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“Il Quotidiano della Calabria” – Venerdì 3 giugno 2005 - pag. 12

 

Le rivelazioni di un collaboratore di giustizia pubblicate dal settimanale l’Espresso

«Rifiuti tossici in Calabria e Basilicata»

Legambiente propone la costituzione di una unità di crisi


PARLA di rifiuti tossici contenenti sostanze radioattive trasportate da navi fatte affondare in acque internazionali al largo di Cetraro e Maratea. Di seicento bidoni carichi di sostanze tossiche di cui cento sarebbero stati seppelliti in Basilicata mentre il resto sarebbe giunto in Somalia a bordo di una nave chiamata “Lynx”, partita da Livorno. Di questo, di connivenze con esponenti politici di primo piano, addirittura di ministri, di boss e di personaggi dei servizi segreti, riferisce un boss, ora collaboratore di giustizia, in un memoriale pubblicato in questi giorni dal settimanale l’Espresso.
Il pentito, affiliato un tempo a una famiglia di San Luca, ha consegnato un lungo e dettagliato memoriale alla Direzione nazionale antimafia in cui spiega come la criminalità organizzata ha gestito, e chissà se continua a farlo ancora, lo smaltimento dei rifiuti tossici. Gli investigatori hanno aperto diverse indagini per appurare se le parole della gola profonda corrispondano a verità.
CAPITOLO BASILICATA.
Il collaboratore di giustizia spiega nel suo racconto che la querelle dei rifiuti tossici ha avuto inizio nel 1982, quando Nirta lo avrebbe avvisato che «l’ex ministro della Difesa Lelio Lagorio propose di stoccare bidoni tossici in Calabria e in Basilicata. Ci furono una serie di riunioni, alcune delle quali al Santuario di Polsi».
Prosegue il collaboratore di giustizia: «Inizialmente si parlò di sotterrare i rifiuti sull’Aspromonte, ma i capifamiglia respinsero questa ipotesi in quanto si trattava di territorio amato dalla ‘ndrangheta. Poi si decise che ogni famiglia avrebbe curato l’attività per conto proprio. Abbandonata la Calabria, la scelta di smistare i rifiuti finì sulla Basilicata», perché, chiarisce il pentito, «era terra di nessuno, dal punto di vista della malavita. Sul fronte estero si fece riferimento alla Somalia. Nel 1986, nel corso di un incontro, mi riferirono affiliati alla famiglia Musitano di Platì che c’erano da fare sparire 600 bidoni contenenti rifiuti tossici e radioattivi: appresi che avrei intascato 600 milioni. L’operazione cominciò, con la complicità di alcuni mafiosi che trovarono i camion per trasportare i 600 fusti. In un primo momento ci furono dei problemi in seguito all’assassinio di Musitano. Poi il lavoro riprese l’anno successivo».
Il collaboratore di giustizia ha affermato di avere partecipato direttamente all’operazione che si svolse tra il 10 e l’11 gennaio 1987. «Partimmo con 40 camion da Rotondella con i bidoni radioattivi. Arrivammo con i cento bidoni presso il fiume Vella dove era stata predisposta una buca e qui furono seppelliti i bidoni. La fossa fu ricoperta. Per scavarla furono utilizzati i mezzi messi a disposizione da Agostino Ferrara – prosegue il collaboratore di giustizia – uomo vicino che abitava a Nova Siri e vicino a Musitano». Le altre sostanze tossiche, aggiunge l’ex boss, vennero poi spedite e occultate in Somalia.
I RIFIUTI IN CALABRIA.
Qui la gola profonda è ancora più precisa: «Io stesso mi sono occupato di affondare navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi. Negli anni Ottanta presi contatti con la società di navigazione privata appartenente a Ignazio Messina di cui avevo incontrato un emissario con il boss Paolo Romeo. Ci recammo in un locale pubblico dove abbiamo parlato di fornire alla famiglia di San Luca navi per eventuali traffici illeciti. E così avvenne». Il pentito va avanti nel suo memoriale con coinvolgimenti sempre più interessanti. «Ignazio Messina nel 1992 si mise d’accordo con Giuseppe Giorgi. Quest’ultimo successivamente venne a Milano per organizzare le navi. La Yvonne A. trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 e la Vorais Sporadais 75 bidoni di diverse sostanze nocive. Ci confermarono che le imbarcazioni erano al largo della costa della provincia di Cosenza. Io e Giorgi andammo a Cetraro e prendemmo accordi con un esponente della famiglia Muto. Poi contattammo i capitani delle navi. La Yvonne A. raggiunse il largo di Maratea, la Cunski andò nelle acque internazionali di Cetraro e la terza la inviammo al largo di Gencano».
Il collaboratore di giustizia afferma che poi «facemmo partire tre pescherecci forniti dalla famiglia Muto e ognuno di questi raggiunse le tre navi per farle esplodere con dei candelotti di dinamite e farle affondare. Gli equipaggi furono caricati a bordo e portati a riva. Poi furono messi su un treno con destinazione Nord Italia».
Il pentito nel suo lungo racconto riferisce che la famiglia di San Luca aveva acquistato tre navi. «Gli acquirenti erano vicini alla massoneria. Inoltre, io con alcuni esponenti della famiglia di San Luca avevamo rapporti con agenti dei servizi segreti».
«Non mi ha stupito – aggiunge il pentito – sapere che tali traffici avvenissero con simili frequenze perché le necessarie coperture erano in atto da tempo».
Sulla confessione del pentito è intervenuta Legambiente. «Il memoriale che un ex boss della ‘ndrangheta ha consegnato alla Dna, pubblicato dall’Espresso, è davvero sconvolgente». Lo affermano Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente e Nuccio Barillà del direttivo nazionale e di Legambiente Calabria.
Secondo Legambiente «le indicazioni puntuali circa i presunti luoghi di smaltimento illecito a terra (in particolare il Comune di Pisticci, lungo il torrente Vella, dove sarebbero stati sepolti 100 bidoni contenenti rifiuti tossici e radioattivi), i siti di affondamento indicati per almeno tre navi, anche queste, secondo il memoriale dell’ex boss della ‘ndrangheta, cariche di rifiuti tossici e radioattivi, lungo le coste calabresi e lucane (in particolare al largo di Maratea, in acque internazionali al largo di Cetraro e di Gencano), impongono pertanto l’immediata attivazione di mezzi e strutture tecniche in grado di accertare la veridicità delle gravi affermazioni dell’ex boss. Legambiente propone la costituzione di una vera e propria unità di crisi interministeriale, coordinata dal dipartimento della Protezione civile e che coinvolga i ministeri dell’Interno, degli esteri, della Giustizia, dell’Ambiente che, di comune accordo con la Direzione nazionale antimafia, accompagni con mezzi, risorse e personale specializzato le delicate e fondamentali verifiche di quanto viene dichiarato dall’ex boss della ‘ndrangheta».

Astolfo Perrongelli

 

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