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- Questa pagina contiene documentazione relativa al
1) processo a carico di Piskulic Oscar;
2) processo a carico di Pregelj Franc;
4) un approfondimento sul PM Pititto.
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Il processo a Piskulic in nove punti.
Aggiornamento del 22 ottobre 2002: chiesto l'ergastolo per Piskulic Oskar in appello.
Aggiornamento del 6 novembre 2002: la difesa di Piskulic ricusa la corte.
Aggiornamento del 28 marzo 2003: la Cassazione respinge l'istanza di ricusazione.
Aggiornamento del 16 aprile 2003: la Corte d'assise d'appello impedisce di processare Piskulic.
Articolo riassuntivo dell'intera vicenda (tratto da "Libero" del 12 febbraio 2004).
Aggiornamento del 18 aprile 2004: per la Cassazione: "L' Italia non può giudicare Piskulic".
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Il processo a Pregelj.
Archiviata l'inchiesta su 837 morti nelle foibe (notizia del luglio '05)
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IN EVIDENZA:
"La magistratura croata indaga
sulle foibe" (articolo tratto da "Il Piccolo" del 20/03/'04).
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Il processo a Piskulic in otto punti.
In data 8.5.96 il P.M.
Pititto presso il Tribunale di Roma chiedeva nei confronti dei cittadini croati Piskulic Oskar
e Motika Ivan, indagati per l'uccisione di migliaia di cittadini italiani in Istria e Dalmazia, tra il 1943 ed il 1947, la misura cautelare della custodia in carcere.
Evidenziava il P.M. che le risultanze acquisite, pur valutate all'ombra del lunghissimo tempo intercorso, chiaramente indicavano come migliaia di persone fossero state uccise non in nome di un ideale o per ragioni di guerra contro il nemico, ma solo perché erano cittadini italiani.
Queste risultanze, proseguiva il P.M., portavano alla configurazione del delitto di genocidio, per la cui repressione era stata emanata dal legislatore italiano la legge 9 ottobre 1967, n.962, che, se pur successiva ai fatti in esame, non soffriva del principio della irretroattività della sua applicazione - problema che si proponeva per
Motika Ivan - in quanto l'irretroattività trova la sua ratio nell'esigenza di consentire la punibilità di comportamenti che solo da quel momento vengono avvertiti come antigiuridici, ma non allorché si tratti di fatti che scardinano quei principi fondamentali,
pregiuridici, che vengono considerati dalla coscienza umana come essenziali al vivere civile e che si risolvono nella tutela e nel rispetto della vita dell'uomo in quanto parte di un gruppo, nazionale, etnico, razziale o religioso che sia.
Quando un intero gruppo di persone viene distrutto solo per l'appartenenza ad una certa nazione, si è in presenza di un delitto contro l'umanità ed allora in questo caso la legge dell'uomo registra, non crea il delitto, ogni diversa conclusione essendo fondata solo su una concezione meramente formale del fatto-reato.
Del resto - osserva al riguardo il P.M. - l'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge del 4 agosto 1955, n.848, mitiga la portata dell'affermato principio, al comma 1, della irretroattività della norma
incriminatrice, nazionale o internazionale che sia, prevedendo espressamente al comma 2 che ciò non potrà valere allorché si sia in presenza di una persona colpevole di un'azione o di una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, era criminale secondo i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
Dunque, Motika Ivan è chiamato a rispondere del delitto di genocidio o, comunque, di fatti qualificabili come omicidio pluirimo pluriaggravato, avvenuti in Gimino e Pisino dopo l' 8 settembre 1943.
Con ordinanza 14.5.96 il G.I.P. respingeva la richiesta rilevando, in primis, la carenza di giurisdizione del giudice italiano, non rientrando i reati contestati nell'ambito di operatività dell'art. 6 c.p. ( n.d.r. : reati commessi su territorio nazionale ). Al riguardo, infatti, le sezioni unite della Cassazione, con sentenza 2 luglio 1949,
Schwend, avevano statuito che i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduta al altro stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero, e ciò in forza del principio
di diritto internazionale secondo cui la cessione del territorio opera un immediato trasferimento di sovranità, cui accede la giurisdizione. Né poteva essere condivisa la successiva e contraria pronuncia delle stesse sezioni unite, 24 novembre 1956, Salomone, sia per la particolarità del caso trattato - ipotesi di bigamia scaturita da un matrimonio celebrato in Pinzano d'Istria il 20 giugno 1950 - e per lo sviluppo dell'iter
argomentativo, da cui risultava una portata contingente della massima e tale da non consentire l'automatica trasposizione ai fatti in questione.
Nel merito - proseguiva il G.I.P. - non poteva essere oggetto di contestazione il delitto di genocidio, in quanto introdotto nell'ordinamento italiano in epoca successiva a quella in cui i fatti risultavano, per l'accusa, essere stati commessi. Né poteva il principio dell'irretroattività della legge penale, sancito dal comma 2 dell'art. 25 della Costituzione, essere derogato dall'art. 7 comma 2 della Convenzione per la salvaguardi dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto tale norma mira a stabilire l'irrilevanza di ogni scriminante riconducibile alla pura “ragion di Stato” e quindi a consentire il perseguimento di crimini contro l'umanità che altrimenti resterebbero privi di sanzione anche dopo la scomparsa dei regimi che quei delitti hanno normativamente giustificato, in una prospettiva quindi del tutto diversa da quella delineata dal P.M. e consentendo detta norma agli Stati aderenti di individuare l' an e il quomodo dell'esercizio del potere punitivo anche in deroga al principio della irretroattività, l'unico
precettivo.
