Home Page     Il processo ai presunti infoibatori.

 

- Questa pagina contiene documentazione relativa al

1) processo a carico di Piskulic Oscar;

2) processo a carico di Pregelj Franc;

3) altro materiale utile;

4) un approfondimento sul PM Pititto.

 

 

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  Il processo a Piskulic in nove punti.

Svolgimento del processo.

Aggiornamento del 22 ottobre 2002: chiesto l'ergastolo per Piskulic Oskar in appello.

Aggiornamento del 6 novembre 2002: la difesa di Piskulic ricusa la corte.

Aggiornamento del 28 marzo 2003: la Cassazione respinge l'istanza di ricusazione.

Aggiornamento del 16 aprile 2003: la Corte d'assise d'appello impedisce di processare Piskulic.

Articolo riassuntivo dell'intera vicenda (tratto da "Libero" del 12 febbraio 2004).

Indiscrezioni raccolte dai giornalisti di "Libero": la Cassazione riaprirà il processo sulle foibe (tratto da "Libero" del 5 marzo 2004).

Aggiornamento del 18 aprile 2004: per la Cassazione: "L' Italia non può giudicare Piskulic".

Notizia del 29 marzo 2006: Arrigo Petacco non ha ingiuriato l'avvocato di Piskulic. Non dovuto alcun risarcimento.

 

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  Il processo a Pregelj.

Archiviata l'inchiesta su 837 morti nelle foibe (notizia del luglio '05)

 

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  Altro materiale utile.    

IN EVIDENZA: "La magistratura croata indaga sulle foibe" (articolo tratto da "Il Piccolo" del 20/03/'04).

Articolo tratto dal "Gazzettino di Padova" del 26/02/'02 dal titolo "Stragi dei titini, trovate nuove fossi comuni" nel quale si riassume l'inchiesta avviata dalla procura militare (l'articolo è in formato jpg cioè immagine).

L'avvocato Randazzo, penalista, racconta dei tanti privilegi di cui godono gli assassini comunisti di Tito.

 

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Il processo a Piskulic in otto punti.

 

  Svolgimento del processo.

In data 8.5.96 il P.M. Pititto presso il Tribunale di Roma chiedeva nei confronti dei cittadini croati Piskulic Oskar e Motika Ivan, indagati per l'uccisione di migliaia di cittadini italiani in Istria e Dalmazia, tra il 1943 ed il 1947, la misura cautelare della custodia in carcere. Evidenziava il P.M. che le risultanze acquisite, pur valutate all'ombra del lunghissimo tempo intercorso, chiaramente indicavano come migliaia di persone fossero state uccise non in nome di un ideale o per ragioni di guerra contro il nemico, ma solo perché erano cittadini italiani. Queste risultanze, proseguiva il P.M., portavano alla configurazione del delitto di genocidio, per la cui repressione era stata emanata dal legislatore italiano la legge 9 ottobre 1967, n.962, che, se pur successiva ai fatti in esame, non soffriva del principio della irretroattività della sua applicazione - problema che si proponeva per Motika Ivan - in quanto l'irretroattività trova la sua ratio nell'esigenza di consentire la punibilità di comportamenti che solo da quel momento vengono avvertiti come antigiuridici, ma non allorché si tratti di fatti che scardinano quei principi fondamentali, pregiuridici, che vengono considerati dalla coscienza umana come essenziali al vivere civile e che si risolvono nella tutela e nel rispetto della vita dell'uomo in quanto parte di un gruppo, nazionale, etnico, razziale o religioso che sia.
Quando un intero gruppo di persone viene distrutto solo per l'appartenenza ad una certa nazione, si è in presenza di un delitto contro l'umanità ed allora in questo caso la legge dell'uomo registra, non crea il delitto, ogni diversa conclusione essendo fondata solo su una concezione meramente formale del fatto-reato.
Del resto - osserva al riguardo il P.M. - l'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge del 4 agosto 1955, n.848, mitiga la portata dell'affermato principio, al comma 1, della irretroattività della norma incriminatrice, nazionale o internazionale che sia, prevedendo espressamente al comma 2 che ciò non potrà valere allorché si sia in presenza di una persona colpevole di un'azione o di una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, era criminale secondo i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
Dunque, Motika Ivan è chiamato a rispondere del delitto di genocidio o, comunque, di fatti qualificabili come omicidio pluirimo pluriaggravato, avvenuti in Gimino e Pisino dopo l' 8 settembre 1943.
Con ordinanza 14.5.96 il G.I.P. respingeva la richiesta rilevando, in primis, la carenza di giurisdizione del giudice italiano, non rientrando i reati contestati nell'ambito di operatività dell'art. 6 c.p. ( n.d.r. : reati commessi su territorio nazionale ). Al riguardo, infatti, le sezioni unite della Cassazione, con sentenza 2 luglio 1949, Schwend, avevano statuito che i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduta al altro stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero, e ciò in forza del principio di diritto internazionale secondo cui la cessione del territorio opera un immediato trasferimento di sovranità, cui accede la giurisdizione. Né poteva essere condivisa la successiva e contraria pronuncia delle stesse sezioni unite, 24 novembre 1956, Salomone, sia per la particolarità del caso trattato - ipotesi di bigamia scaturita da un matrimonio celebrato in Pinzano d'Istria il 20 giugno 1950 - e per lo sviluppo dell'iter argomentativo, da cui risultava una portata contingente della massima e tale da non consentire l'automatica trasposizione ai fatti in questione.
Nel merito - proseguiva il G.I.P. - non poteva essere oggetto di contestazione il delitto di genocidio, in quanto introdotto nell'ordinamento italiano in epoca successiva a quella in cui i fatti risultavano, per l'accusa, essere stati commessi. Né poteva il principio dell'irretroattività della legge penale, sancito dal comma 2 dell'art. 25 della Costituzione, essere derogato dall'art. 7 comma 2 della Convenzione per la salvaguardi dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto tale norma mira a stabilire l'irrilevanza di ogni scriminante riconducibile alla pura “ragion di Stato” e quindi a consentire il perseguimento di crimini contro l'umanità che altrimenti resterebbero privi di sanzione anche dopo la scomparsa dei regimi che quei delitti hanno normativamente giustificato, in una prospettiva quindi del tutto diversa da quella delineata dal P.M. e consentendo detta norma agli Stati aderenti di individuare l' an e il quomodo dell'esercizio del potere punitivo anche in deroga al principio della irretroattività, l'unico precettivo. 
In ogni caso - concludeva il G.I.P. - risalendo i fatti ad oltre 50 anni prima ed avendo gli indagati superato il 70° anno di età, la richiesta di applicazione della misura custodiale intramuraria andava respinta non sussistendo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, tale non potendo considerarsi - come invece sostenuto dal P.M. - né la gravità del reato, elemento amorfo agli effetti cautelari, né la necessità di assicurare la disponibilità degli indagati allo Stato, non essendo questa esigenza di carattere processuale, ma un'impropria anticipazione della sentenza di condanna definitiva. Avverso tale ordinanza ha proposto appello il P.M. censurando in primis, il ritenuto difetto di giurisdizione. 

