L’utopia negata: democrazia ‘reale’ e democrazia ‘formale’ tra Eschilo e Pasolini
di Damiano de Virgilio

Nella lettera acclusa alla traduzione dell'Orestea di Eschilo, realizzata su  invito di Gassmann nel 1960 per la stagione teatrale dell'INDA di Siracusa dello stesso anno, Pasolini faceva una folgorante osservazione: “Il significato delle tragedie di Eschilo è solo, esclusivamente, politico. Clitennestra, Agamennone, Egisto, Oreste, Apollo, Atena, oltre che essere figure umanamente piene, contraddittorie, ricche, potentemente indefinite (…) sono soprattutto - nel senso che così stanno soprattutto a cuore all'autore - dei simboli: o degli strumenti per esprimere scenicamente delle idee, dei concetti: insomma, in una parola, per esprimere quella che oggi chiamiamo una ideologia”1.

Opinione difficilmente controvertibile: in un trittico tragico in cui l'ampio dispiegamento del livello mitologico dell'intreccio (le vicende di Agamennone che, di ritorno da Troia,  viene assassinato a tradimento da sua moglie Clitennestra; la vendetta imposta da Apollo, dio della solarità maschia e paladino del diritto paterno, a Oreste, costretto, perciò, ad uccidere sua madre, se non vuole disobbedire al dio; la persecuzione cui le Erinni, oscure tutrici del diritto materno, sottopongono il matricida; il suo rifugiarsi ad Atene, dove è destino che un tribunale istituito sì da Atena, ma composto da giudici umani, lo assolva), innervandosi in una struttura antropologico-religiosa di solenne suggestività (quella descritta da un primordiale potere uterino, simboleggiato dalla visceralità delle Erinni, che, accettando di onorare il verdetto assolutorio emesso nei confronti del matricida, si subordina ad un progresso a direzione fallocratica)2, approda celebrativamente ad una dimensione tutta storica e politica nell'istituzione del suffragio e del primo tribunale di stato della storia dell'umanità nel contesto della democrazia ateniese.

Impressiona, tuttavia, il fatto che Pasolini, individuando nella politicità la dimensione essenziale della trilogia eschilea, maturi un simile convincimento a seguito di un accostamento diretto, di natura emotivo-intuitiva, al testo tragico: al di fuori, cioè, di ogni mediazione filologica o storiografica.

 

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Testo, appunto, quant'altri mai inconciliabile con letture, pur sempre tenacemente riaffioranti, di ispirazione estetizzante e neoidealistica: nel costruirlo, il tragediografo ateniese del V sec a.C. si schierò a difesa del sistema democratico in uno dei momenti di più grave tensione politica a partire dalla sua istituzione ad opera di Clistene. Sistema democratico che, però, va subito detto, si era fondato su un patto di intesa non scritto tra ampi settori dell'aristocrazia di tradizione, disposti a rinunciare al recupero del precedente protagonismo politico di stampo oligarchico (a rischio, però, in quel contesto, di forte instabilità connessa a rivendicazioni politico-economiche dei ceti medi e medio-alti, potenziatisi durante la tirannide pisistratica appena abbattuta), e ceto capitalistico-imprenditoriale: un sistema, in definitiva, drasticamente elitario, che, giocando abilmente sul doppio binario della persuasione retorica e della cooptazione demagogica, riuscì a promuovere una politica imperialistica e affaristica, fondata sulla difesa di privilegi di classe, distribuiti secondo criteri di spartizione a loro modo rigorosi. In questo assetto, tuttavia, forze conservatrici erano riuscite ad imporre progressivamente al sistema una sorta di proprio diritto di supervisione e di filtro della politica interna ed estera della polis, individuando nel tribunale dell'Areopago - da quelle forze controllato - l'istituzione deputata ad esercitarlo. Colui che tentò di ricondurre l'Areopago alla sua originale funzione di tribunale religioso, incaricato, tra l'altro, della celebrazione di processi relativi a reati di sangue consumati all'interno del nucleo familiare, fu Efialte, capo del partito democratico: la reazione oligarchica tentò di arrestare il suo progetto, assassinandolo nel 461 a.C. Le redini del partito e la responsabilità di riprendere la lotta per la destituzione del tribunale aristocratico dai poteri supplementari passarono nelle mani di Pericle: il quale trovò nell'anziano tragediografo un leale alleato in quella rischiosa battaglia. Il contributo eschileo consistette in una trilogia tragica (Agamennone, Coefore, Eumenidi) portata in scena nel 458 a.C., l'Orestea appunto, che si conclude con la solenne istituzione, da parte della divinità eponima della città democratica, del tribunale dell'Areopago munito proprio di quelle competenze e di quel ruolo cui Efialte (e Pericle) voleva dimensionarlo. La solennità dell'affresco antropologico-religioso, collocato sullo sfondo (le Erinni dapprima riluttanti, infine, trasfigurate in benevole Eumenidi, persuase ad integrarsi con funzione ‘positivamente' repressiva nell'armonia della polis), enfatizzava l'efficacia del messaggio propagandistico, in un'ottica filopericlea, delle tragedie. Teatro di impegno, dunque: a difesa del sistema democratico e del patto che lo aveva istituito.