In ogni caso - concludeva il G.I.P. - risalendo i fatti ad oltre 50 anni prima ed avendo gli indagati superato il 70° anno di età, la richiesta di applicazione della misura custodiale intramuraria andava respinta non sussistendo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, tale non potendo considerarsi - come invece sostenuto dal P.M. - né la gravità del reato, elemento amorfo agli effetti cautelari, né la necessità di assicurare la disponibilità degli indagati allo Stato, non essendo questa esigenza di carattere processuale, ma un'impropria anticipazione della sentenza di condanna definitiva. Avverso tale ordinanza ha proposto appello il P.M. censurando in primis, il ritenuto difetto di giurisdizione.
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Aggiornamento del 22 ottobre 2002: chiesto l'ergastolo per Piskulic Oskar in appello.
ROMA - Un omicidio scaturito da sentimenti di vendetta e di rappresaglia sullo sfondo di un odio etnico e di un'avversità nei
confronti degli italiani. È su questi presupposti che la procura generale di Roma ha chiesto ieri
(21 ottobre 2002 n.d.r.) la condanna all' ergastolo dell' ex capo della polizia politica jugoslava
Piskulic Oskar, accusato di aver ucciso a Fiume, nel 1944, un autonomista italiano, Sergio
Sincich. La pena è stata sollecitata in corte di assise di appello dal pg Giovanni Malerba nell'ambito del procedimento che ha
preso spunto dall'inchiesta sulle Foibe, le cavità carsiche in cui le bande di Tito, tra il 1943 e il '47 massacrarono migliaia di italiani. Per l'omicidio
Sincich, Piskulic, 80 anni, era stato amnistiato in primo
grado in virtù di una norma del 1959 sui reati politici. Ma per il pg Malerba, quello di Sincich non può essere considerato un omicidio di
natura politica, ma dettato da sentimenti antitaliani. Rancori, per il rappresentante dell'accusa, tuttora
presenti nell'imputato la cui personalità non è neanche «meritevole del riconoscimento
delle attenuanti generiche».
In primo grado Piskulic, che ha sempre negato gli addebiti e, in
particolare, di essere stato il capo dell' allora polizia politica jugoslava (Ozna), era stato giudicato, e assolto, per gli omicidi di
altri due autonomisti avvenuti sempre a Fiume: Nevio Skull e Mario Blasich. A ricorrere contro la sentenza di primo grado erano stati la
procura generale e lo stesso difensore dell' imputato. Quest'ultimo punta ad una assoluzione anche per l'uccisione di
Sincich. Ultimo di tre imputati ad essere rimasto in vita per alcuni delitti avvenuti negli anni Quaranta in concomitanza con le stragi di
autonomisti italiani in Dalmazia e Croazia da parte delle bande di Tito,
Piskulic, croato, è da tempo al centro di pronunce, pareri
e sentenze da parte dell'autorità giudiziaria italiana. Il rinvio a giudizio fu disposto nel 1998 dopo che la Cassazione aveva annullato
una precedente sentenza di non luogo a procedere basata sul presupposto che gli omicidi contestati agli imputati (oltre a Piskulic,
Ivan Motika e Avijanka Margitic) fossero avvenuti in territori già passati alla
Jugoslavia e, quindi, al di fuori della competenza della giustizia italiana.
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Aggiornamento del 6 novembre 2002: la difesa di Piskulic ricusa la corte.
(ANSA) - TRIESTE, 6 NOV - L' avvocato Livio Bernot, difensore di Oskar Piskulic, imputato davanti alla Corte d' Assise di Appello di Roma nel cosiddetto processo delle foibe, cavita' carsiche nelle quali morirono, alla fine della seconda guerra mondiale, migliaia di persone, ha reso noto di avere presentato istanza di ricusazione nei confronti della Corte.
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Aggiornamento del 28 marzo 2003: La Cassazione respinge l'istanza di ricusazione.
ROMA - Resta affidato ai giudici della Corte di Assise di Roma il processo a Piskulic Oscar, il croato accusato di omicidio nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe. Lo ha deciso la Cassazione che ha respinto l'istanza con la quale il difensore dell'imputato, sulla base della legge Cirami, aveva ricusato i giudici, ritenendo che "abbiano manifestato indebitamente il convincimento sui fatti in oggetto". Piskulic Oscar deve rispondere in appello della morte di un autonomista italiano, Sergio Sinich, avvenuta a Fiume nel 1944. In primo grado Piskulic era stato assolto dall'accusa di aver ucciso altri due italiani.
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Aggiornamento del 16 aprile 2003: la Corte d'assise d'appello impedisce di processare Piskulic.