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Aggiornamento del 22 ottobre 2002: chiesto l'ergastolo per  Piskulic Oskar in appello. 


ROMA - Un omicidio scaturito da sentimenti di vendetta e di rappresaglia sullo sfondo di un odio etnico e di un'avversità nei confronti degli italiani. È su questi presupposti che la procura generale di Roma ha chiesto ieri (21 ottobre 2002 n.d.r.) la condanna all' ergastolo dell' ex capo della polizia politica jugoslava Piskulic Oskar, accusato di aver ucciso a Fiume, nel 1944, un autonomista italiano, Sergio Sincich. La pena è stata sollecitata in corte di assise di appello dal pg Giovanni Malerba nell'ambito del procedimento che ha preso spunto dall'inchiesta sulle Foibe, le cavità carsiche in cui le bande di Tito, tra il 1943 e il '47 massacrarono migliaia di italiani. Per l'omicidio Sincich, Piskulic, 80 anni, era stato amnistiato in primo grado in virtù di una norma del 1959 sui reati politici. Ma per il pg Malerba, quello di Sincich non può essere considerato un omicidio di natura politica, ma dettato da sentimenti antitaliani. Rancori, per il rappresentante dell'accusa, tuttora presenti nell'imputato la cui personalità non è neanche «meritevole del riconoscimento delle attenuanti generiche».
In primo grado Piskulic, che ha sempre negato gli addebiti e, in particolare, di essere stato il capo dell' allora polizia politica jugoslava (Ozna), era stato giudicato, e assolto, per gli omicidi di altri due autonomisti avvenuti sempre a Fiume: Nevio Skull e Mario Blasich. A ricorrere contro la sentenza di primo grado erano stati la procura generale e lo stesso difensore dell' imputato. Quest'ultimo punta ad una assoluzione anche per l'uccisione di Sincich. Ultimo di tre imputati ad essere rimasto in vita per alcuni delitti avvenuti negli anni Quaranta in concomitanza con le stragi di autonomisti italiani in Dalmazia e Croazia da parte delle bande di Tito, Piskulic, croato, è da tempo al centro di pronunce, pareri  e sentenze da parte dell'autorità giudiziaria italiana. Il rinvio a giudizio fu disposto nel 1998 dopo che la Cassazione aveva annullato una precedente sentenza di non luogo a procedere basata sul presupposto che gli omicidi contestati agli imputati (oltre a Piskulic, Ivan Motika e Avijanka Margitic) fossero avvenuti in territori già passati alla Jugoslavia e, quindi, al di fuori della competenza della giustizia italiana.

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Aggiornamento del 6 novembre 2002: la difesa di Piskulic ricusa la corte.

(ANSA) - TRIESTE, 6 NOV - L' avvocato Livio Bernot, difensore di Oskar Piskulic, imputato davanti alla Corte d' Assise di Appello di Roma nel cosiddetto processo delle foibe, cavita' carsiche nelle quali morirono, alla fine della seconda guerra mondiale, migliaia di persone, ha reso noto di avere presentato istanza di ricusazione nei confronti della Corte.

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Aggiornamento del 28 marzo 2003: La Cassazione respinge l'istanza di ricusazione.

ROMA - Resta affidato ai giudici della Corte di Assise di Roma il processo a Piskulic Oscar, il croato accusato di omicidio nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe. Lo ha deciso la Cassazione che ha respinto l'istanza con la quale il difensore dell'imputato, sulla base della legge Cirami, aveva ricusato i giudici, ritenendo che "abbiano manifestato indebitamente il convincimento sui fatti in oggetto". Piskulic Oscar deve rispondere in appello della morte di un autonomista italiano, Sergio Sinich, avvenuta a Fiume nel 1944. In primo grado Piskulic era stato assolto dall'accusa di aver ucciso altri due italiani.

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Aggiornamento del 16 aprile 2003: la Corte d'assise d'appello impedisce di processare Piskulic.

Una beffa per quei 10mila italiani fatti uccidere da Tito. Perché un difetto di giurisdizione ha cancellato di colpo quasi 60 anni di denunce, ricerche e testimonianze. La corte d'assise d'appello di Roma ha negato all'Italia la possibilità di processare Oskar Piskulic, il cittadino croato di 80 anni accusato di aver ucciso a Fiume, nel 1944,l'autonomista italiano Sergio Sincich. Per i giudici romani, titolari dell'inchiesta sulle foibe, la competenza italiana è decaduta in quanto l'omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo. Le motivazioni della sentenza saranno pubblicate tra 30 giorni, ma la decisione della Corte si rifà al precedente giudizio del 13 novembre '97 che aveva dichiarato l'incompetenza italiana a giudicare sui fatti. Piskulic, ritenuto dall'accusa il capo dell'Ozna, la polizia politica jugoslava, era stato rinviato a giudizio nel '98 sulla base delle denunce dei familiari delle vittime. Quell'anno, infatti, la Cassazione, annullando una precedente sentenza di non luogo a procedere, aveva affidato ai tribunali italiani la titolarità a giudicare sui fatti. Gli accertamenti riguardarono gli omicidi di Nevio Skull, Mario Blasich e Sergio Sincich, autonomisti italiani che operavano in Dalmazia e Croazia negli anni '40. L' 11 ottobre 2001 la sentenza di primo grado concesse l'amnistia a Piskulic (reato politico) per l'omicidio Sincich, assolvendolo per gli altri due delitti.
Una decisione contestata dal pm dell'epoca che aveva chiesto per il presunto capo dell'Ozna la condanna per concorso in omicidio plurimo continuato e aggravato. Per l'accusa, infatti, i delitti erano animati da sentimenti di vendetta e di rappresaglia figli dell'odio etnico contro gli italiani. Da qui l'impugnazione della sentenza e il ricorso in appello dove il sostituto procuratore generale, Giovanni Malerba, aveva chiesto l'ergastolo per Piskulic.
Contro la pronuncia della Corte si è espresso il deputato di An Roberto Menia: "Il difetto di giurisdizione grida vendetta. Appare sconcertante affermare che i fatti non sarebbero avvenuti in territorio italiano, posto che Fiume continuò a far parte dell'Italia fino al Trattato di pace del 10 febbraio '47 e che gli omicidi furono commessi a danno di italiani". Soddisfatta la difesa: "La pronuncia del difetto di giurisdizione annulla ogni possibilità di addebitare qualsiasi tipo di responsabilità penale a Piskulic". Ma la vicenda non è chiusa. L'avvocato Sinagra, legale di parte civile, ricorrerà in Cassazione.

