Le regine ribelli1. Considerazioni su arte e follia
In ricordo di Franca Ongaro Basaglia
di Pierangelo Di Vittorio

Quando si parla di arte e di follia si finisce inevitabilmente per riecheggiare un vecchio discorso che confonde queste esperienze, come se fossero l'una un attributo dell'altra: nel genio artistico c'è sempre qualcosa di folle, cioè di patologico; nella follia c'è sempre qualcosa di geniale, cioè una dimensione più autentica della libertà umana. Smettere di confondere queste esperienze non significa però rinunciare del tutto alla possibilità di stabilire tra loro un rapporto. È anzi probabile che solo nella misura in cui verranno riconosciute come dimensioni distinte e indipendenti, sarà possibile considerarne i possibili punti di contatto. Che cosa accomuna queste esperienze? Essenzialmente due cose: in primo luogo sono esperienze del “limite”, cioè della radicale finitezza dell'essere umano; in secondo luogo sono esperienze “sovrane”, nel senso che non si giustificano in base a qualcos'altro (al senso comune, all'utilità, alla razionalità comunicativa o economica ecc.), ma solo in base all'esperienza che esse stesse sono. Questi due aspetti sono strettamente connessi fra loro, e infatti potremmo sinteticamente definire l'arte e la follia come esperienze sovrane del limite: esperienze nelle quali la finitezza umana, esperendosi in maniera radicale, decide sovranamente di se stessa.

Questa caratterizzazione dell'arte e della follia spiazza in qualche modo l'idea comune secondo la quale si tratterebbe di esperienze che hanno a che fare con l'infinito o con l'illimitato, “trasgressioni” nel senso banale del termine. L'arte è al contrario ciò che contesta l'idea secondo la quale la verità si manifesterebbe progressivamente nella storia, fino al completo autoriconoscimento dell'uomo. Come diceva Martin Heidegger, l'arte è uno shock a partire dal quale la storia ogni volta comincia o ricomincia. È ciò che rende possibile un'esperienza storica nei limiti di una verità che non è mai semplicemente presente, ma che si cela nel suo stesso manifestarsi e di cui l'uomo non può essere signore. Allo stesso modo, la follia contesta il sogno di rinchiudere l'esperienza umana in un'orbita totalmente razionale. In particolare, secondo Georges Bataille, la follia è l'esperienza che si apre agli estremi limiti del sapere, come una ferita che continua a svuotare e a mettere in perdita la pretesa dell'uomo di afferrarsi in una totalità compiuta, in una pienezza di senso senza resti né eccessi. Se vogliamo, arte e follia sono sì delle trasgressioni, ma tragiche: il progetto dell'uomo moderno di appropriarsi razionalmente di se stesso, del mondo e della storia, viene esposto all'inesauribile “sovrappiù” dell'esistenza, alla sua domanda senza risposta, al senza fondo abissale della libertà. Nell'esistenza umana c'è qualcosa di irriducibile e d'ingiustificabile, e l'esperienza di questo “strano supplemento” è sovrana, dal momento che non può essere recuperata in nessun modo, che non può essere ricondotta o asservita a nessun tipo di logica. La trasgressione tragica supera la totalità aggiungendo bordi che sono ferite, limiti, domande.

Ci sono molti luoghi comuni sulla “spiritualità”, siamo abituati a considerarla come un'esperienza di elevazione, un movimento dal basso verso l'alto. Mentre potrebbe essere un movimento orizzontale, in cui, per esempio, i materiali bassi della natura s'incontrano e si mescolano con i materiali bassi dell'inconscio. Estasi non significa necessariamente trascendenza, può essere anche la scoperta immanente che la natura e l'io non finiscono lì dove giunge il nostro sapere, ma che c'è un margine di deriva – in cui magari la natura e l'io si confondono – che segna il limite inoltrepassabile della nostra “volontà di sapere”. Che cosa dice in fondo questa esperienza di spiritualità? Dice che nella natura non tutto può essere utilizzato, riutilizzato, umanizzato, così come nell'uomo non tutto può essere appropriato, recuperato, capitalizzato. In entrambi i casi c'è qualcosa di “totalmente altro” che va alla deriva, si consuma, si perde. Su questo fondo sacro, irriducibile perché affatto eterogeneo, giorno dopo giorno viene edificato il mondo profano dell'appropriazione, dell'accumulazione, della crescita, tutta l'economia ristretta dell'identità, dell'utilità, dell'interesse, della produttività. Il mondo non si riduce però al “valore” nel quale lo abbiamo confinato rendendolo omogeneo. Non si riduce allo sfruttamento della natura, al conformismo delle anime e dei corpi, alla logica della prestazione e del profitto. La spiritualità è l'esperienza di un'economia più generale, in cui il dono della natura è sempre in eccesso rispetto alla possibilità d'impadronirsene, e in cui la libertà si consuma sovranamente nel momento stesso in cui si manifesta. Per questo la spiritualità –  l'esperienza bassa, radicale della finitezza – è anche una forma di resistenza: non si può riassorbire completamente la deriva sacra che sospende il mondo su una domanda che eccede ogni senso possibile.