Una beffa per quei 10mila italiani fatti uccidere da Tito. Perché un difetto di giurisdizione ha cancellato di colpo quasi 60 anni di denunce, ricerche e testimonianze. La corte d'assise d'appello di Roma ha negato all'Italia la possibilità di processare
Oskar Piskulic, il cittadino croato di 80 anni accusato di aver ucciso a Fiume, nel
1944,l'autonomista italiano Sergio Sincich. Per i giudici romani, titolari dell'inchiesta sulle foibe, la competenza italiana è decaduta in quanto l'omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo. Le motivazioni della sentenza saranno pubblicate tra 30 giorni, ma la decisione della Corte si rifà al
precedente giudizio del 13 novembre '97 che aveva dichiarato l'incompetenza italiana a giudicare sui fatti. Piskulic, ritenuto dall'accusa il capo dell'Ozna, la polizia politica jugoslava, era stato rinviato a giudizio nel '98 sulla base delle denunce dei familiari delle vittime. Quell'anno, infatti, la Cassazione, annullando una precedente sentenza di non luogo a procedere, aveva affidato ai tribunali italiani la titolarità a giudicare sui fatti. Gli accertamenti riguardarono gli omicidi di Nevio Skull, Mario Blasich e Sergio Sincich, autonomisti italiani che operavano in Dalmazia e Croazia negli anni '40. L' 11 ottobre 2001 la sentenza di primo
grado concesse l'amnistia a Piskulic (reato politico) per l'omicidio Sincich, assolvendolo per gli altri due delitti.
Una decisione contestata dal pm dell'epoca che aveva chiesto per il presunto capo dell'Ozna la condanna per concorso in omicidio plurimo continuato e aggravato. Per l'accusa, infatti, i delitti erano animati da sentimenti di vendetta e di rappresaglia figli dell'odio etnico contro gli italiani. Da qui l'impugnazione della sentenza e il ricorso in appello dove il sostituto procuratore generale,
Giovanni Malerba, aveva chiesto l'ergastolo per Piskulic.
Contro la pronuncia della Corte si è espresso il deputato di An Roberto Menia: "Il difetto di giurisdizione grida vendetta. Appare sconcertante affermare che i fatti non sarebbero avvenuti in territorio italiano, posto che Fiume continuò a far parte dell'Italia fino al Trattato di pace del 10 febbraio '47 e che gli omicidi furono commessi a danno di italiani". Soddisfatta la difesa: "La pronuncia del difetto di giurisdizione annulla ogni possibilità di addebitare qualsiasi tipo di responsabilità penale a
Piskulic". Ma la vicenda non è chiusa. L'avvocato Sinagra, legale di parte civile, ricorrerà in Cassazione.
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Articolo riassuntivo dell'intera vicenda (tratto da "Libero" del 12 febbraio 2004).
ROMA - Si fa presto a definirla una storia infinita. Gli esuli istriani la ritengono la vergogna nella vergogna. E quella del mancato processo ai responsabili delle foibe, un processo che non si è fatto. Sul piano delle condanne penali non avrebbe prodotto tanti risultati, ma avrebbe dato una verità giuridica al genocidio contro oltre quindicimila italiani.
Il 16 aprile del 2003, meno di un anno fa, la Corte d' Assise d' Appello di Roma ha messo la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria che riguardava l'ultimo presunto responsabile ancora vivente. Per i giudici romani la competenza italiana è decaduta in quanto l'omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo. Una decisione che ha ricalcato un'altra del 1997. Ora tutto è aggrappato all'esile filo del ricorso in Cassazione, la cui decisione verrà resa nota il 20 marzo.
La complessa vicenda giudiziaria era entrata nel vivo nel maggio del 1996 quando il p.m. presso il Tribunale di Roma,
Giuseppe Pititto, chiese nei confronti dei cittadini croati
Oskar Piskulic e Ivan Motika, indagati per l'uccisione di migliaia di cittadini italiani in Istria e Dalmazia, tra il 1943 ed il 1947, la misura cautelare della custodia in carcere. L' inchiesta
di Pititto, magistrato coraggioso che aveva sfidato un santuario inviolabile, era partita nel 1994, a seguito di una circostanziata denuncia dell'avvocato Augusto Sinagra, che aveva raccolto testimonianze dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti.
Il magistrato motivava una richiesta così severa, nonostante fosse trascorso tanto tempo, col fatto che migliaia di persone fossero state uccise non in nome di un ideale o per ragioni di guerra contro il nemico, ma solo perché erano cittadini italiani. E questo faceva configurare il reato di genocidio, perseguito dalla legge italiana.
Oskar Piskulic, soprannominato "Zuti" (il giallo), fu dal 1943 a11947 il capo della temuta Ozna, la polizia segreta jugoslava a Fiume. L' avvocato Augusto Sinagra accusava proprio Piskulic e altri funzionari dell'Ozna. Alla Procura di Roma furono consegnati 553 nomi di connazionali uccisi o scomparsi nel capoluogo quarnerino e dintorni, dal 3 maggio alla fine del1945.
Ivan Motika fu il presidente, invece, del "Tribunale del
popolo" che decideva il destino degli italiani. Per comprendere il suo ruolo vale la pena leggere alcuni stralci della deposizione di Leo Marzini alla Procura di Trieste. "Il castello di Pisino era diventato in quei giorni prigione e quartier generale dei partigiani di Tito, il cui luogotenente (...) era tale
Ivan Motika; nel castello si svolgevano i cosiddetti "processi", presieduti dallo stesso
Motika, che sentenziava a decine o centinaia le condanne a morte degli italiani".Il 30 ottobre i resti dei due congiunti (padre e zio dell'estensore di questa testimonianza) furono riportati alla luce da una cava di bauxite a Villa Bassotti. Erano nudi, le mani legate con il filo spinato. Ai loro corpi erano stati tagliati i genitali e cavati gli occhi. In quel luogo si ricuperarono altre 23 salme". Oltre ai due c'era una terza persona inquisita, una donna, Avijanka Margitic.