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Articolo riassuntivo dell'intera vicenda (tratto da "Libero" del 12 febbraio 2004).

ROMA - Si fa presto a definirla una storia infinita. Gli esuli istriani la ritengono la vergogna nella vergogna. E quella del mancato processo ai responsabili delle foibe, un processo che non si è fatto. Sul piano delle condanne penali non avrebbe prodotto tanti risultati, ma avrebbe dato una verità giuridica al genocidio contro oltre quindicimila italiani.
Il 16 aprile del 2003, meno di un anno fa, la Corte d' Assise d' Appello di Roma ha messo la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria che riguardava l'ultimo presunto responsabile ancora vivente. Per i giudici romani la competenza italiana è decaduta in quanto l'omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo. Una decisione che ha ricalcato un'altra del 1997. Ora tutto è aggrappato all'esile filo del ricorso in Cassazione, la cui decisione verrà resa nota il 20 marzo.
La complessa vicenda giudiziaria era entrata nel vivo nel maggio del 1996 quando il p.m. presso il Tribunale di Roma, Giuseppe Pititto, chiese nei confronti dei cittadini croati Oskar Piskulic e Ivan Motika, indagati per l'uccisione di migliaia di cittadini italiani in Istria e Dalmazia, tra il 1943 ed il 1947, la misura cautelare della custodia in carcere. L' inchiesta di Pititto, magistrato coraggioso che aveva sfidato un santuario inviolabile, era partita nel 1994, a seguito di una circostanziata denuncia dell'avvocato Augusto Sinagra, che aveva raccolto testimonianze dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti.
Il magistrato motivava una richiesta così severa, nonostante fosse trascorso tanto tempo, col fatto che migliaia di persone fossero state uccise non in nome di un ideale o per ragioni di guerra contro il nemico, ma solo perché erano cittadini italiani. E questo faceva configurare il reato di genocidio, perseguito dalla legge italiana.
Oskar Piskulic, soprannominato "Zuti" (il giallo), fu dal 1943 a11947 il capo della temuta Ozna, la polizia segreta jugoslava a Fiume. L' avvocato Augusto Sinagra accusava proprio Piskulic e altri funzionari dell'Ozna. Alla Procura di Roma furono consegnati 553 nomi di connazionali uccisi o scomparsi nel capoluogo quarnerino e dintorni, dal 3 maggio alla fine del1945.
Ivan Motika fu il presidente, invece, del "Tribunale del popolo" che decideva il destino degli italiani. Per comprendere il suo ruolo vale la pena leggere alcuni stralci della deposizione di Leo Marzini alla Procura di Trieste. "Il castello di Pisino era diventato in quei giorni prigione e quartier generale dei partigiani di Tito, il cui luogotenente (...) era tale Ivan Motika; nel castello si svolgevano i cosiddetti "processi", presieduti dallo stesso Motika, che sentenziava a decine o centinaia le condanne a morte degli italiani".Il 30 ottobre i resti dei due congiunti (padre e zio dell'estensore di questa testimonianza) furono riportati alla luce da una cava di bauxite a Villa Bassotti. Erano nudi, le mani legate con il filo spinato. Ai loro corpi erano stati tagliati i genitali e cavati gli occhi. In quel luogo si ricuperarono altre 23 salme". Oltre ai due c'era una terza persona inquisita, una donna, Avijanka Margitic.
Il g.i.p. non concesse l'arresto, in considerazione dell'età degli inquisiti (Motika morirà poco dopo). E sulle prime si ritenne che non fosse possibile celebrare questo stesso processo perché i luoghi dove erano avvenuti i fatti, ora, erano in territorio straniero. Ma Pititto non volle demordere, ricorse in Cassazione, ottenendo il riconoscimento delle sue tesi e il 5 maggio del 2000 cominciò il dibattimento, non per genocidio (questo tipo di reato non venne ritenuto sussistente), ma per omicidio plurimo dei leader autonomisti fiumani Nevio Skull, Mario Blasich e Giovanni Sincich.
In primo grado si concluse con l'assoluzione di Piskulic per l'omicidio di Skull e Blasich, mentre per l'assassinio di Giovanni Sincich venne riconosciuta l'amnistia. In appello, invece, tra rinvii di udienze e le solite difficoltà burocratiche della giustizia italiana, si era giunti, nell' ottobre del 2002, alla richiesta di ergastolo per Piskulic formulata dal procuratore generate Giovanni Malerba. I difensori del croato erano anche ricorsi alla famosa legge Cirami, quella sul legittimo sospetto, ricusando la Corte, istanza non accolta dalla Cassazione. Quindi, nell'aprile dello scorso anno, l'ultima decisione, che, sentenziando quello che in gergo tecnico si chiama "difetto di giurisdizione", chiuse il processo. Le motivazioni furono rese note a maggio e riguardavano la cessata giurisdizione italiana sui luoghi interessati. Una scelta, forse, tecnicamente fondata.
Questa è la cronistoria giuridica. Tuttavia, appare evidente che questo processo era un processo scomodo, al quale sono stati frapposti mille ostacoli. E soprattutto un processo sul quale i media hanno steso una coltre di silenzio. Se il problema giuridico è quello della competenza territoriale, perché l'Italia non pretende dalla Croazia, paese che aspira ad aderire all'Unione Europea, di processare i responsabili di allora? Questa domanda come altre resterà senza risposte.

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Indiscrezioni raccolte dai giornalisti di "Libero": la Cassazione riaprirà il processo sulle foibe (tratto da "Libero" del 5 marzo 2004).