In quanto esperienze sovrane della finitezza, l'arte e la follia possiedono dunque una certa “forza”: contestano la razionalità moderna in quanto volontà di “economizzare” l'eccesso della natura e l'abisso della libertà (si pensi, per esempio, alla pretesa di “spiegare” completamente l'esperienza della follia in termini di patologia positiva: malattia del cervello, anomalia degli istinti ecc.). Nella Storia della follia, Michel Foucault, riferendosi a Hölderlin, Nietzsche, van Gogh, Sade, Artaud, ha posto la possibilità di una “contestazione totale” della razionalità moderna sotto il segno di un incontro tra l'arte, o la filosofia, e le esperienze-limite di cui aveva parlato Bataille. Egli ha particolarmente insisto sul nesso tra la follia e la letteratura, vedendovi due forme di “linguaggio escluso”, che a un certo punto hanno cominciato a comunicare, a imparentarsi: la loro unione diventa annuncio rivoluzionario di un ” pensiero, fondato sull'esperienza tragica della finitezza. In seguito, Foucault affermerà che il suo lavoro critico è consistito nell'analizzare, dal punto di vista della storia dell'Occidente e del suo sapere, in che modo le esperienze-limite – follia, morte, crimine, erotismo – sono state trasformate in “oggetti di conoscenza”, e il prezzo che l'uomo moderno ha dovuto pagare nel momento in cui ha preteso di dire la verità su se stesso in quanto soggetto mortale, folle, criminale, sessuale.  

Nel corso degli anni sessanta, il discorso di Foucault è certo “estremistico”, proprio perché confonde un po' troppo la follia e l'arte a partire dalla promessa rivoluzionaria di cui la loro unione sarebbe portatrice. Ma l'aspetto più interessante è l'intuizione che nell'esperienza del limite c'è una forza di resistenza, una forza di contestazione. Questa intuizione sarà ripresa in termini del tutto diversi nel corso al Collège de France del 1973-74, intitolato Il potere psichiatrico. L'analisi storica di Foucault segue qui due direzioni principali: il sapere psichiatrico è nato dal manicomio e non viceversa; il manicomio non nasce come luogo di cura, ma come dispositivo “disciplinare”, un insieme di manovre e di tattiche finalizzate a soggiogare la follia, a decapitare il delirio imponendo alla follia il principio della realtà. La follia deve cessare di essere un'esperienza sovrana, deve smettere di riferirsi unicamente a se stessa e riconoscere che c'è un altro potere, la realtà amplificata dal potere medico nel manicomio, a cui bisogna per forza assoggettarsi.

Che il rapporto moderno con la follia fosse prima di tutto un rapporto di forza, un tentativo di assoggettare l'esperienza della follia – considerata come una volontà illimitata, una volontà in insurrezione (mentre rigorosamente illimitata e trasgressiva è la pretesa di risolvere razionalmente il problema della follia, prima imponendo la realtà al delirio, poi riducendo la follia a un'entità patologica) – era già chiaro ai surrealisti. La famosa Lettre aux Médecins-chefs des Asiles de Fous, pubblicata nel 1925 in La Révolution surréaliste, si concludeva con queste parole: “Poussiez-vous vous en souvenir demain matin à l'heure de la visite, quand vous tenterez sans lexique de converser avec ces hommes sur lesquels, reconnaissez-le, vous n'avez d'avantage que celui de la force”. Non è un caso che, nel 1964, Franco Basaglia abbia cominciato il suo intervento al I Convegno internazionale di psichiatria sociale a Londra, intitolato La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, citando queste parole dei surrealisti. Si potrebbe analizzare come la radicalità del suo percorso di riformatore – che lo portò a rifiutare la modernizzazione dell'ospedale psichiatrico, e a porre invece la sua abolizione come condizione di una legge di riforma – sia nata dal riconoscimento che la forza della follia, cioè la sovranità delirante in cui si esprimeva la soggettività degli internati, fosse l'unico modo per decapitare il sistema psichiatrico fondato sull'onnipotenza del medico in manicomio.

Per concludere, si potrebbe fare riferimento a quanto scrive Antonin Artaud in Van Gogh, il suicidato della società. Artaud era un artista, un poeta e un uomo di teatro che visse l'esperienza della follia, il ricovero in manicomio, la disciplina del manicomio, l'elettroshock. Quindi è inevitabile che nel suo interesse per van Gogh vi fosse anche un tentativo di riflettere sulla propria esperienza e di denunciare gli eccessi del potere psichiatrico. L'elemento che si potrebbe riprendere da questo scritto di Artaud, non è tanto il “rovesciamento” antipsichiatrico che avrà un'innegabile fortuna negli anni sessanta e settanta (Artaud afferma per esempio che “è turpemente impossibile essere psichiatra senza recare nello stesso tempo il marchio della più indiscutibile pazzia: quella di non poter lottare contro il vecchio riflesso atavico della turba e che fa, di ogni scienziato legato alla turba, una specie di nemico nato e innato del genio”). Si potrebbe invece sottolineare un altro aspetto, e cioè che l'artista non è un uomo che viene  messo in manicomio in quanto artista, ma è un uomo che, una volta messo in manicomio, viene assoggettato due volte, essendo portatore di una duplice esperienza sovrana, quella della follia e quella dell'arte. Queste esperienze non s'identificano per principio, ma possono tragicamente coincidere nella singolarità di una traiettoria esistenziale.