Il g.i.p. non concesse l'arresto, in considerazione dell'età degli inquisiti (Motika
morirà poco dopo). E sulle prime si ritenne che non fosse possibile celebrare questo stesso processo perché i luoghi dove erano avvenuti i fatti, ora, erano in territorio straniero. Ma
Pititto non volle demordere, ricorse in Cassazione, ottenendo il riconoscimento delle sue tesi e il 5 maggio del 2000 cominciò il dibattimento, non per genocidio (questo tipo di reato non venne ritenuto sussistente), ma per omicidio plurimo dei leader autonomisti fiumani Nevio Skull, Mario Blasich e Giovanni Sincich.
In primo grado si concluse con l'assoluzione di Piskulic
per l'omicidio di Skull e Blasich, mentre per l'assassinio di Giovanni Sincich venne riconosciuta l'amnistia. In appello, invece, tra rinvii di udienze e le solite difficoltà burocratiche della giustizia italiana, si era giunti, nell' ottobre del 2002, alla richiesta di ergastolo per Piskulic formulata dal procuratore generate Giovanni Malerba. I difensori del croato erano anche ricorsi alla famosa legge Cirami, quella sul legittimo sospetto, ricusando la Corte, istanza non accolta dalla Cassazione. Quindi, nell'aprile dello scorso anno, l'ultima decisione, che, sentenziando quello che in gergo tecnico si chiama "difetto di giurisdizione", chiuse il processo. Le motivazioni furono rese note a maggio e riguardavano la cessata giurisdizione italiana sui luoghi interessati. Una scelta, forse, tecnicamente fondata.
Questa è la cronistoria giuridica. Tuttavia, appare evidente che questo processo era un processo scomodo, al quale sono stati frapposti mille ostacoli. E soprattutto un processo sul quale i media hanno steso una coltre di silenzio. Se il problema giuridico è quello della competenza territoriale, perché l'Italia non pretende dalla Croazia, paese che aspira ad aderire all'Unione Europea, di processare i responsabili di allora? Questa domanda come altre resterà senza risposte.
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Indiscrezioni raccolte dai giornalisti di "Libero": la Cassazione riaprirà il processo sulle foibe (tratto da "Libero" del 5 marzo 2004).
ROMA - La Corte di Cassazione riapre il processo sulle foibe. Questa è l'indiscrezione che trapela dal "Palazzaccio", anche se la decisione verrà formalizzata il prossimo 20 marzo. In termini tecnici la Prima sezione penale della Suprema Corte non dovrebbe convalidare la decisione con la quale la Corte di Assise di Appello di Roma aveva pronunciato la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana" nei confronti di Oscar Piskulic, l'ottantenne croato che, nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe era stato processato con l'accusa di aver ucciso a Fiume, nel 1944, l'attivista italiano Giuseppe Sincich.
La tragedia delle foibe proprio in questi giorni ha vissuto un altro momento significativo: l'altro ieri la Commissione affari costituzionali del Senato ha approvato il testo di legge, già passato alla Camera, con il quale si istituisce una Commissione parlamentare d'inchiesta sulle foibe. Martedì prossimo, sempre a palazzo Madama, il provvedimento approderà in aula per la discussione generale e la votazione. La previsione è che la legge passi e, quindi, si proceda alla formazione della relativa Commissione d'inchiesta. "Dopo anni di silenzio storico", afferma il relatore del provvedimento, il senatore di Alleanza nazionale Luciano Magnalbò, "ci è stata restituita la verità storica sulle foibe. Ma è una verità ancora incompleta rispetto alle proporzioni della tragedia, sulla quale è bene andare avanti".
Tuttavia, è la lunga e tortuosa vicenda giudiziaria quella che non riesce ad approdare a un risultato. Il 16 aprile del 2003, meno di un anno fa, la Corte d'Assise d'Appello di Roma aveva chiuso il procedimento nei confronti dell'ultimo presunto responsabile ancora vivente. Per i giudici romani la competenza italiana è decaduta in quanto
l' omicidio è stato compiuto in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo, per questo avevano dichiarato quella che si definisce la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana". Di tutta l'atroce vicenda delle foibe, trascorsi oltre cinquant'anni, era rimasta in piedi l'accusa per l'uccisione di tre autonomisti italiani di Fiume: Nevio Skull, Mario Blàsich e Giuseppe Sincich. Imputato principale,
Oscar Piskulic, soprannominato "Zuti" (il giallo), che fu dal 1943 al 1947, con il grado di maggiore, il capo della temuta Ozna, la polizia segreta jugoslava a Fiume. Le tre vittime non erano fascisti contro i quali c'erano risentimenti e conti da regolare a fine guerra, tutt'altro. La sentenza della Prima Corte d'Assise di Roma li definisce "limpide figure di antifascisti perseguitati dal regime di Mussolini".
