Il crollo dell’università pubblica
di Francesco Gallerano

L’assalto distruttivo nei confronti dell’università pubblica è ormai pienamente dispiegato. Il processo di privatizzazione dell’università va avanti; è un processo che è iniziato già da molto tempo. Il governo Amato aveva già, per legge, previsto la possibilità dell’istituzione di fondazioni private; queste fondazioni sarebbero dovute essere (nell’intenzione del legislatore) dei contenitori per i capitali finanziari provenienti dalle banche, in relazione alla legge antitrust. Tali capitali, gestiti dalle fondazioni private, sarebbero dovuti intervenire in supporto all’università pubblica (la quale sarebbe dovuta rimanere pubblica).
La Moratti cambia invece completamente il significato delle fondazioni con la Legge Finanziaria del dicembre 2001; per il ministro le fondazioni universitarie di diritto privato sono luoghi nei quali i privati intervengono a recuperare fondi (a livello locale, nazionale e finanche internazionale) per poter supportare le principali attività universitarie quali la didattica e la ricerca.
L’istituzione delle fondazioni per legge rappresenta dunque un momento importante dell’assalto al carattere pubblico dell’università; va da sé che il governo Amato ha aperto una porta dentro la quale si sono infilati (sfondando tutto) il ministro Moratti e il governo Berlusconi.
La seconda linea d’attacco al carattere pubblico dell’università si è palesata nella finanziaria 2002 – 2003 nella quale è prevista la possibilità di sciogliere gli enti pubblici con deficit di bilancio e di convertirli in fondazioni.
Il terzo elemento d’attacco è invece rappresentato dalla regionalizzazione del sistema universitario, finanziato direttamente dalla Regione e non più dallo Stato. Questo terzo punto è stato particolarmente sottovalutato; ma se pensiamo che nell’ateneo “ La Sapienza” gli studenti del Lazio sono solamente il 38% e se immaginiamo che i finanziamenti dello Stato alla Regione sarebbero certamente in qualche misura proporzionali al numero dei soli studenti residenti nel Lazio, arriviamo alla conclusione che atenei (quali la citata Sapienza) frequentati in maniera preponderante da studenti non residenti, andrebbero incontro al proscioglimento per deficit di bilancio.
Le tre linee di privatizzazione dell’università pubblica sono, quindi, relazionate a:
– La possibilità per le università di dotarsi di fondazioni di diritto privato attraverso l’esternalizzazione di alcune sue funzioni essenziali;
– Il proscioglimento degli enti pubblici con deficit di bilancio e la loro trasformazione in fondazioni;
– La regionalizzazione del sistema universitario finanziariamente supportato dalle Regioni e non dallo Stato;
Accanto a questo attacco si affianca la riforma voluta da Berlinguer e continuata da Moratti (la famigerata riforma del “3+2”).
Tale riforma prevede un primo triennio per la produzione di un laureato con una preparazione professionalizzante, e un biennio successivo di specializzazione. Le ragioni di tale riforma risiedevano, a detta dei proponenti, nel fatto che il mercato richiede una figura culturalmente più bassa di quella che veniva offerta dalle vecchie lauree.
Nel seguito la critica all’impostazione di questa riforma prende le mosse da quello che è successo nella facoltà di Ingegneria; ma le considerazioni che valgono per la facoltà di ingegneria possono essere comodamente estese a tutte le altre facoltà.
Sostanzialmente la riforma Berlinguer – Moratti ritiene che il mercato richieda un semplice esecutore di procedure già definite e formalizzate, ovvero un tecnico operativo in grado di applicare un numero finito di sequenze operazionali finalizzate al raggiungimento di un determinato scopo, sia progettuale che costruttivo.
Si potrebbe sviluppare una considerazione critica rispetto al fatto che il mercato richieda solo questo tipo di figura professionale; ma anche ammettendo che tale richiesta sia vera, un semplice applicatore di procedure (ossia una figura professionale che è in grado di applicare un numero finito di passi operazionali tesi a raggiungere un determinato fine sia progettuale che applicativo) entra in contraddizione con il fatto che le procedure vanno modificandosi rapidamente. Infatti la continua innovazione tecnologica nel processo produttivo (dell’oggetto come del progetto) sta mostrando anche un continuo aggiornamento delle procedure sia progettuali che realizzative e costruttive. Allora un semplice esecutore, non dotato dei capisaldi concettuali che determinano le procedure, non è in grado di seguire la rapida evoluzione del processo di trasformazione delle procedure stesse.