Di questa politicità del testo tragico, però, tutta giocata sul filo di interessi di classe in conflitto, non si coglie traccia nella lettura pasoliniana. In essa, invero, il nucleo ideologico eschileo appare tutto ingenuamente inteso a trasmettere una visione sublime di un'esemplare esperienza politico-culturale della storia occidentale, quella dell'istituzione del voto popolare e della giustizia amministrata dagli uomini: “Il momento più alto della trilogia è sicuramente l'acme delle Eumenidi, quando Atena istituisce la prima assemblea democratica della storia. Nessuna vicenda, nessuna morte, nessuna angoscia delle tragedie dà  una commozione più profonda ed assoluta di questa pagina3.

 

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Né tanto si fa rilevare per rimarcare un difetto di critica: piuttosto, con lo scopo di attivare una comprensione delle peculiari ragioni che spingono la creatività pasoliniana ad una frequente riappropriazione-manipolazione del classico. E con ciò siamo al problema dell'attendibilità filologica della traduzione da lui condotta dal greco di Eschilo.

Per esplicita dichiarazione del traduttore, il criterio seguito è stato la “brutalità dell'istinto”, temperato da un generico edonismo critico (“sceglievo il testo e l'interpretazione che mi piaceva di più4). Peggio di così non poteva comportarsi, confessa. La verità è che il suo approccio al testo di Eschilo è – né altrimenti poteva essere – programmaticamente a-filologico: il che necessita sempre quando si traduce un testo di un altro popolo sapendo che “fra questo popolo e noi esiste non soltanto una differenza di razza e di lingua, ma anche un tremendo scatto di tradizione”5.  

Solo accettando la sfida non di ‘serrare' questo scatto, ma piuttosto di provocare il testo d'origine ad un rifacimento di sé anche per via di forzature, analogie, integrazioni, omissioni, la ‘traduzione' perviene ad una comunicazione forte ed incisiva in un contesto sociale, culturale, antropologico, spaziale che, per quanto appaia remoto ed inconciliabile rispetto a quello originario, attraverso sottili quanto robusti legami di senso – che è il traduttore, non il filologo, a tessere e a connettere – ad esso inaspettatamente si apparenta per simmetrie e parallelismi politico-concettuali fino ad allora insospettati: al di fuori di questa modalità di resa, il testo tragico classico (ma altrettanto potrebbe dirsi probabilmente di quasi tutti i testi antichi) è destinato ad una fruizione certo scientificamente competente, ma inesorabilmente elitaria.

Del resto, quella di Pasolini non è in sé esperienza eccezionale: più o meno nello stesso torno di tempo in cui egli ‘ri-codificava' l'Orestiade, Sartre assumeva una posizione polemica contro la guerra americana in Vietnam con una traduzione delle Troiane di Euripide6, che andrebbe diffusamente segnata a “matita rossa”: un'operazione filologicamente scorretta, ma di indiscussa efficacia in termini di restituzione al testo della propria originaria potenzialità eversiva di movimentazione e denuncia, in un contesto decisamente altro rispetto a quello originario, cui, però, viene stabilmente connesso per via analogica dalla sensibilità ri-codificatrice del traduttore7.

 

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Quello stesso approccio emotivo, analogico, istintivo con il quale Pasolini traduttore si è “gettato nel testo eschileo”, si coglie negli “appunti” metafilmici che sostanziano la sceneggiatura della mai realizzata Orestiade africana8. Si tratta di un ritorno ad Eschilo a circa un decennio di distanza dal primo approccio, come dopo una lunga gestazione, attraverso una modalità che parrebbe eccentrica solo a chi non tenga conto dell'interazione a-filologica che Pasolini stabilisce con l: qui, infatti, Pasolini torna ad Eschilo e alla sua Orestea per parlare dell'Africa post-coloniale, all'interno di un progetto cinematografico più complesso sui problemi del Terzo Mondo. Il progetto si arenò, tra l'altro per problemi di produzione: restarono circa 45 minuti di “appunti” presi da Pasolini con una cinepresa a spalla, tra il 1968 e il 1969, in Uganda, Tanzania e Tanganika.

Dunque, non si tratta di “ambientare” in Africa l'Orestiade. Si tratta piuttosto di rifarla qui ed ora. Di leggere, cioè, la storia recente dell'Africa attraverso il paradigma delle Erinni (l'Africa primordiale) trasformate in Eumenidi (l'Africa libera, moderna, democratica).