I fatti contestati a Piskulic furono commessi tra il 3 e il 4 maggio del 1945. L' Ozna era la polizia segreta di
Tito, la sua sigla sta per Odjeljenia Bastite Naroda, "Organizzazione per la difesa della nazione". Nella sentenza di primo grado si afferma che " l'Ozna non poteva essere equiparata alle forze armate", ma ad essa fu "affidato il ruolo decisivo nell'epurazione ...". Non basta. Scrivono ancora i giudici: "L'Ozna, polizia politica segreta, era la longa manus" del Comitato centrale del Partito comunista di ispirazione titina. "Era portata", si legge, "a interpretare tale mandato nella maniera più radicale, provvedendo ad esempio ad un gran numero di liquidazioni sul posto". Il
maresciallo Joseph Tito in un discorso ufficiale aveva esortato i suoi agenti: "Se l'Ozna mette il terrore nelle ossa dei nostri nemici, questo va a tutto vantaggio del nostro popolo".
L' 11 ottobre 2001 venne pronunciata la sentenza di primo grado (presidente Francesco Amato).
Piskulic venne assolto, per non aver commesso il fatto, in relazione agli omicidi Blasich e Skull, mentre per l'omicidio di
Giuseppe Sincich il reato venne dichiarato estinto per una vecchia amnistia del 1959. Ma nella sentenza
Oskar Piskulic viene indicato come "il responsabile diretto dell'omicidio di Giuseppe Sincich". Non solo, nella sentenza scrive anche: "Va di conseguenza affermata la responsabilità di Piskulic per l'uccisione di Giuseppe Sincich, uccisione che trae la sua causale ultima dal rifiuto opposto dall'esponente autonomista di appoggiare le mire annessionistiche degli jugoslavi su Fiume". E ancora, a pagina 58, "la sua eliminazione rientrava in un preciso disegno ed era stata sinistramente preannunciata dalle minacce formulate dall'imputato".
Importante, infine, un altro passaggio del dispositivo dei giudici, quello richiamato a pagina 15, dove escludendo la possibilità per l'imputato di richiamare lo stato di guerra, si richiama la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che escluse lo stato di guerra per le SS tedesche, in quanto avevano compiti di persecuzione razziale e repressione. L' Ozna di Tito si è mossa allo stesso modo ed è pari alle famigerate formazioni naziste di Himmler.
Se il primo grado si era concluso con l'applicazione di una vecchia amnistia ma con il riconoscimento nei fatti delle responsabilità, in secondo grado, da parte della Prima Corte di Assise di Appello, c'è stata la pronuncia di cessata giurisdizione. In altre parole, dove è avvenuto il fatto non c'è più la competenza dello Stato italiano. Il procuratore generale aveva chiesto la condanna all'ergastolo.
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Aggiornamento del 18 aprile 2004: per la Cassazione: "l'Italia non può giudicare Piskulic".
L'Italia non ha titolo, per difetto di giurisdizione, a giudicare Oskar Piskulic, il cittadino croato di 82 anni che, nell'ambito dell'inchiesta sulle foibe, era stato accusato di aver ucciso a Fiume, nel 1944, l' attivista italiano Giuseppe Sincich. La prima Sezione della Corte di Cassazione - a quanto si è saputo dal legale di Piskulic, Livio Bernot del Foro di Gorizia - ha rigettato ieri il ricorso presentato dalla parte civile contro la sentenza della Corte di Assise d' Appello di Roma, che il 15 aprile 2003 aveva pronunciato la "cessata giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana" nei confronti del cittadino croato.
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Archiviata
l'inchiesta su 837 morti nelle foibe (tratto da "Il Gazzettino"
dell'1/07/2005)
Nei
16 faldoni dell'indagine cominciata a Padova non ci sarebbero elementi per
incriminare il titino Pregelj.
Non ci sono elementi idonei per portare davanti a un giudice l'ex commissario
politico dell'esercito partigiano jugoslavo Franc
Pregelj, ora ottantaseienne cittadino sloveno, con l'accusa dell'omicidio di
837 cittadini e militari italiani scomparsi nelle foibe a Gorizia fra il 14
maggio e il 15 giugno 1945: per questo, accogliendo la richiesta del pm
Massimiliano Serpi, il gup di Bologna Pasquale Sibilia ha archiviato
l'inchiesta.
Fra
i 16 faldoni di un'indagine iniziata nel 1997 dalla Procura militare di Padova e
i 12 contenitori con gli atti sulle vittime, la Procura emiliana non ha trovato
elementi in grado di dimostrare la responsabilità nella catena di comando
jugoslava di Pregelj,
allora comandante «Boro»: di certo, fu una personalità di spicco, ma secondo
il pm non c'è alcun elemento idoneo a dimostrare che fu sua la responsabilità
della deportazione e dell'assassinio delle vittime. L'uomo, con rogatoria
internazionale, è stato anche sentito dalle autorità slovene, ma ha spiegato
che, in quel periodo, era il segretario del partito comunista sloveno a Gorizia.
Un'altra rogatoria fu inoltrata per conoscere con precisione la catena di
comando delle forze militari jugoslave, ma non è mai arrivata risposta.
La richiesta di archiviazione del pm Serpi è stata vistata anche dal
Procuratore capo Enrico Di Nicola. A sessanta anni di distanza, l'indagine è
stata ovviamente complessa: con tutti gli eventuali testimoni morti e la
versione dei fatti arrivate solo de relato o affidata da resoconti
dattiloscritti in clandestinità. Proprio in alcuni di questi si fa riferimento
a un certo comandante «Boro», ma ci sono pure versione che indicano la stessa
persona come alla base di alcune liberazioni di prigionieri detenuti in campi di
concentramento.