Tutte le persone che fanno l'esperienza del manicomio sono prese in un reticolo di manovre e di tattiche finalizzate a imporre il potere della realtà sul delirio. Guarire in manicomio significa imparare la realtà: in primo luogo imparare che non si è onnipotenti perché realmente onnipotente è solo il medico; in secondo luogo imparare qual è il reale valore del lavoro e dei soldi, entrare nella logica dello scambio; poi imparare a usare correttamente il linguaggio, perché la “guarigione” passa soprattutto attraverso l'uso corretto dei nomi, bisogna dare al medico e all'infermiere i nomi giusti, altrimenti non si capisce che i loro ordini corrispondono alla realtà della gerarchia istituzionale, e che quindi non si può fare altro che obbedire, se non si vuole essere puniti con il digiuno, le docce fredde ecc.; guarire in manicomio significa infine imparare che non si è ciò che si crede di essere, ma unicamente l'identità biografica che è stata costruita attraverso la realtà della propria malattia, attraverso i ricoveri, le schedature della polizia, i dossier della pubblica amministrazione.

Questo è ciò che succede a tutti gli internati, ma all'artista che finisce in manicomio “in più” che cosa succede? Scrive Artaud, dopo aver detto che il suo medico, il Dr. Ferdière, rispondeva sistematicamente al suo delirio con l'elettroshock: “Una volta che accennavo al Dr. Ferdière delle pagine del mio Viaggio al paese dei Tarahumara, dedicate all'ascensione della montagna che feci a cavallo, e nelle quali dicevo di essere stato stregato, costui si alzò dalla sedia, come se si trovasse davanti a un autentico pazzo [cioè a uno due volte pazzo, pazzo non solo come un qualsiasi pazzo, ma pazzo anche in quanto poeta, ndr.] e mi disse: “Per credere di essere stato stregato a quell'epoca lei era certamente in pieno delirio, e se ci fossi stato io, lei questo libro non l'avrebbe scritto, perché non sono forse qui per raddrizzare la sua poesia?”. Il Dr. Gaschet – prosegue Artaud – non ha certamente raddrizzato la pittura di van Gogh, ma tanti documenti danno motivo di credere che gli abbia impedito di spingersi in una certa via che sarebbe stata per lui sommamente liberatrice, incitandolo costantemente a dipingere dal vero, nient'altro che il vero, come vero, secondo il vero, seguendo il vero, senza mai oltrepassare il vero, senza mai andare più lontano del vero, a non delirare sull'orlo del pennello o dell'albero, del covone, del campo seminato ecc. ecc.”.

Artaud addita il “grottesco” del potere psichiatrico: un potere che non si limita a raddrizzare l'uomo Artaud o l'uomo van Gogh, ma che vuole raddrizzare persino la loro poesia, la loro arte. Dinanzi al grottesco del potere, si può certo ridere, ma è anche lecito ribellarsi. Gli artisti che fanno l'esperienza della follia, o i folli che fanno l'esperienza dell'arte, sono persone che fanno due volte l'esperienza sovrana del limite, e che contestano dunque due volte la volontà di potenza della razionalità moderna. Essi possono perciò subire quella che Artaud chiama la “presa di possesso” da parte dei dispositivi di potere in modo esponenziale. È forse per questo che alcuni di loro hanno o avrebbero sognato, se ne avessero avuto il tempo e la possibilità, di essere trattati non come dei genî, ma come degli uomini qualunque.


Riferimenti Bibliografici

Martin Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984.

Georges Bataille, L'esperienza interiore, a cura di C. Morena, Dedalo, Bari 1994.

Michel Foucault, Storia della follia nell'età classica, trad. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1976.

Michel Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-74), edizione stabilita da J. Lagrange, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003.

Franco Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1981-82.

Franco Basaglia, L'utopia della realtà, a cura di Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 2005.

Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, Milano 2001.

Pierangelo Di Vittorio, “Lapsus della democrazia”, in M. TARÌ (a cura di), Guerra e democrazia, manifestolibri/Uninomade, Roma 2005.

Antonin Artaud, Van Gogh, il suicidato della società, a cura di P. Thévenin, trad. it. di J.-P. Manganaro, con la collaborazione di C. Dumoulié e E. Marchi, Adelphi, Milano 1988.  


1 “Le regine ribelli” è il titolo di un percorso di ricerca sul tema della trasgressione, organizzato dall'Aleph - Centro studi e ricerche in psicologia e psicoterapia ad orientamento analitico transazionale e psicodinamico (www.centroaleph.it) con sede a Putignano (Bari), che si svolgerà tra il mese di novembre 2005 e il mese di giugno 2006. Il programma, che coinvolge gli studenti e gli insegnanti delle scuole superiori di Putignano, prevede un cineforum e un convegno di studi conclusivo.

gennaio 2006