ROMA - La Corte di Cassazione riapre il processo sulle foibe. Questa è l'indiscrezione che trapela dal "Palazzaccio", anche se la decisione verrà formalizzata il prossimo 20 marzo. In termini tecnici la Prima sezione penale della Suprema Corte non dovrebbe convalidare la decisione con la quale la Corte di Assise di Appello di Roma aveva pronunciato la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana" nei confronti di Oscar Piskulic, l'ottantenne croato che, nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe era stato processato con l'accusa di aver ucciso a Fiume, nel 1944, l'attivista italiano Giuseppe Sincich.
La tragedia delle foibe proprio in questi giorni ha vissuto un altro momento significativo: l'altro ieri la Commissione affari costituzionali del Senato ha approvato il testo di legge, già passato alla Camera, con il quale si istituisce una Commissione parlamentare d'inchiesta sulle foibe. Martedì prossimo, sempre a palazzo Madama, il provvedimento approderà in aula per la discussione generale e la votazione. La previsione è che la legge passi e, quindi, si proceda alla formazione della relativa Commissione d'inchiesta. "Dopo anni di silenzio storico", afferma il relatore del provvedimento, il senatore di Alleanza nazionale Luciano Magnalbò, "ci è stata restituita la verità storica sulle foibe. Ma è una verità ancora incompleta rispetto alle proporzioni della tragedia, sulla quale è bene andare avanti".
Tuttavia, è la lunga e tortuosa vicenda giudiziaria quella che non riesce ad approdare a un risultato. Il 16 aprile del 2003, meno di un anno fa, la Corte d'Assise d'Appello di Roma aveva chiuso il procedimento nei confronti dell'ultimo presunto responsabile ancora vivente. Per i giudici romani la competenza italiana è decaduta in quanto l' omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo, per questo avevano dichiarato quella che si definisce la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana". Di tutta l'atroce vicenda delle foibe, trascorsi oltre cinquant'anni, era rimasta in piedi l'accusa per l'uccisione di tre autonomisti italiani di Fiume: Nevio Skull, Mario Blàsich e Giuseppe Sincich. Imputato principale, Oscar Piskulic, soprannominato "Zuti" (il giallo), che fu dal 1943 al 1947, con il grado di maggiore, il capo della temuta Ozna, la polizia segreta jugoslava a Fiume. Le tre vittime non erano fascisti contro i quali c'erano risentimenti e conti da regolare a fine guerra, tutt'altro. La sentenza della Prima Corte d'Assise di Roma li definisce "limpide figure di antifascisti perseguitati dal regime di Mussolini".
I fatti contestati a Piskulic furono commessi tra il 3 e il 4 maggio del 1945. L' Ozna era la polizia segreta di Tito, la sua sigla sta per Odjeljenia Bastite Naroda, "Organizzazione per la difesa della nazione". Nella sentenza di primo grado si afferma che " l'Ozna non poteva essere equiparata alle forze armate", ma ad essa fu "affidato il ruolo decisivo nell'epurazione ...". Non basta. Scrivono ancora i giudici: "L'Ozna, polizia politica segreta, era la longa manus" del Comitato centrale del Partito comunista di ispirazione titina. "Era portata", si legge, "a interpretare tale mandato nella maniera più radicale, provvedendo ad esempio ad un gran numero di liquidazioni sul posto". Il maresciallo Joseph Tito in un discorso ufficiale aveva esortato i suoi agenti: "Se l'Ozna mette il terrore nelle ossa dei nostri nemici, questo va a tutto vantaggio del nostro popolo".
L' 11 ottobre 2001 venne pronunciata la sentenza di primo grado (presidente Francesco Amato). Piskulic venne assolto, per non aver commesso il fatto, in relazione agli omicidi Blasich e Skull, mentre per l'omicidio di Giuseppe Sincich il reato venne dichiarato estinto per una vecchia amnistia del 1959. Ma nella sentenza Oskar Piskulic viene indicato come "il responsabile diretto dell'omicidio di Giuseppe Sincich". Non solo, nella sentenza scrive anche: "Va di conseguenza affermata la responsabilità di Piskulic per l'uccisione di Giuseppe Sincich, uccisione che trae la sua causale ultima dal rifiuto opposto dall'esponente autonomista di appoggiare le mire annessionistiche degli jugoslavi su Fiume". E ancora, a pagina 58, "la sua eliminazione rientrava in un preciso disegno ed era stata sinistramente preannunciata dalle minacce formulate dall'imputato".
Importante, infine, un altro passaggio del dispositivo dei giudici, quello richiamato a pagina 15, dove escludendo la possibilità per l'imputato di richiamare lo stato di guerra, si richiama la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che escluse lo stato di guerra per le SS tedesche, in quanto avevano compiti di persecuzione razziale e repressione. L' Ozna di Tito si è mossa allo stesso modo ed è pari alle famigerate formazioni naziste di Himmler.
Se il primo grado si era concluso con l'applicazione di una vecchia amnistia ma con il riconoscimento nei fatti delle responsabilità, in secondo grado, da parte della Prima Corte di Assise di Appello, c'è stata la pronuncia di cessata giurisdizione. In altre parole, dove è avvenuto il fatto non c'è più la competenza dello Stato italiano. Il procuratore generale aveva chiesto la condanna all'ergastolo. 

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Aggiornamento del 18 aprile 2004: per la Cassazione: "l'Italia non può giudicare Piskulic".

L'Italia non ha titolo, per difetto di giurisdizione, a giudicare Oskar Piskulic, il cittadino croato di 82 anni che, nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe, era stato accusato di aver ucciso a Fiume, nel 1944, l' attivista italiano Giuseppe Sincich. La prima Sezione della Corte di Cassazione - a quanto si è saputo dal legale di Piskulic, Livio Bernot del Foro di Gorizia - ha rigettato ieri il ricorso presentato dalla parte civile contro la sentenza della Corte di Assise d' Appello di Roma, che il 15 aprile 2003 aveva pronunciato la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana" nei confronti del cittadino croato.

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Il processo a Pregelj 

 

 

Archiviata l'inchiesta su 837 morti nelle foibe (tratto da "Il Gazzettino" dell'1/07/2005)

 

Nei 16 faldoni dell'indagine cominciata a Padova non ci sarebbero elementi per incriminare il titino Pregelj.


Non ci sono elementi idonei per portare davanti a un giudice l'ex commissario politico dell'esercito partigiano jugoslavo Franc Pregelj, ora ottantaseienne cittadino sloveno, con l'accusa dell'omicidio di 837 cittadini e militari italiani scomparsi nelle foibe a Gorizia fra il 14 maggio e il 15 giugno 1945: per questo, accogliendo la richiesta del pm Massimiliano Serpi, il gup di Bologna Pasquale Sibilia ha archiviato l'inchiesta.