Non è evidentemente solo l'intreccio “narrativo” dell'Orestea ad attrarre Pasolini: lo seduce soprattutto la sua intrinseca natura di discorso ideologico propagandisticamente orientato in un'ottica celebrativa del sistema democratico, in un momento in cui egli stesso subisce l'insolito fascino di un'Africa “democratizzata”.

E' per questo che ci pare che l'Orestiade africana segni una sorta di frattura nel discorso pasoliniano: un'apertura fiduciosa – che pure non si nasconde le difficoltà (“Una nuova nazione è nata, i suoi problemi sono infiniti, ma i problemi non si risolvono, si vivono”9), né i rischi concreti di uno svuotamento ab interiore (4° STUDENTE: […] quando lei parla di democrazia, […] non so se la civilizzazione…europea moderna ci abbia portato proprio la democrazia come si intende di solito. PASOLINI: […] Quando io dico democrazia, non intendo la reale democrazia, dico la democrazia formale…Cioè, quando Oreste arriva ad Atene e Atena istituisce il primo tribunale umano (cioè, per la prima volta degli uomini attraverso delle elezioni vengono eletti giudici e sono loro che giudicano un altro uomo, anziché essere gli dei) si compie un enorme passo avanti nella storia umana. Però, è puramente formale. Poi questa forma va riempita con una democrazia reale”.10) – alla sperimentazione della democrazia occidentale, assunta con inusitata speranza come forma su cui scommettere.

Fa un certo effetto, perciò, sentire negli Appunti per un'Orestiade africana (e nelle pagine della relativa Appendice) il respiro fiducioso, e per lui inusuale, con il quale Pasolini accredita sostenibilità al processo di democratizzazione (concetto-valore qui utilizzato come sostanziale sinonimo di progresso, di civilizzazione, di adesione ad un modello di razionalità tutto occidentale), i cui segni si leggerebbero nell'Africa degli anni '70, dopo un travaglio durato cent'anni: “Il nuovo mondo è instaurato. Il potere di decidere, almeno formalmente, è nelle mani del popolo. Le antiche divinità primordiali coesistono con il nuovo mondo della ragione e della libertà11.

Un'Africa in accelerato divenire che, osservata attraverso l'obiettivo della macchina, da spazio geo-storico, diventa spazio di senso, metafora di una speranza nuova, forse irragionevole e contraddittoria, accesa nel cuore di Pasolini: che, cioè, l'Africa, con il suo recente tumultuoso passaggio dallo sfruttamento neo-coloniale all'indipendenza, possa rappresentare il laboratorio di sperimentazione di democrazia reale, il che è a dire di una forma di democrazia vera e diversa da quella puramente formale realizzata storicamente dall'Occidente. Una democrazia reale che avrebbe come suo tratto peculiare, come suo antidoto alla occidentalizzazione, cioè alla sua degradazione in formale, il processo di integrazione della sua più autentica e primordiale tradizione.

Questo spiega il tono commosso con cui, nell'appuntare con la macchina da presa luoghi e personaggi dell'Africa contemporanea capaci di re-inverare, pur allegoricamente e simbolicamente, il grande affresco eschileo del passaggio dal caos ancestrale della giustizia privata (orientata dalle viscerali Erinni) all'ordine, dettato da una razionalità democratica (ipostatizzata da Atena, dea della ragione), di una giustizia avocata allo stato ed amministrata da rappresentanti del popolo, Pasolini indugi commosso su situazioni, consuetudini, gesti che sono il segno della persistenza della tradizione africana e che spontaneamente si armonizzano nel nuovo ordine.

Naturalmente, non gli sfugge neppure come questa speranza, questo inatteso cedere alle lusinghe di un “progresso buono”, di una possibile democrazia reale si scontri con lo spossessamento di identità che la democrazia realizzata nella sua dimensione formale ha già prodotto nelle nuove generazioni (si vedano i riferimenti alla occidentalizzazione della formazione accademica africana impartita in università che architettonicamente ricordano quelle “anglosassoni, neocapitalistiche12; ai libri esposti negli scaffali della libreria di un College: grammatiche della lingua inglese, operette di divulgazione culturale e religiosa occidentale; all'omologazione del lavoro in fabbrica; alla folklorica insipienza con cui nelle tribù si praticano danze rituali di tradizione ormai per puro divertimento, senza alcun legame con le loro originarie significazioni religiose e cosmogoniche).