Da qui il completo fallimento di questa riforma: quand’anche si volesse produrre un tecnico operativo bisognerebbe fornirgli un bagaglio culturale in grado di dare, a tale figura professionale, la possibilità di seguire l’evoluzione e l’aggiornamento delle procedure per tutta la durata della propria attività professionale e lavorativa.
In sintesi si può quindi prefigurare una prima conclusione. L’attacco all’università pubblica si sviluppa su due linee concentriche: da una parte lo smantellamento dell’università con la produzione di crisi finanziarie negli atenei e la loro conseguente trasformazione in fondazioni private; dall’altra parte la distruzione dell’università come luogo più alto della formazione del sapere e della cultura di una nazione, ove si formano gli intellettuali (ed in particolare nelle facoltà di ingegneria gli intellettuali della tecnologia).
L’analisi fin qui condotta risulterebbe insufficiente se ci si limitasse esclusivamente ad osservare il fenomeno. Il vero interesse sta nella ricerca delle cause di ciò che sta dietro a questa filosofia di assalto all’università pubblica. Le ipotesi sono tante e vengono formulate da più parti, ma ritengo che le vere ragioni di questo assalto risiedano nella modifica degli assetti strutturali che in questi ultimi anni abbiamo visto e che sostanzialmente coincidono con la fine del capitalismo di stampo keynesiano: la contraddizione di fondo del capitalismo tra socialità del momento produttivo e privatezza del momento appropriativo (contraddizione che tendenzialmente produce sempre delle crisi di sovrapproduzione) per almeno un cinquantennio è stata sostanzialmente contenuta attraverso un forte sostegno alla domanda; gli stati nazionali sono stati in grado di ridurre la competizione tra i capitali e di sostenere massicciamente la domanda solvibile in modo da attenuare gli effetti devastanti delle crisi, pur sempre incipienti, di sovrapproduzione. Questo tipo di capitalismo, che è riuscito di volta in volta a trovare un punto di equilibrio con la democrazia almeno nel nord del mondo (facendo comunque pagare un prezzo molto alto ai popoli del terzo mondo), è ora completamente tramontato.
Le ragioni di questo tramonto sono molteplici e non vengono qui ribadite; in ogni caso va enfatizzato il fatto che non è più riformulabile un’ipotesi riformista legata al capitalismo keynesiano, nel senso che non risulta più possibile agli stati nazionali dare un sostegno alla domanda per poter supportare la produzione: il carattere necessariamente nazionale di tale sostegno alla domanda entra in contraddizione con il carattere internazionalizzato e globalizzato della circolazione delle merci: in altri termini dare soldi ai braccianti lucani produrrebbe l’effetto che costoro comprerebbero Mitsubishi e la FIAT fallirebbe in ogni caso. Un sostegno alla domanda solvibile produrrebbe quindi un quadro di orientamento soltanto per la produzione di quelle merci che hanno un elevato contenuto tecnologico, merci che però sono globalizzate e internazionalizzate sul piano della circolazione.
Quindi il keynesismo non è più formulabile.
Abbiamo assistito in questi ultimi anni ad un eccezionale incremento della produttività nel processo produttivo della merce materiale; tale incremento di produttività ha portato ad un incremento del rapporto tra capitale costante (ossia il capitale investito nei mezzi di produzione) e capitale variabile (ossia il capitale investito nel salario). Va da sé che questo processo, riducendo la quota parte di capitale variabile, riduce anche la quota parte di plusvalore.
In sintesi non si è lontani dal vero se si afferma che nella produzione della merce materiale il processo di valorizzazione dei capitali ha visto via via ridursi il plusvalore prodotto.
Le modalità con le quali il capitalismo sta reagendo a questa progressiva riduzione di plusvalore nella produzione delle merci materiali sono molteplici e non vengono qui analizzate; viene presa in considerazione solo una specifica risposta del capitalismo alla crisi del keynesismo e alla riduzione di accumulazione di plusvalore nella produzione delle merci materiali; ossia ci si attrezza ad analizzare solo quella risposta intimamente connessa alle modifiche degli assetti delle istituzioni deputate alla formazione del sapere e della cultura.