Fra i 16 faldoni di un'indagine iniziata nel 1997 dalla Procura militare di Padova e i 12 contenitori con gli atti sulle vittime, la Procura emiliana non ha trovato elementi in grado di dimostrare la responsabilità nella catena di comando jugoslava di Pregelj, allora comandante «Boro»: di certo, fu una personalità di spicco, ma secondo il pm non c'è alcun elemento idoneo a dimostrare che fu sua la responsabilità della deportazione e dell'assassinio delle vittime. L'uomo, con rogatoria internazionale, è stato anche sentito dalle autorità slovene, ma ha spiegato che, in quel periodo, era il segretario del partito comunista sloveno a Gorizia. Un'altra rogatoria fu inoltrata per conoscere con precisione la catena di comando delle forze militari jugoslave, ma non è mai arrivata risposta.
La richiesta di archiviazione del pm Serpi è stata vistata anche dal Procuratore capo Enrico Di Nicola. A sessanta anni di distanza, l'indagine è stata ovviamente complessa: con tutti gli eventuali testimoni morti e la versione dei fatti arrivate solo de relato o affidata da resoconti dattiloscritti in clandestinità. Proprio in alcuni di questi si fa riferimento a un certo comandante «Boro», ma ci sono pure versione che indicano la stessa persona come alla base di alcune liberazioni di prigionieri detenuti in campi di concentramento.
L'inchiesta, scattata dalla denuncia di associazioni e centri che si occupavano delle foibe, era arrivata dalla Procura militare di Padova, dove parevano essere stati acquisiti risultati che sembravano preludere a una richiesta di rinvio a giudizio per Pregelj: una eccezione della difesa, accolta dalla Procura generale della Cassazione, aveva però portato il fascicolo alla giustizia ordinaria. Prima a Gorizia, ma visto che una delle vittime era padre di un magistrato che esercita lì, gli atti furono trasmessi ai colleghi bolognesi (competenti ad indagare quando sono coinvolti magistrati del Friuli Venezia Giulia). E la singola posizione si è portata dietro tutto il resto del fascicolo, visto che l'indagato doveva rispondere degli stessi fatti.

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Altro materiale utile.

 

 

L'avvocato Randazzo, penalista, racconta dei tanti privilegi di cui godono gli assassini comunisti di Tito.

Intervista all'Avv. Randazzo: “Ecco perché il boia delle foibe prende la pensione dallo Stato italiano”.

di Ruggiero Capone

“La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi”, questa frase di Solone (fondatore della democrazia ateniese, arconte che nel 594-593 avviò riforme, e primo poeta ad usare la lingua attica pregna d’omerismi) è stata scelta dall’avvocato Luciano Randazzo perché sintesi di quanto avverrebbe nelle procure italiane ed in ogni palazzo pubblico del potere. Così Randazzo (vice segretario politico di Italia Moderata) ha tenuto nel suo studio una conferenza stampa, per acclarare che sono stati archiviati gli esposti presentati contro di lui da Oskar Piskulic (tra i maggiori autori del genocidio delle Foibe). L’opinione lo ha intervistato.

- Piskulic ed altri autori di stragi impunite sono vivi e vegeti e trovano anche la forza di reagire contro chi chiede che vengano processati. Cosa ha dato loro la sicurezza di farla franca e di poter anche attaccare chi denuncia il loro operato?

Per 60 lungi anni hanno goduto di protezioni politiche italiana. E questo ha dato a Piskulic la sicumera sufficiente a pensare di poter chiedere all’ ordine degli avvocati di Roma misure punitive contro di me e l’avvocato Augusto Sinagra. E perché avremmo, secondo il partigiano titino Piskulic, vilipeso la Repubblica ed il governo italiano difendendo le vittime delle Foibe nell’udienza preliminare, tenutasi il 15 marzo 2000 innanzi ai giudici del tribunale di Roma Roberto Reali e Giuseppe Petitto. Di fatto Piskulic ed i suoi sodali sono assurti, in forza di certa propaganda comunista, ad eroi ed intoccabili, e non hanno sopportato che avessimo chiesto la loro incriminazione per il genocidio 30 mila istriani e per il conseguente esodo di oltre 300 mila italiani dalmati. Addirittura certi partiti politici e certe sigle sindacali li hanno spacciati per eroi della resistenza.

- Che intende dire?

Che ai capi partigiani titini di nazionalità slava l’Italia paga laute pensioni, in alcuni casi sono corrisposte mensilmente e procapite pensioni di oltre 3000 euro, perché alcuni di loro sono stati spacciati come alti dirigenti in pensione d’un noto sindacato italiano. Piskulic la percepisce ancora lui personalmente, ma nei casi di decesso c’è stata una reversibilità della stessa a favore di giovani donne jugoslave sposatesi con gli infoibatori negli anni ’90.

- E l’ordine degli avvocati come s’è comportato?

Ha archiviato il procedimento a carico mio e dell’avvocato Sinagra, e perché i consiglieri dell’ordine hanno ben compreso quanto fosse fuori luogo l’accusa mossa dall’infoibatore. A quest’ultimo, tra l’altro, lo stato italiano ha pagato persino la difesa. Piskulic non è un caso isolato, negli ultimi anni non pochi brigatisti hanno gabbato lo stato italiano.

- E le persone indifese che fine fanno?

La signora Sabrina Pietrolongo è stata messa sotto i riflettori della trasmissione televisiva “Un giorno in pretura”, edizione dell’ 11 marzo 2004, ed il Garante per la protezione dei dati personali, in data 7 luglio 2005, ha censurato il programma di Rai Tre. Quindi ha intimato che le immagini relative alla mia assistita non siano nuovamente mandate in onda e, poi, ha inviato il provvedimento al Consiglio regionale e nazionale dell’Ordine dei giornalisti, perché vengano assunti provvedimenti contro il conduttore e gli autori. Questi ultimi hanno strumentalizzato il legame affettivo che c’era stato tra la mia cliente ed un imputato d’omicidio. Credo che in nessuna nazione civile sia consentito quest’uso spregiudicato della professione, e per dappiù da un canale pubblico.

 

 

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"La magistratura croata indaga sulle foibe" (articolo tratto da "Il Piccolo" del 20/03/'04). 

Speleologi in azione in Cicceria: resti umani trovati a Hribce sono stati mandati all'Istituto di medicina legale.Alla base della decisione la denuncia di un cittadino croato che vuol
conoscere la fine del padre, che è stata tenuta in un cassetto per cinque anni.