L'inchiesta, scattata dalla denuncia di associazioni e centri che si occupavano
delle foibe, era arrivata dalla Procura militare di Padova, dove parevano essere
stati acquisiti risultati che sembravano preludere a una richiesta di rinvio a
giudizio per Pregelj: una eccezione della difesa, accolta dalla Procura generale
della Cassazione, aveva però portato il fascicolo alla giustizia ordinaria.
Prima a Gorizia, ma visto che una delle vittime era padre di un magistrato che
esercita lì, gli atti furono trasmessi ai colleghi bolognesi (competenti ad
indagare quando sono coinvolti magistrati del Friuli Venezia Giulia). E la
singola posizione si è portata dietro tutto il resto del fascicolo, visto che
l'indagato doveva rispondere degli stessi fatti.
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Altro materiale utile.
L'avvocato Randazzo, penalista, racconta dei tanti privilegi di cui godono gli assassini comunisti di Tito.
Intervista
all'Avv. Randazzo: “Ecco perché il boia delle foibe prende la pensione dallo
Stato italiano”.
di
Ruggiero Capone
“La giustizia è come
una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la
tela e restano liberi”, questa frase di Solone (fondatore della democrazia
ateniese, arconte che nel 594-593 avviò riforme, e primo poeta ad usare la
lingua attica pregna d’omerismi) è stata scelta dall’avvocato Luciano
Randazzo perché sintesi di quanto avverrebbe nelle procure italiane ed in ogni
palazzo pubblico del potere. Così Randazzo (vice segretario politico di Italia
Moderata) ha tenuto nel suo studio una conferenza stampa, per acclarare che sono
stati archiviati gli esposti presentati contro di lui da Oskar Piskulic (tra i
maggiori autori del genocidio delle Foibe). L’opinione lo ha intervistato.
- Piskulic ed altri
autori di stragi impunite sono vivi e vegeti e trovano anche la forza di reagire
contro chi chiede che vengano processati. Cosa ha dato loro la sicurezza di
farla franca e di poter anche attaccare chi denuncia il loro operato?
Per
60 lungi anni hanno goduto di protezioni politiche italiana. E questo ha dato a
Piskulic la sicumera sufficiente a pensare di poter chiedere all’ ordine degli
avvocati di Roma misure punitive contro di me e l’avvocato Augusto Sinagra. E
perché avremmo, secondo il partigiano titino Piskulic, vilipeso la Repubblica
ed il governo italiano difendendo le vittime delle Foibe nell’udienza
preliminare, tenutasi il 15 marzo 2000 innanzi ai giudici del tribunale di Roma
Roberto Reali e Giuseppe Petitto. Di fatto Piskulic ed i suoi sodali sono
assurti, in forza di certa propaganda comunista, ad eroi ed intoccabili, e non
hanno sopportato che avessimo chiesto la loro incriminazione per il genocidio 30
mila istriani e per il conseguente esodo di oltre 300 mila italiani dalmati.
Addirittura certi partiti politici e certe sigle sindacali li hanno spacciati
per eroi della resistenza.
- Che intende dire?
Che
ai capi partigiani titini di nazionalità slava l’Italia paga laute pensioni,
in alcuni casi sono corrisposte mensilmente e procapite pensioni di oltre 3000
euro, perché alcuni di loro sono stati spacciati come alti dirigenti in
pensione d’un noto sindacato italiano. Piskulic la percepisce ancora lui
personalmente, ma nei casi di decesso c’è stata una reversibilità della
stessa a favore di giovani donne jugoslave sposatesi con gli infoibatori negli
anni ’90.
- E l’ordine degli
avvocati come s’è comportato?
Ha
archiviato il procedimento a carico mio e dell’avvocato Sinagra, e perché i
consiglieri dell’ordine hanno ben compreso quanto fosse fuori luogo l’accusa
mossa dall’infoibatore. A quest’ultimo, tra l’altro, lo stato italiano ha
pagato persino la difesa. Piskulic non è un caso isolato, negli ultimi anni non
pochi brigatisti hanno gabbato lo stato italiano.
- E le persone indifese
che fine fanno?
La
signora Sabrina Pietrolongo è stata messa sotto i riflettori della trasmissione
televisiva “Un giorno in pretura”, edizione dell’ 11 marzo 2004, ed il
Garante per la protezione dei dati personali, in data 7 luglio 2005, ha
censurato il programma di Rai Tre. Quindi ha intimato che le immagini relative
alla mia assistita non siano nuovamente mandate in onda e, poi, ha inviato il
provvedimento al Consiglio regionale e nazionale dell’Ordine dei giornalisti,
perché vengano assunti provvedimenti contro il conduttore e gli autori. Questi
ultimi hanno strumentalizzato il legame affettivo che c’era stato tra la mia
cliente ed un imputato d’omicidio. Credo che in nessuna nazione civile sia
consentito quest’uso spregiudicato della professione, e per dappiù da un
canale pubblico.
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"La magistratura croata indaga sulle foibe" (articolo tratto da "Il Piccolo" del 20/03/'04).