Negli Stati Uniti in particolare, ma anche in Europa, si è attivato un nuovo processo di valorizzazione legato alla produzione di merce immateriale, ossia alla produzione dell’informazione. È sotto gli occhi di tutti che tante merci materiali come il telefonino, come l’ABS, come l’air-bag, hanno intrappolato dentro di sé un’elevata quantità di valore, la maggior parte del quale è legato ad un’idea innovativa ovvero ad un’informazione. In altri termini il continuo processo di competizione nell’innovazione tecnologica ha portato e porta sempre più alla vittoria di quelle merci immateriali che rappresentano il luogo ove si è esplicitata, in forma vincente, l’idea innovativa dell’informazione.
Non che questo processo non sia sempre stato presente nel capitalismo, ma in quest’ultima fase, con l’intervento della robotica, dell’informatica e della telematica, si è moltiplicato in maniera eccezionale.
La produzione della merce immateriale è quindi il nuovo luogo nel quale il capitale cerca la propria valorizzazione, scontrandosi però con una contraddizione fondamentale: il capitale ha di fronte un nuovo soggetto sociale, il produttore della merce immateriale. Questa figura possiede qualcosa in più oltre alla propria prole: possiede il sapere. Tale soggetto sociale quindi è in qualche modo anch’esso possessore dei mezzi di produzione, ed essendone consapevole può esplicitare una potenza tendenzialmente ben superiore a quella del vecchio produttore di valori legato alla produzione della merce materiale.
Il capitale ha quindi bisogno in primis di disarticolare questa figura, scomponendo le modalità di accesso alla formazione del sapere, spezzando l’università, dividendo il momento di formazione e sviluppando percorsi estremamente separati l’uno dall’altro. Il capitale cerca quindi un produttore di valore della merce immateriale che sia in possesso di un sapere specialistico ma che non abbia una visione generale e globale dell’intero processo; solo così la borghesia della globalizzazione ha la presunzione di potere neutralizzare il nuovo soggetto sociale, di spezzarlo, di renderlo meno potente.
Bisogna inoltre tenere presente che all’oggi lo studio, la formazione del sapere, viene ritenuto un diritto offerto come un servizio dalle istituzioni. Va da sé che per trasformar questo diritto in una merce, ossia per fare del luogo dove si produce sapere un luogo nel quale il capitale si valorizza, è necessario levare allo studio la sua caratterizzazione di diritto e di trasformarlo appunto in una merce consumabile solo da chi ha determinati requisiti economici. In altre parole, affinché il capitale possa individuare nel luogo di produzione del sapere un luogo nel quale innescare un processo di valorizzazione del capitale stesso, occorre che lo studio, il sapere e la cultura divengano merce concessa esclusivamente a chi è in grado di pagarsela e non più un diritto garantito a tutti.
Queste sono in ultima stanza le vere ragioni che stanno dietro la riforma Moratti, e che si esprimono in Italia in una forma forse più ridicola di altrove ma che sono presenti in Europa e un po’ in tutto il mondo. L’aspetto comico della vicenda è che ognuno dei governanti che sta praticando questo processo di smantellamento dell’università pubblica, ossia che sta praticando la ritirata delle istituzioni dalle università pubbliche affinché nel luogo della produzione del sapere possa intervenire il capitale e la sua valorizzazione, adduce un’altra scusa: “dobbiamo privatizzare per adeguarci all’Europa…”; ma quale Europa? Gli studenti francesi in questi giorni stanno contestando queste scelte di privatizzazione, l’anno scorso si sono verificate occupazioni in Germania, ed anche i movimenti studenteschi italiani e spagnoli si sono collocati su linee di protesta.
La comicità della vicenda sta dentro il fatto che ovunque in Europa si adduce il bisogno di adeguarsi all’Europa, di un’Europa che però non c’è; tale Europa sta soltanto nei bisogni del capitale di ricollocarsi nei luoghi di valorizzazione associati alla produzione di merce immateriale, stante il fatto che nei luoghi ove si produce la merce materiale il capitale vede estinguere sempre di più la sua possibilità di valorizzarsi.

gennaio - aprile 2004