POLA Terstenico (Trstenik), nel cuore dell’aspra e inospitale Ciceria, in Istria: auto della polizia, agenti della Criminalpol e delle forze speciali, uomini con il caschetto munito di torcia. Una quarantina di persone, tra cui si notano diversi civili, tutti affacendati intorno all’entrata di una grotta. Una grotta? No, una foiba in cui dovrebbero giacere da una sessantina d’anni ossa umane, testimonianza di lontane tragedie di cui sarebbero stati vittime gli italiani. L’iniziativa di calare nella voragine carsica gli speleologi per esplorare drammatiche pagine di storia è stata presa dalla Procura di Stato istriana, che avrebbe agito su denuncia di un cittadino croato. Il condizionale è d’ obbligo perché il magistrato non ha rilasciato dichiarazioni in merito.Il denunciante, secondo informazioni ufficiose, si sarebbe rivolto alla giustizia per avere notizie del padre scomparso subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. A Terstenico è giunto il giudice istruttore del tribunale regionale di Pola, Svetislav Vujic: «Gli speleologi entreranno in azione non solo nell’anfratto di Terstenico – ha detto ai giornalisti – ma saranno esplorati anche altri siti nella Ciceria. Resti umani, se ci sono, saranno riesumati e la perizia sarà affidata all’Istituto di medicina legale di Fiume». «Dobbiamo far luce – ha proseguito – su epoca e cause della morte, scoprendo se vi siano eventuali responsabilità nei decessi. Nei giorni scorsi gli speleologi sono scesi nella cavità denominata Hribce, a monte di Pinguente. Lì sono state riportate in superficie ossa che potrebbero essere di natura umana, ma saranno le perizie a stabilirlo. Nella voragine di Terstenico il lavoro è reso complicato dalla presenza di ordigni esplosivi che vanno fatti brillare». Un giornalista ha chiesto perché la magistratura si è mossa proprio adesso. Ma il magistrato ha detto di non voler rispondere a una simile domanda». Gli abitanti del posto, secondo il quotidiano Glas Istre, non sono rimasti però sorpresi dalle indagini in quanto tra i più vecchi resta il ricordo di quella foiba che avrebbe inghiottito persone tra il 1943 e il 1947. Un anfratto la cui entrata non è mai stata custodita, né in qualche modo contrassegnata. Secondo il giornale istriano, l’operazione è scattata subito dopo che il premier croato Ivo Sanader ha reso omaggio alle vittime dell’ex lager di Jasenovac, in cui gli ustascia liquidarono decine di migliaia di serbi, ebrei, rom, comunisti, partigiani e di oppositori del regime di Ante Pavelic. La richiesta di scendere nelle viscere della Ciceria sarebbe rimasta per ben cinque anni in un cassetto della procura istriana e tirata fuori nei giorni scorsi.

Andrea Marsanich

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Articolo tratto dal "Gazzettino di Padova" del 26/02/'02.

Il gazzettino del 26 feb 2002  (1/2) Il gazzettino del 26 feb 2002  (2/2)

 


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Pititto: un Pubblico Ministero coraggioso.

 

Il pm Pititto

 

  Premessa.

E' forse l'inchiesta più ostacolata e osteggiata nella storia giudiziaria italiana. Una pagina vergognosa che resta di monito alle generazioni future. E che dimostra come sia quasi impossibile e soprattutto pericoloso, in Italia, aprire, condurre e cercare di portare a termine, indagini e inchieste sgradite all'establishment politico di sinistra. Era il 1996 quando l'allora procuratore di Roma, Michele Coiro, consegnò nelle mani del p.m. Giuseppe Pititto, appena arrivato alla Procura di Roma, il fascicolo dell'inchiesta sulle foibe che il collega Gianfranco Mantelli aveva aperto dopo la denuncia dell'avvocato Sinagra. Da quel giorno il magistrato romano è finito al centro di una guerra non dichiarata con minacce di morte, tentativi di impedirgli di svolgere l'inchiesta, pressioni di ogni genere, anche istituzionali, denunce, campagne stampa aggressive e provvedimenti disciplinari poi archiviati. Un incredibile fuoco di sbarramento che ha rallentato prima l'inchiesta e poi il processo. E che ha finora impedito la condanna dei colpevoli di un genocidio - si parla di ventimila italiani morti - compiuto dai partigiani titini con tecniche feroci da film dell'orrore.

  L'intervista.

- Dottor Pititto, quand'è che iniziò a capire che la sua inchiesta avrebbe avuto vita difficile?

Quasi subito, non appena ho iniziato a compiere i primi atti si sono immediatamente prospettate le prime difficoltà. Comprendere che una inchiesta di questo genere potesse avere delle implicazioni, per così dire di natura politica, è stato contestuale alla presa di visione degli atti.

- Lei forse immaginava che questo le avrebbe procurato qualche grana.

Era immaginabile che accertare la verità su questi fatti potesse essere motivo di soddisfazione per i più e motivo, invece, di insoddisfazione e di rammarico per altri. Ma non mi preoccupai.

- Cosa le disse il procuratore Coiro quando le affidò questa inchiesta?

Mi chiese ovviamente di andare a fondo e di cercare chi fossero i responsabili. E mi sostenne poi nelle argomentazioni che io andai a portare al Procuratore generale il quale, invece, aveva dei dubbi sulla mia competenza.

- Che perplessità aveva il Pg?

Mi chiese in base a quali elementi io mi ritenessi competente a svolgere questa inchiesta e sostenne che, a suo avviso invece, era competente il procuratore della Repubblica di Trieste.

- L'intervento del Procuratore generale per chiedere delucidazioni in merito è una costante di tutte le inchieste?

Per quanto mi riguarda fu il primo e unico caso.

- Cosa disse al Pg?

Spiegai le mie ragioni. Per la verità più di una volta. Alla fine dovetti anche Interpellare il procuratore della Repubblica di Trieste. e, per iscritto, gli chiesi se condividesse la mia opinione sul fatto che il competente ero io. Il collega mi rispose affermativamente. Quindi, a questo punto la questione si chiuse.

- Quante volte fu costretto ad andare dal Procuratore generale?

Un paio dl volte.

- Proseguì così con l'inchiesta?

Si, anche se vi erano, naturalmente, delle difficoltà di natura oggettiva. Si andava ad indagare su fatti che risalivano ad oltre mezzo secolo prima. E natualmente fatti di questo genere si possono accertare o attraverso testimoni oppure attraverso documenti.