Speleologi in azione in Cicceria: resti umani trovati a Hribce sono stati
mandati all'Istituto di medicina legale.Alla base della decisione la denuncia di un cittadino croato che vuol
conoscere la fine del padre, che è stata tenuta in un cassetto per cinque anni.
POLA
Terstenico (Trstenik), nel cuore dell’aspra e inospitale Ciceria, in Istria:
auto della polizia, agenti della Criminalpol e delle forze speciali, uomini con
il caschetto munito di torcia. Una quarantina di persone, tra cui si notano
diversi civili, tutti affacendati intorno all’entrata di una grotta. Una
grotta? No, una foiba in cui dovrebbero giacere da una sessantina d’anni ossa
umane, testimonianza di lontane tragedie di cui sarebbero stati vittime gli
italiani.
Andrea Marsanich
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Articolo tratto dal "Gazzettino di Padova" del 26/02/'02.
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Pititto: un Pubblico Ministero coraggioso.
Premessa.
E' forse
l'inchiesta più ostacolata e osteggiata nella storia giudiziaria italiana. Una
pagina vergognosa che resta di monito alle generazioni future. E che dimostra
come sia quasi impossibile e soprattutto pericoloso, in Italia, aprire, condurre
e cercare di portare a termine, indagini e inchieste sgradite all'establishment
politico di sinistra. Era il 1996 quando l'allora procuratore di Roma, Michele
Coiro, consegnò nelle mani del p.m. Giuseppe Pititto, appena arrivato alla
Procura di Roma, il fascicolo dell'inchiesta sulle foibe che il collega
Gianfranco Mantelli aveva aperto dopo la denuncia dell'avvocato Sinagra.
L'intervista.
- Dottor
Pititto, quand'è che iniziò a capire che la sua inchiesta avrebbe avuto vita
difficile?
Quasi subito, non
appena ho iniziato a compiere i primi atti si sono immediatamente prospettate le
prime difficoltà. Comprendere che una inchiesta di questo genere potesse avere
delle implicazioni, per così dire di natura politica, è stato contestuale alla
presa di visione degli atti.
- Lei forse
immaginava che questo le avrebbe procurato qualche grana.
Era immaginabile
che accertare la verità su questi fatti potesse essere motivo di soddisfazione
per i più e motivo, invece, di insoddisfazione e di rammarico per altri. Ma non
mi preoccupai.
- Cosa le
disse il procuratore Coiro quando le affidò questa inchiesta?
Mi chiese
ovviamente di andare a fondo e di cercare chi fossero i responsabili. E mi
sostenne poi nelle argomentazioni che io andai a portare al Procuratore generale
il quale, invece, aveva dei dubbi sulla mia competenza.
- Che
perplessità aveva il Pg?
Mi chiese in base
a quali elementi io mi ritenessi competente a svolgere questa inchiesta e
sostenne che, a suo avviso invece, era competente il procuratore della
Repubblica di Trieste.
- L'intervento
del Procuratore generale per chiedere delucidazioni in merito è una costante di
tutte le inchieste?
Per quanto mi
riguarda fu il primo e unico caso.
- Cosa disse
al Pg?
Spiegai le mie
ragioni. Per la verità più di una volta. Alla fine dovetti anche Interpellare
il procuratore della Repubblica di Trieste. e, per iscritto, gli chiesi se
condividesse la mia opinione sul fatto che il competente ero io. Il collega mi
rispose affermativamente. Quindi, a questo punto la questione si chiuse.
- Quante volte
fu costretto ad andare dal Procuratore generale?
Un paio dl volte.
- Proseguì
così con l'inchiesta?
Si, anche se vi
erano, naturalmente, delle difficoltà di natura oggettiva. Si andava ad
indagare su fatti che risalivano ad oltre mezzo secolo prima. E natualmente
fatti di questo genere si possono accertare o attraverso testimoni oppure
attraverso documenti.
- Documenti
lei ne aveva a disposizione?
Sul piano storico
ce ne sono tantissimi. Ma quelli utili sui piano giudiziario, cioè per
individuare chi fossero i responsabili di questo o quell'omicidio, erano ben
pochi. Quanto ai testimoni non ve ne potevano essere molti. Tuttavia riuscimmo,
attraverso la collaborazione della polizia giudIziaria, in particolare della
Digos di Trieste, a raccogliere testimonianze e ad acquisire elementi che resero
possibile una richiesta di rinvio a giudizio nel gennaio del 97 a carico di tre
indagati, Motika Ivan, Piskulic
Oskar, e Avianka Margitti.
- Dal momento
in cui ci fu l'intervento dei Procuratore generale al momento in cui firmò la
richiesta di rinvio a giudizio ci furono altri problemi, lei riscontrò altre
pressioni, diciamo così, di carattere istituzionale?
No. Riscontrai,
invece, una totale indifferenza istituzionale rispetto alle minacce di morte che
mi giunsero da più parti e, soprattutto, rispetto alle dichiarazioni dei
ministri degli Esteri della Slovenia e della Croazia i quali dichiararono che io
stavo facendo una inchiesta per finalità politiche.
- I
ministri del governo italiano non intervennero per tutelarla?
Che io sappia
nessuno è intervenuto per dire che il pubblico ministero Pititto stava facendo
ciò che era obbligato a fare. Ci fu certamente questa indifferenza.
