La Corte costituzionale nega agli amministratori degli enti locali il diritto al rimborso delle spese legali

RIMBORSO SPESE LEGALI AGLI AMMINISTRATORI: UNA PRASSI DA RIVEDERE

di Paolo Licata

Con la sentenza dei 8/16 giugno 2000 n.197 (in http://www.giurcost.org) , che brevemente qui si commenta, la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 39 della legge regionale siciliana 29 dicembre 1980, n. 145, sollevata dal Pretore di Ragusa, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il diritto all’assistenza legale, riconosciuto ai dipendenti che siano soggetti a procedimenti di responsabilità civile, amministrativa o penale in conseguenza di fatti ed atti connessi all’espletamento del servizio e dei compiti d’ufficio, nel caso di esito a loro favorevole, sia esteso ai "funzionari o amministratori" per fatti e atti connessi all’esercizio delle loro funzioni pur in assenza di un rapporto di dipendenza.

In via preliminare, la Consulta si preoccupa di sgombrare il campo dall’equivoco ingenerato dal giudice a quo circa l’impedimento di equiparare i "funzionari" ai dipendenti, sostenendo che i primi ricadono pacificamente nella categoria dei "dipendenti" in senso lato e immediatamente dopo entra nel vivo della questione sollevata, affermando una massima destinata a incidere in maniera molto forte sui futuri comportamenti delle amministrazioni locali.

In passato, la giurisprudenza, anche quella contabile, si era consolidata sul principio della applicabilità delle norme che regolano l’assunzione, a carico del bilancio dell’ente locale, delle spese legali relative a procedimenti a carico di dipendenti degli enti locali medesimi per fatti e atti connessi all’espletamento di servizi e all’adempimento di compiti di ufficio anche agli amministratori, in considerazione della loro natura di pubblici funzionari (cfr, per tutte, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, sentenza del 29 novembre 1999, n. 1122/99/EL, in http://www.diritto.it/sentenze/corteconti/1122_99.htm ), a condizione, però, che sia riconosciuta l’assenza del conflitto di interesse, del dolo o della colpa grave e che il procedimento giudiziario si sia concluso con una sentenza di assoluzione con formula piena per il soggetto ammesso al beneficio, sia esso pubblico dipendente o amministratore.

Per diverso tempo, siffatto principio, consolidatosi anche nella prassi amministrativa, ha rappresentato un efficace strumento al quale anche gli amministratori potevano fare ricorso per reggere il grave peso, anche di natura economica, dei giudizi, penali e contabili, cui risultavano sottoposti.

Adesso, la sentenza che si annota ha rimesso tutto in discussione, privando, di fatto, gli amministratori del diritto di ottenere dai propri enti il rimborso delle spese legali sostenute in ragione del fatto di essere stati sottoposti a procedimenti, conclusisi con forma pienamente assolutoria, per fatti e atti connessi all’espletamento di servizi e all’adempimento di compiti di ufficio.

Il Pretore di Ragusa, nel procedimento civile tra alcuni ex componenti del Comitato direttivo del Consorzio per l’area di sviluppo industriale della Provincia di Ragusa e il Consorzio stesso, ha ritenuto che l’articolo 39 della legge della Regione Siciliana 29 dicembre 1980, n. 145 (Norme sull’organizzazione amministrativa e sul riassetto dello stato giuridico ed economico del personale dell’Amministrazione regionale), violasse l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non consente agli amministratori di godere del beneficio riconosciuto ai dipendenti di ottenere il rimborso delle spese sostenute nei procedimenti in cui risultavano coinvolti per fatti commessi nell’esercizio di funzioni inerenti alla loro qualità di amministratori e che si era concluso con la loro piena assoluzione.

Manifesta il giudice remittente di condividere la tesi secondo la quale non vi sarebbe spazio per una estensione analogica della disciplina, in quanto l’omessa previsione normativa non corrisponderebbe ad un vuoto legislativo, bensì alla insussistenza di un diritto degli amministratori regionali.

Sicché, sarebbe evidente la irragionevole disparità di trattamento tra le due categorie di soggetti considerate, una volta rinvenuta la ratio della norma non tanto nel vincolo di subordinazione, quanto nell’imputabilità dell’operato del soggetto all’ente per il quale ha agito.

Secondo la Consulta, la costruzione dogmatica del giudice di merito minimizza la questione riducendola soltanto a una sorta di selezione di un profilo di presunta assimilabilità delle due figure e lo pone come esclusivo ai fini dell’apprezzamento della portata prescrittiva della ratio, svilendo quindi ogni altro elemento al quale il legislatore possa aver attribuito rilievo nello stabilire per i dipendenti un trattamento diverso e più favorevole rispetto agli amministratori.

La corretta impostazione del giudizio costituzionale di eguaglianza, impone invece di tenere presenti tutti gli elementi giuridicamente rilevanti delle fattispecie poste a raffronto e di verificare se essi siano riconducibili ad una ratio unitaria. Solo nel caso in cui una siffatta verifica dia esito positivo sarebbe infatti possibile censurare come discriminatoria la scelta diversificatrice del legislatore. Nel caso di specie - sostiene il Giudice delle leggi - "vi è sicuramente un profilo rilevante che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ente di appartenenza, investe la posizione del dipendente e non anche quella dell’amministratore: il rapporto di subordinazione. Mettere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro, assumere quest’ultimo, oltre all’obbligo della retribuzione, i rischi e i corrispondenti oneri di protezione per tutto ciò che viene fatto dal lavoratore nello svolgimento della prestazione oggetto del rapporto, sono i tratti che caratterizzano il lavoro dipendente; tratti immediatamente percepibili allorché ci si riferisca alle qualifiche funzionali meno elevate, ma che non vengono meno quando, come nel caso degli alti funzionari o dei dirigenti, il lavoro richieda prestazioni professionali che, per qualità, comportino livelli di autonomia decisionale e poteri di gestione anche prossimi a quelli dell’amministratore. Si tratta sempre di conferire all’ente di appartenenza le proprie energie lavorative, ciò che non avviene per gli amministratori, la cui immedesimazione organica con l’ente si basa su un rapporto, variamente configurato in dottrina, ma che comunque non è di lavoro subordinato".

Se anche si riuscisse, esaminando isolatamente il contenuto delle attività alle quali sono chiamati dipendenti e amministratori, a dimostrare che le due figure sono vicine, rimane sempre da osservare che il legislatore, avvalendosi della potestà discrezionale, abbia voluto, in effetti, limitare il beneficio in argomento ai soli dipendenti, evitando di estenderlo anche agli amministratori, costruendo, così, una disciplinata diversificata che trova idonea collocazione nel noto latinetto "ubi lex voluit dixit, ubi lex noluit tacuit.".

Paolo Licata