concessione alla retorica, del tutto incommensurabile.
Come noto, il “prestito” è stato trattato, del tutto arbitrariamente ed ingiustificatamente, come una perdita definitiva subita dagli enti previdenziali e, quindi, dagli assicurati e, soprattutto, dai lavoratori dipendenti, ai quali è stato negato, con una legislazione ad hoc, il diritto a rientrare in possesso di quanto di loro spettanza. Appare quantomeno singolare questa noncuranza per il carattere in ogni altro caso considerato sacrale del diritto di proprietà, salvo allorché ne siano titolari categorie deboli, come i lavoratori dipendenti, i pensionati e i giovani in cerca di prima occupazione o alle prime esperienze lavorative.
A giustificazione di quello che null’altro è se non un furto legalizzato, si è fatto ricorso al vecchio e collaudato trucco di trasferire il ragionamento dal microeconomico al macroeconomico. In parole povere, si è passati, del tutto arbitrariamente, dal piano dei diritti acquisiti e riconosciuti in base alle leggi vigenti, alla considerazione di fattori quali l’andamento del prodotto interno lordo e le dinamiche demografiche, che in realtà c’entrano come i classici cavoli a merenda con le regole ed i fondamenti della previdenza e ancor meno con le vicissitudini della medesima in Italia. Insomma, da un certo punto in poi, è stato progressivamente introdotto il principio per cui i diritti legittimamente acquisiti, sia pure di proprietà e sempre che non riguardino le classi dirigenti, si rispettano solo se considerati compatibili e nella misura ritenuta sostenibile da politicanti, imprenditori, alta finanza e dagli economisti e commercialisti al loro servizio.
Per la verità, non è che gli argomenti addotti abbiano un reale fondamento neanche dal punto vista macroeconomico. Basterà considerare, al riguardo, l’uso strumentale del dato relativo all’invecchiamento medio della popolazione, per effetto del quale il sistema previdenziale verrebbe squilibrato dall’aumento dell’età media, in quanto una percentuale sempre più bassa di individui attivi si troverebbe a dover mantenere l’aliquota sempre più elevata dei pensionati. Altrettanto campata in aria, oltre che socialmente pericolosa, è l’invenzione di un conflitto generazionale fra giovani e anziani, capziosamente volta a convincere l’opinione pubblica che gli anziani vengano mantenuti dalla società a scapito dei giovani e che ciò che viene tolto a lavoratori anziani e pensionati possa e debba andare a vantaggio delle nuove generazioni, in termini di livelli occupazionali, retributivi e perfino previdenziali. Non è raro che nella considerazione di questo genere di argomenti l’obnubilamento prodotto dalle distorsioni della propaganda impedisca di vedere l’evidente:
– le classi più giovani sono di fatto quelle meno attive o produttive, in quanto afflitte dal tasso di disoccupazione di gran lunga più elevato, dato che, in generale, l’orientamento delle imprese tende ad evitare di assumere nuovi dipendenti, se non a condizioni il più possibile peggiori di quelle contrattualmente acquisite dai lavoratori già occupati;
– sono i giovani in cerca di prima occupazione o alle prime esperienze lavorative ad essere mantenuti - o, quantomeno, aiutati - dai familiari anziani pensionati, non viceversa;
– una riduzione dei livelli pensionistici necessariamente comporta un aggravamento anche della condizione giovanile, oltre che dei pensionati, con le inevitabili pesanti conseguenze sociali facilmente prevedibili;
– la situazione delle classi giovanili viene ulteriormente peggiorata dall’orientamento governativo ed imprenditoriale, ribadito nell’occasione di cui trattasi, a rinviare il pensionamento dei dipendenti in attività, ritardando e limitando l’immissione di giovani nel mondo del lavoro;
– ciò che viene tolto ai lavoratori ed ai pensionati in termini di diritto alla pensione viene dato non ai giovani, ma agli imprenditori, nella forma di riduzione di costi e incremento della redditività;
– la storia recente e la situazione attuale mostrano chiaramente che solo in minima parte i profitti degli imprenditori si traducono in impieghi produttivi, andando per lo più ad alimentare ulteriormente la già abnorme proliferazione degli investimenti e prodotti finanziari, la cosiddetta economia di carta, che sempre più soffoca le attività produttive;
– anziché destabilizzare la società e l’economia tramite l’attacco alle pensioni, in particolare alla previdenza pubblica, le politiche economiche dovrebbero essere finalizzate alla tassazione ed al ridimensionamento di rendite e patrimoni finanziari ed al trasferimento dei capitali da impieghi finanziari ad investimenti produttivi.
