Conversando con Carmelo Bene
di Maria Pia Lippolis

“I Lager esistono già, ma nessuno vuole ammetterlo, non si riconoscono. La società dello spettacolo è un lager. Ma lì ci sguazza anche la politica. Se si parla di Aushwitz, tutti d’accordo, si parla di lager, individuati e biasimati. Ma se tutto il mondo è uno sterminato lager, come si possono “apprezzare” i piccoli lager parziali? I letti matrimoniali, le cabine elettorali, gli asili nido, gli ospedali, ecc.… ti trovi imbavagliato, se non l’hai già fatto da te, in questa invivibilità della vita. D’attribuirsi in gran parte al regime democratico (demagogico) e alla stampaglia di regime.”(1)
Carmelo Bene è stato nel pozzo col pipistrello: ricovero coatto nel labirinto psichiatrico, micro-labirinto entro il macro-labirinto demagogico entro il quale viveva.

“Un’esperienza più istruttiva o distruttiva?”
“Una vera delizia, un grande apprendistato. Se non sei pazzo, ci diventi. Gente che stava lì anche da quarant’anni, dimenticata da parenti, amici, da tutti. Dicevano cose inaudite ma interessanti. Fuoriuscivano dal linguaggio comune. L’organista impazzito a Tunisi suonava come un dio. Non ho mai più sentito suonare l’organo in questo modo. Accadevano cose strane in quel posto. Non ci si annoiava. Tutto sembrava tranquillo. Mangiavano quieti in questo sbatter di plastica. D’improvviso, all’unisono, volava tutto. Tutto. Piatti, tavoli, minestre. Senza ragione. Il gratuito era fulminante. Una strana pazzia simultanea. Forse è il loro modo di sparecchiare, mi dicevo! Ma non toccava a loro sparecchiare. E allora giù botte da orbi, gli infermieri in assetto di guerra…”.(2) Poi continua “c’era un avvocato di sessant’anni dimenticato dal mondo. Non usciva mai dalla sua stanza, nemmeno per venire a tavola. Per stimolarlo, i colleghi fuor di sé si schieravano sulle due ali del corridoio e lo chiamavano. Lui usciva dalla sua camera e passava tra le ali di folle impugnando una sedia come fossero le corna di un toro, tra le ovazioni generali. Non c’era altro verso di alimentarlo. Mi batteva sempre a scacchi e qualche volta anche a dama, tra le sue manie c’era quella di ricordarmi che la radio l’aveva inventata Claudio Villa. ‘Sì, ma utilizzando un mezzo di Marconi, mi sforzavo io di entrare nella sua logica non rinunciando del tutto alla mia. ‘No, senza Claudio Villa non ci sarebbe radio. Anche Gesù viene dopo i profeti, ma in realtà i profeti vengono prima per annunciare il Cristo. Se non fosse venuto il Cristo, sarebbero stati inutili i profeti’. Non faceva una piega. Grandissimo antistoricismo. Il fallimento totale d’Aloysius Lilius e dei suoi calendari”(3).

“ Che tipo di frasario vi scambiavate?”
“Buchi neri. Assolutamente. Tic. Amen. Ah sì? Spropositi. Atti assurdi. Si inchinavano. Schiaffeggiavano il nulla. L’ora d’aria in cortile. Da bravi ergastolani giocavano a pallone, finchè io non prendevo a recitare Marco Antonio o Cyrano Di Bergerac. Smettevano di calciare. Sedevano in terra tutta l’ora, dimentichi del pallone. Mi tributavano trionfi veri e propri. So per certo di aver lasciato un gran vuoto là dentro. Poi c’era Agostino, questo gorilla timido, armadio a quattro ante. ‘Coraggio Agostino, si esprima a modo suo’ lo confortavo. ‘Le monache dicono che andrò all’inferno perché bestemmio. Se io vado all’inferno è perché sono amico del diavolo, giusto?’ ‘Non ci piove’. ‘E perché allora nessuno mi sa spiegare come mai il diavolo dovrebbe trattar male i suoi amici, farli soffrire? Sono nemico di nostro Signore, ma con Lucifero sono amico, o no?’ ‘Ha ragione Agostino’”(4).

“C’era qualcuno sano in questo manicomio?”
“Si nasce pazzi, poi qualcuno ci resta, diceva Beckett. Contagiati da tanto straordinario materiale umanoide, gli infermieri finivano per delirare peggio delle loro vittime. Anche se poi i discorsi dei cosiddetti pazzi non fanno mai una piega. Hanno un rigore straordinario, basta scapolare il linguaggio. Imparai ad accogliere i miei di buchi neri. Fu questa la grande lezione, altro che Lacan, studiato solo quindici anni dopo. Agostino mi proponeva questo indovinello teologico. Non ci dormiva la notte. Nemmeno il prete sapeva spiegarlo”(5). Paradosso del linguaggio che testimonia la massima impotenza di colui che parla, ma anche la più alta potenza del linguaggio. “Agostino esce dunque confortato dal mio confessionale. Riaccendo ‘Madame Butterfly’. Sento picchiettare di nuovo alla porta. Carponi carponi, era l’avvocato: ‘Sono trent’anni che non sento Puccini’, mugolava. ‘Venga avvocato, piano… si segga’. Lo faccio accomodare. Piano piano ne arriva un altro, poi un altro ancora, alla fine la stanza si riempie, una piccola folla, una trentina di matti in ascolto religioso di un’opera poi non così eccelsa come la Butterfly. Non volava una mosca. E all’improvviso si scatena all’esterno un effetto larsen di sirene di sicurezza che scattava nei casi di evasione. Profittando dell’adunata operistica, tre o quattro avevano scavalcato il muro di cinta e ora li stavano braccando. Sembrava una sequenza da Alcatraz. Allo stesso tempo, altri energumeni travestiti da infermieri facevano irruzione nella mia camera impacchettando brutalmente i devoti, calmissimi ascoltatori della Butterfly. ‘A noi fateci continuare!’ protestai a nome dei melomani. ‘ Dottore, lei non si immischi per favore, questi li sistemiamo noi, pane, acqua e camicia di forza, in catene devono stare, per tre giorni!’. Era così allora. Non si stava troppo a sottilizzare. D’altra parte entravano come malati mentali e dopo qualche anno diventavano psicopatici senza speranza. Uno stava lì da quarant’anni, si era ridotto a mordere le reti arrugginite. Li lasciavano mezzi ignudi quando non li vestivano con la camicia di forza”.