- Documenti lei ne aveva a disposizione?

Sul piano storico ce ne sono tantissimi. Ma quelli utili sui piano giudiziario, cioè per individuare chi fossero i responsabili di questo o quell'omicidio, erano ben pochi. Quanto ai testimoni non ve ne potevano essere molti. Tuttavia riuscimmo, attraverso la collaborazione della polizia giudIziaria, in particolare della Digos di Trieste, a raccogliere testimonianze e ad acquisire elementi che resero possibile una richiesta di rinvio a giudizio nel gennaio del 97 a carico di tre indagati, Motika Ivan, Piskulic Oskar, e Avianka Margitti.

- Dal momento in cui ci fu l'intervento dei Procuratore generale al momento in cui firmò la richiesta di rinvio a giudizio ci furono altri problemi, lei riscontrò altre pressioni, diciamo così, di carattere istituzionale?

No. Riscontrai, invece, una totale indifferenza istituzionale rispetto alle minacce di morte che mi giunsero da più parti e, soprattutto, rispetto alle dichiarazioni dei ministri degli Esteri della Slovenia e della Croazia i quali dichiararono che io stavo facendo una inchiesta per finalità politiche.

- I ministri del governo italiano non intervennero per tutelarla?

Che io sappia nessuno è intervenuto per dire che il pubblico ministero Pititto stava facendo ciò che era obbligato a fare. Ci fu certamente questa indifferenza.

- E arriviamo alla richiesta di rinvio a giudizio...

Si, nel gennaio del 91, finalmente, formulai questa richiesta nella quale, in particolare, segnalavo al gip, testualmente, le eccezionali esigenze di giustizia trattandosi di crimini che risalgono ad oltre mezzo secolo fa e attesa l'età degli indagati. Chiedevo, per questo, che l'udienza preliminare avesse luogo il più presto possibile...

- Andò così?

Per la verità no, perché all' udienza preliminare, il gup dichiarò il difetto di giurisdizione dei giudice italiano. Disse, in sostanza, che il giudice italiano non aveva giurisdizione a giudicare questi fatti perché i territori, su cui questi fatti si erano verificati, erano stati successivamente ceduti ad altro Stato.

- Quando furono compiuti i fatti però i territori erano italiani?

Certamente. Ed io infatti, a seguito di questa sentenza, dovetti fare il ricorso in Cassazione denunciando anzitutto la abnormità del provvedimento del giudice, perché era stato emesso a mio avviso in violazione delle nonne del codice di procedura penale, e sostenendo, poi, che bisognava tener conto del momento in cui i fatti si erano verificati. In quel momento i luoghi in cui i reati erano stati commessi, erano sotto la sovranità dello Stato italiano.

- Cosa accadde a quel punto?

La Cassazione accolse il mio primo motivo di ricorso, cioè disse che il provvedimento era abnorme perché era stato emesso in violazione delle norme che disciplinavano lo svolgimento dell'udienza preliminare e, tra le righe, rilevò che la questione della giurisdizione si poneva e le mie argomentazioni meritavano di essere approfondite e valutate in maniera adeguata.

- Quindi, in sostanza, diede torto al gip - mi sembra - Alberto Macchia.

Sì. La Cassazione annullò infatti il provvedimento del giudice Macchia e rinviò gli atti a me. Quindi, per la seconda volta, io formulai una richiesta di rinvio a giudizio.

- Che finisce sempre al giudice Macchia?

No, stavolta è il giudice Tortora. Che accoglie la mia richiesta e dispone il rinvio a giudizio degli imputati. Arriviamo così, finalmente, davanti alla Prima Corte d'Assise di Roma per l'udienza del 7 gennaio del 1999.

- Finalmente sta per partire il processo...

No, perché la Corte di Assise rileva e ritiene che il giudice Tortora non avesse regolarmente notificato l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare agli imputati e quindi dichiara la nullità della notificazione e restituisce ancora una volta - e siamo alla seconda volta - gli atti a me. Io formulo la terza richiesta di rinvio a giudizio. Nel frattempo, però, due degli imputati, Motika e la Avianka erano deceduti. E il processo finisce davanti ad un altro giudice, il dottor Reali, che, finalmente, dispone il rinvio a giudizio dell' unico imputato sopravvissuto, ossia del Piskulic.

- E ora?

Attualmente questo processo pende davanti alla Corte d'Assise.

- Lei che idea si è fatto di questa difficoltà che sono state frapposte?

lo debbo rilevare che se non ci fosse stata quella sentenza che dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice italiano, il processo sarebbe giunto a dibattimento molto prima. Naturalmente questo ha comportato un maggiore impiego di tempo.

- Lei parla di sorte come se fosse una serie di concatenazione, diciamo casuali, invece, mi sembra di capire, ci sono state argomenta zioni radicalmente smentite, poi, da diversi collegi.

lo rappresento i fatti poi se questi fatti siano concatenati o meno è una valutazione che lascio ad altri.

- Sinceramente non si è mai vista un'inchiesta così travagliata.

Travagliata anche per quello che direttamente mi ha riguardato. Per come è stata gestita la questione attinente alla mia sicurezza a seguito delle minacce che ho ricevuto.

- Lei ha avuto una scorta?

Per un certo periodo sono stato tutelato. Però poi si è verificato un fatto quanto meno strano.

- Cioè?

L'udienza in Corte d'Assise era stata

fissata per il 7 gennaio del '99. Sussistevano rischi particolari per la mia incolumità e in ragione di ciò io confidavo che, nonostante tutto, alla vigilia della celebrazione del processo, le misure di sicurezza in atto sarebbero state rafforzate.

- Cosa che invece non accadde.

Non solo non accadde ma, molto stranamente, il 31dicembre del 98, cioè sette giorni prima dell' inizio del processo in Assise, cessò ogni misura di tutela a mio carico perché, mi dissero, non correvo più alcun pericolo.

- Questo sulla base di quale valutazione?

Non riesco ad immaginarlo perché è veramente strano che, proprio nel momento  in cui il pericolo diveniva oggettivamente maggiore, lo si sia invece potuto ritenere come cessato. lo andai a fare il processo in Assise privato oramai di ogni tutela.

- Lei ebbe poi altre minacce?

No, ma subii un procedimento disciplinare per questa inchiesta.

- Cosa accadde?

L'inchiesta sulle foibe ha provocato, come si può immaginare, diverse reazioni. E ha indotto alcuni parlamentari a presentare numerose interpellanze e interrogazioni. Alcune di queste mi vennero trasmesse dall'allora procuratore della Repubblica, Coiro, con la richiesta di unirle agli atti. Cosa che io feci.