Circa i reali obiettivi ed i risultati dell’ennesimo intervento sulla previdenza pubblica, non sembra possano esservi soverchi dubbi:
– mettere in difficoltà la previdenza pubblica, creando o aggravando lo squilibrio finanziario degli istituti cui è affidata;
– favorire la previdenza privata, a scapito di quella pubblica;
– ridurre l’onere contributivo a carico dei datori di lavoro, attualmente pari a circa il 32,7% del totale della spesa del personale dipendente;
– incrementare i consumi privati e, quindi, il giro d’affari ed i profitti delle imprese, a scapito del risparmio e della previdenza, tramite la trasformazione dei contributi previdenziali in retribuzione immediatamente spendibile, per quei lavoratori che scelgano di ritardare il pensionamento, pur avendo maturato il diritto alla pensione di anzianità;
– provocare una ulteriore finanziarizzazione dell’economia, con il trasferimento alla previdenza privata di quote consistenti degli accantonamenti di fine rapporto e dei fondi pensione pubblici.
Del tutto pretestuoso e chiaramente strumentale, invece, appare il collegamento stabilito dal governo fra il provvedimento in materia di pensioni ed i conti pubblici del 2004. I cosiddetti risparmi conseguibili nell’arco dei 12 mesi, per ammissione della stessa compagine governativa, sono tanto modesti da potersi tranquillamente considerare trascurabili.
Circa le asserite fosche prospettive a lungo termine della previdenza pubblica, ammesso pure che non siano esagerate e drammatizzate ad arte, lo stato ha tutto il tempo per dotarsi degli strumenti finanziari idonei a far fronte a quello che, al più, si configurerebbe come un temporaneo deficit di liquidità e non come una crisi strutturale. Si fa sommessamente notare, al riguardo, che è sempre possibile far fronte agevolmente agli impegni futuri in materia di previdenza, tramite l’assolvimento dell’obbligo legale del recupero e del perseguimento dell’evasione contributiva, che invece viene lasciata impunemente viaggiare ai consueti livelli stratosferici.
Le ultime vicissitudini della previdenza pubblica non devono però far dimenticare che il saccheggio della ricchezza dei lavoratori italiani e dei loro diritti pensionistici non è cosa recente, né, come già accennato, può considerarsi appannaggio esclusivo di governi di destra o centro-destra, né, ancora, è stato mai messo in atto senza la complicità attiva o passiva delle organizzazioni sindacali e dei partiti di sinistra. Tale saccheggio ha certamente contribuito in misura significativa ad alimentare ricavi e profitti delle imprese già a partire dagli Anni Cinquanta ed ha avuto parte sicuramente rilevante, se non fondamentale, ancorché misconosciuta, nel cosiddetto boom economico o miracolo italiano che dir si voglia. Infatti, già con la legge 218 del 1952 furono poste le premesse per il passaggio dal sistema a capitalizzazione al sistema a ripartizione. Nel linguaggio subdolamente ingannevole dei burocrati e dei politicanti, questo stava a significare che le fonti per i pagamenti da effettuarsi annualmente ai pensionati dovevano intendersi da allora in poi individuate e limitate all’ammontare dei contributi annualmente versati dagli assicurati in attività.
Ovviamente, questa innovazione, in sostanza null’altro che un furto, ancorché attuato per via legislativa, è stata storicamente sempre presentata in maniera positiva, con riferimenti a finalità e concetti elevati, quali solidarietà, eguaglianza, progresso sociale e simili. La sostituzione del sistema a capitalizzazione o contributivo con quello cosiddetto retributivo o a ripartizione è stata pure falsamente prospettata come vantaggiosa per gli assicurati, tramite una ingannevole definizione dei concetti chiave e l’attribuzione di significati impropri ai termini utilizzati.
Il risultato di questa opera di manipolazione della lingua, dell’informazione e della storia è il rischio o la certezza di passare per alieni o alienati anche solo a richiamare, in materia di pensioni, le più elementari regole dell’economia, del diritto e perfino della matematica, cosicché è da ritenersi esclusa qualunque concreta possibilità non solo di ottenerne il rispetto, ma anche solo di rivendicarlo. È solo in tempi assai recenti che termini come saccheggio e menzogna sono stati ritenuti appropriati al confronto politico ed economico, dopodiché sono stati utilizzati fin troppo, per lo più a sproposito e faziosamente. L’approfondimento di vicende quali quelle riguardanti la previdenza pubblica in Italia porta invece a considerare del tutto plausibile e ad assumere come seria ipotesi di lavoro la possibilità che essi costituiscano parte fondamentale, essenziale e generale dell’azione e dei moventi degli uomini d’affari e dei politicanti ed economisti al loro servizio.

gennaio - aprile 2004