“Accennavi alla grande lezione linguistica in manicomio”
“Era una macchina trita-linguaggio. In quella esplosione permanente, ti rendevi subito conto di essere capitato dalla parte giusta, dove il parlante era parlato. C’era una comunicativa fatta di non comunicazione, di significanti che si alleavano contro criteri arcani. Ininfluente che tu parlassi il turco o l’aramaico. Si spalancava l’abisso del vanus flati. Rivolgersi al prossimo per qualunque motivo: quella era la vera insensatezza. La precarietà del dialogo. L’illusione del linguaggio. La non-specularità del piano d’ascolto. Ognuno si credeva qualcos’altro, ma non perché si immedesimasse in altro, attenzione, come fanno gli attori di rappresentazione a teatro o nel cinema. No, quelli erano proprio ‘smedesimati’. Non c’era tempo, non c’era storia. Non c’era patria. Non c’era l’Io e non c’eri ‘Tu’. Due settimane, un salto di cento anni. Per prima cosa cestinai i versi che stavo scribacchiando, subito, via”. “Fu complicato ritrovarsi nel mondo di fuori, dei cosiddetti ‘sani di mente?’”. “Più d’uno dei cosiddetti pazzi mi scongiurava: ‘Ma è vero che ci lascia? Proprio stasera?’ mi persuadevano. ‘Non lo vede che piove? Dove va con quest’acquazzone? E poi domani è domenica. Perché proprio oggi? Ci lascia per sempre? C’abbandona?’ Infatti non stavo abbandonando loro. Uscendo, abbandonavo me stesso. Nel senso che mi sarei ‘ritrovato’”.

“Era tutto come prima con lei (la sua donna)?”
“Star fuori due minuti m’era bastato per capire che era più interessante star dentro. Più che capire, ero stato capito, da tutto. Anche il sesso, l’attrazione nei confronti di questa donna non mi significava più nulla. Bisognava tornare a parlare, spiegarsi, queste cose molto tristi, a sconquassare il corpo”(6).

“La lettura di Joyce dopo il passaggio in manicomio. A proposito di macchine trita-linguaggio?”
“Fu l’altro colpo d’ala. La lettura dell’Ulysses mi aveva depennato tutto il resto. Spazzato via Camus, ogni forma di esistenzialismo, ogni ‘ismo’. L’incontro letterario e forse anche non letterario decisamente più importante della mia vita. L’Ulysses è un fantastico gioco di significanti. Il pensiero non è mai descritto, ma immediato”(7). “La media-zione dell’espressione!: l’opinione è di massa! Costanzo interroga delle casalinghe, la massa si esprime, santifica il parere della gente comune. Consolatorio. Demagogico. Anche voi potete parlare. Dire la vostra. È un teatraccio dei buoni sentimenti, e poi ci sono gli agguati e le bombe fuori teatro per la gente comune. Ma la gente comune è un luogo comune…Sono sempre stato un attentato al sociale, alla democrazia. L’individuo è sempre un attentato. Uno stato democratico, appena intravede un individuo, al suo apparire si terrorizza e, se non può schiaffarlo in galera, lo consegna alla mediazione poliziesca della stampaglia. Ogni forma di qualità gli è estranea: va omologata o soppressa che è poi la stessa cosa. Assimilata al gregge la democrazia (demagogia) è ripugnante. Disprezza le masse ma le vezzeggia perché portano voti. Non c’è nulla che mi dia il panico come la massa”(8).
Amorfa, indistinta, ovattata, incastonata alla piramide, fossilizzata dal potere di Medusa in un “Apparato di cattura”, perché pensare è sempre uno spostarsi, un mettersi in gioco perché “pensare vuol dire tornare nel pozzo con il pipistrello. Cantare il ruolo della singolarità nella storia per sfuggire al carcere del quotidiano, poi rotolarsi verso il mare e immergersi nelle sue acque”. “Ridatemi il mio corpo senza organi” grida Artaud. “Cercavo uomini grandi ma ho trovato solo le scimmie dei loro ideali” urla Nietzsche mentre Dioniso canta “Sii saggia Arianna e canta, canta per chi può ascoltare e non dimenticarti di Apollo, a-pollon (non molti), non dimenticarti anche tu del filo, Arianna sei la mia unica speranza… sei la mia Musa dalle piccole orecchie del mio labirinto. La Musa scende per salvare Teseo dal labirinto della vita, la Musa scende per incontrare il suo poeta…ma lui non la riconosce. La Musa la si può solo ascoltare nel deserto della propria solitudine all’ombra delle fanciulle in fiore. Solo allora la musica e la poesia d’Eterna estasi fremono.

1) Carmelo Bene – G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, pag. 79.
2) Ivi, pag. 107.
3) Ivi, pag. 108
4) Ivi, Pag. 108-109
5) Ibidem.
6) Ivi, pagg. 110-111.
7) Ivi, Pag. 113
8) Ivi, Pag. 81.

gennaio - aprile 2004