Ma, appunto, ciò che qui colpisce non è tanto l'assenza di quei contrappunti polemicamente furenti che tanto spesseggiano nella produzione di Pasolini, manifestandone la rabbiosa incapacità di rassegnarsi al genocidio etico-culturale compiuto dal ‘progresso' imposto alla società di massa; piuttosto, l'afflato fiducioso che sorregge un'inattesa utopia. Quella di un'Africa degli anni '70 in cui la democrazia si prospetti come il realizzato idillio tra un ethnos autoctono e un modello democratico qui legittimato da un'inopinata assunzione della positività del progresso (che sarebbe poi la stessa democrazia a produrre virtuosamente); in cui, per quel suo apparirgli una sorta di altrove antropologicamente remoto da un occidente già disidentificato e sradicato, si dia ancora la possibilità di un'armonica integrazione tra passato e futuro: integrazione che, però, è pur sempre l'occidente a catalizzare con l'imposizione di sue proprie forme istituzionali, in genere aspramente contestate da Pasolini, qui, invece, contraddittoriamente caldeggiate per una sorta di fideistico progressismo sui generis.

L'Orestiade africana è la forma scenica di questa utopia. E come ogni utopia resta nella forma informe di un sogno irrealizzato.

È ovvio che nell'assumere il testo eschileo in quanto celebrativo della democrazia ateniese (e dei suoi rituali: suffragio, uguaglianza, libertà) Pasolini non sospetti affatto quanto quella forma istituzionale storicamente determinata sia protervamente intrinseca a processi altrettanto oggettivamente condizionati di sfruttamento imperialistico e di sopraffazione capitalistica. Questo rende ragione dell'ingenuo fervore che mette nel vestire i panni di Eschilo: come pure del suo sincero vagheggiamento della possibilità di un'esplicazione delle forme di democrazia piena, reale, in un ambiente ancora prossimo a forme di primigenia purezza, non ancora del tutto mutilato dall'esproprio di quella aurorale sacralità che sente connaturata alle società pre-capitalisiche e che la società occidentale e capitalistica ha appunto irreversibilmente contaminato. L'Atene di Eschilo viene, perciò, da Pasolini sottratta alla storia dell'occidente e proiettata, e silentio, in una sorta di laica mitologia della forma buona di democrazia: quella democrazia buona e reale che in un'Africa degli anni '70 – sì già deturpata da processi di omologazione all'occidente, ma pure ancora impregnata dei segni della sua arcaica, selvaggia, oscura identità di Erinni faticosamente resistente alla globalizzazione occidentalizzante – egli spera di poter vedere re-inverata. Speranza velleitaria certo, ma che tale poteva apparire solo a chi si fosse sottratto alla fascinazione del testo eschileo e ne avesse colto la sostanziale funzione di mediazione-mistificazione della democrazia ateniese, imperiale e populista, nella sua più efficiente realizzazione: quella periclea.

Che Pasolini avesse colto il senso realpolitico dell'operazione drammaturgica di Eschilo e la di lui connivenza con la classe dirigente imperialistico-democratica dell'Atene del V sec. a.C. basta ad escluderlo, oltre ogni altro ragionevole dubbio, l'intenzione emulativa espressa un decennio prima nella conclusione della Lettera già citata: “Questa, non altra, è la trama dell'Orestiade. E, come si vede, la sua allusività  politica era quanto di più suggestivo si potesse dare in un testo classico, per un autore come io vorrei essere13.

Una lunga fedeltà, dunque: un altrettanto durevole inganno.

 

 


1 P. P. PASOLINI, Lettera del traduttore, in Eschilo, Orestiade, Einaudi, Torino 1960 e 1988; ora in P. P. PASOLINI, Teatro, Mondadori, Milano 2001, p. 1008-1009.
2 Cfr. J. J. BACHOFEN, Il potere femminile, a cura di E. CANTARELLA, Mondadori, Milano 1992, in particolare le pp. 51-94.
3 P. P. PASOLINI, Lettera del traduttore, cit., p. 1009.
4 Ibid, p. 1007.
5 V. WOLF, Sul fatto di non sapere il greco, in ID., Per le strade di Londra, Garzanti, Milano 1974, p. 7.
6 Cfr. EURIPIDE, Les Troyennes, adaptation de Jean-Paul SARTRE, Gallimard, Paris 1965.
7 Fini e pertinenti osservazione nel merito filologico della traduzione pasoliniana dell'Orestea di Eschilo si possono leggere in P. LAGO, Pasolini e gli antichi: una nota sulle traduzioni, in www.pasolini.net/contrib_paoloLago-traduz.htm.
8 Cfr. P. P. PASOLINI, Appunti per un'Orestiade africana, in P. P. PASOLINI, Per il cinema, Mondadori, Milano 2001, vol. 1, pp. 1175-1196.
9  Ibid.,
p. 1196
10 Ibid., pp.1182-1183.
11 Ibid., p. 1196.
12 Ibid., p. 1190.
13 P. P. PASOLINI, Lettera del traduttore, cit. p. 1009.

settembre 2006