- Coiro glielo disse a voce?

No, lo scrisse. C'è un documento in proposito. Bene, il 21 novembre del '97, in mattinata, arrivò ad una persona della mia segreteria una telefonata in cui si diceva: "pubblico ministero, dottor Pititto, messaggio: lasci perdere le foibe, non si appelli altrimenti l'ammazziamo come un cane". Sostanzialmente mi si diceva di non impugnare la sentenza del giudice che dichiarava non doversi procedere per difetto di giurisdizione, altrimenti avrei fatto questa fine. Io invece feci ricorso e le cose andarono come andarono. Comunque feci fare una relazione di questa telefonata alla mia collaboratrice e la mandai al procuratore della Repubblica.

- Il dottor Coiro?

No, nel 97 era l' attuale procuratore della Repubblica, il dottor Secchione. Ad ogni modo non ottenni risposta. Però, incredibile a dirsi, lo stesso giorno ricevetti una lettera del procuratore che mi chiedeva conto del perché io avessi inserito nel fascicolo quelle interrogazioni.

- Il procuratore sapeva che Coiro le aveva chiesto di inserire queste interpellanze agli atti?

Risultava dal fascicolo. Comunque per aver inserito questi atti, che mi erano stati trasmessi proprio a tal fine, ho subito un procedimento disciplinare al Csm.

- Dove ha potuto dimostrare, lettera del procuratore alla mano, che in effetti tutto era in regola?

Infatti il Csm mi ha assolto.

- Quanto invece alle minacce ha mai più avuto risposta dal procuratore?

A seguito di quella relazione? No. Nulla.

- Ora, comunque, il processo è finalmente in Corte d'Assise. Sarà soddisfatto?

Si, certo. Ma è seguito da un altro pubblico ministero, non da me.

- Come mai questa scelta?

Non è stata una mia scelta, è stata un'istanza, accolta dal procuratore di Roma, del difensore dell'imputato il quale ha chiesto la mia sostituzione poiché io avevo iniziato una causa civile per diffamazione nei confronti dell'autrice e dall'editore di un libro sulle foibe in cui venivano espressi giudizi che a mio avviso erano offensivi della mia reputazione. E questo nonostante avessi scritto al Csm che ero disposto a rinunciare al giudizio a condizione che mi si lasciasse continuare a fare il pm. Ciò nonostante io sono stato, sostituito.

- Quindi alla fine sono riusciti ad estranearla dal processo.

Si .

- Qual è li bilancio a distanza di tanti anni dall'inizio di quell' inchiesta?

Posso dire di avere affrontato questa inchiesta tra difficoltà non lievi. Ma certamente il bilancio è positivo. Non bisogna guardare a quelle che sono state le mie vicende personali, anche le minacce e i pericoli che ho corso. L'importante, invece, è che oggi si sia davanti alla Corte d'Assise. Ai giovani dico di guardare ai risultati positivi per la società che si possono conseguire facendo il proprio dovere anche tra difficoltà forti. Io ritengo che questa inchiesta abbia contribuito - lo dico naturalmente senza alcuna presunzione sapendo che era il lavoro che dovevo fare, nulla di più -  a illuminare una pagina tragica della nostra storia. Una pagina che è stata sempre tenuta nascosta.  

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  Altra intervista a Pititto (di Simone Navarra).

La Giustizia, fatta di merito e scrupolosità, attenzione, a volte viene fermata per antipatia, voglia di rimozione. È il caso del magistrato Giuseppe Pititto nel processo che vede - o vedrà, o dovrebbe vedere - sul banco degli imputati il solo Oskar Piskulic, ma che dovrebbe accusare tutti coloro che per 55 anni non hanno indagato sui fatti delle foibe. Per primo sarebbe lo Stato italiano, i suoi troppi governi in tutto questo tempo, i professori di storia che scrivono i libri di testo facilmente dimentichi di quei luoghi e quelle date. Per ora il magistrato che per cinque anni ha provato a portare in aula questo pezzo di storia rischia di vedersi togliere l'inchiesta. Motivo? Il cittadino Giuseppe Pititto ha querelato - dunque in una causa civile - tal Claudia Cernigoi, autrice del libro "Operazione foibe a Trieste" in cui molte cose vengono messe in dubbio, a cominciare dall'operato del giudice Giuseppe Pititto. A difendere la Cernigoi è l'avvocato Livio Bernot, già difensore di Piskulic. Questo potrebbe ingenerare un conflitto, perciò provvedimento di revoca. Il magistrato precisa: "Oggi 27 giugno ho presentato il ricorso sull'illegittimità di quel provvedimento, se comunque non dovesse essere ammesso ho già detto: datemi il processo e vi darò la causa civile".


- In questo caso quanto è difficile fare il giudice?
Molto. A volte sembra che diventi un fatto eccezionale fare il proprio dovere. Per anni non s'è voluto fare niente. Quando abbiamo cominciato questo cammino nel 1995 non c'erano documenti ufficiali e abbiamo dovuto fare appelli attraverso i media per arrivare a delle testimonianze.


- E poi?
Poi nel 1997, quando presento la prima richiesta di rinvio a giudizio, mi si dice che i giudici italiani, visto che ormai quelle terre sono appartenenti a un altro paese, non possono decidere in merito. Perciò ricorro in Cassazione e i magistrati della suprema corte mi danno ragione. Si arriva alla prima udienza in corte d'Assise il 5 maggio del 2000 e finalmente viene fissata la data dell'inizio. Il 25 settembre. 


-Proprio finalmente?
No, perché nel frattempo due dei tre imputati sono morti, e uno di questi - Ivan Motika - era il principale, visto che era un capo partigiano. 


- Quale è il problema reale di fronte a percorsi di questo tipo? Così travagliati, quasi osteggiati da chi dovrebbe aiutare? 
Si sente una forte crisi di legalità, nella quale troppe volte ci si sente soli, senza riferimenti. E questo comunque non accade solo per questa vicenda, anche nel procedimento sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - di cui ho condotto tutte le indagini e che poi, prima di andare in dibattimento, mi è stato tolto - il percorso è stato simile.


-La politica non aiuta?
Le foibe sono un altro esempio di come la giustizia abbia precorso la politica, interessata il più delle volte a difendere o rappresentare i propri interessi e le proprie convenienze più che il desiderio e il sentimento delle persone.

 

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