- E
arriviamo alla richiesta di rinvio a giudizio...
Si, nel gennaio
del 91, finalmente, formulai questa richiesta nella quale, in particolare,
segnalavo al gip, testualmente, le eccezionali esigenze di giustizia trattandosi
di crimini che risalgono ad oltre mezzo secolo fa e attesa l'età degli
indagati. Chiedevo, per questo, che l'udienza preliminare avesse luogo il più
presto possibile...
- Andò così?
Per la verità
no, perché all' udienza preliminare, il gup dichiarò il difetto di
giurisdizione dei giudice italiano. Disse, in sostanza, che il giudice italiano
non aveva giurisdizione a giudicare questi fatti perché i territori, su cui
questi fatti si erano verificati, erano stati successivamente ceduti ad altro
Stato.
- Quando
furono compiuti i fatti però i territori erano italiani?
Certamente. Ed io
infatti, a seguito di questa sentenza, dovetti fare il ricorso in Cassazione
denunciando anzitutto la abnormità del provvedimento del giudice, perché era
stato emesso a mio avviso in violazione delle nonne del codice di procedura
penale, e sostenendo, poi, che bisognava tener conto del momento in cui i fatti
si erano verificati. In quel momento i luoghi in cui i reati erano stati
commessi, erano sotto la sovranità dello Stato italiano.
- Cosa
accadde a quel punto?
La Cassazione
accolse il mio primo motivo di ricorso, cioè disse che il provvedimento era
abnorme perché era stato emesso in violazione delle norme che disciplinavano lo
svolgimento dell'udienza preliminare e, tra le righe, rilevò che la questione
della giurisdizione si poneva e le mie argomentazioni meritavano di essere
approfondite e valutate in maniera adeguata.
- Quindi,
in sostanza, diede torto al gip - mi sembra - Alberto Macchia.
Sì. La
Cassazione annullò infatti il provvedimento del giudice Macchia e rinviò gli
atti a me. Quindi, per la seconda volta, io formulai una richiesta di rinvio a
giudizio.
- Che
finisce sempre al giudice Macchia?
No, stavolta è
il giudice Tortora. Che accoglie la mia richiesta e dispone il rinvio a giudizio
degli imputati. Arriviamo così, finalmente, davanti alla Prima Corte d'Assise
di Roma per l'udienza del 7 gennaio del 1999.
- Finalmente
sta per partire il processo...
No, perché la
Corte di Assise rileva e ritiene che il giudice Tortora non avesse regolarmente
notificato l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare agli imputati e
quindi dichiara la nullità della notificazione e restituisce ancora una volta -
e siamo alla seconda volta - gli atti a me. Io formulo la terza richiesta di
rinvio a giudizio. Nel frattempo, però, due degli imputati, Motika e la Avianka
erano deceduti. E il processo finisce davanti ad un altro giudice, il dottor
Reali, che, finalmente, dispone il rinvio a giudizio dell' unico imputato
sopravvissuto, ossia del Piskulic.
- E
ora?
Attualmente
questo processo pende davanti alla Corte d'Assise.
- Lei che idea
si è fatto di questa difficoltà che sono state frapposte?
lo debbo rilevare
che se non ci fosse stata quella sentenza che dichiarava il difetto di
giurisdizione del giudice italiano, il processo sarebbe giunto a dibattimento
molto prima. Naturalmente questo ha comportato un maggiore impiego di tempo.
- Lei
parla di sorte come se fosse una serie di concatenazione, diciamo casuali,
invece, mi sembra di capire, ci sono state argomenta
lo rappresento i
fatti poi se questi fatti siano concatenati o meno è una valutazione che lascio
ad altri.
- Sinceramente
non si è mai vista un'inchiesta così travagliata.
Travagliata anche
per quello che direttamente mi ha riguardato. Per come è stata gestita la
questione attinente alla mia sicurezza a seguito delle minacce che ho ricevuto.
- Lei
ha avuto una scorta?
Per un certo
periodo sono stato tutelato. Però poi si è verificato un fatto quanto meno
strano.
- Cioè?
L'udienza in
Corte d'Assise era stata
fissata per il 7
gennaio del '99. Sussistevano rischi particolari per la mia incolumità e in
ragione di ciò io confidavo che, nonostante tutto, alla vigilia della
celebrazione del processo, le misure di sicurezza in atto sarebbero state
rafforzate.
- Cosa
che invece non accadde.
Non solo non
accadde ma, molto stranamente, il 31dicembre del 98, cioè sette giorni prima
dell' inizio del processo in Assise, cessò ogni misura di tutela a mio carico
perché, mi dissero, non correvo più alcun pericolo.
- Questo
sulla base di quale valutazione?
Non riesco ad
immaginarlo perché è veramente strano che, proprio nel momento
in cui il pericolo diveniva oggettivamente maggiore, lo si sia invece
potuto ritenere come cessato. lo andai a fare il processo in Assise privato
oramai di ogni tutela.
- Lei
ebbe poi altre minacce?
No, ma subii un
procedimento disciplinare per questa inchiesta.
- Cosa
accadde?
L'inchiesta sulle
foibe ha provocato, come si può immaginare, diverse reazioni. E ha indotto
alcuni parlamentari a presentare numerose interpellanze e interrogazioni. Alcune
di queste mi vennero trasmesse dall'allora procuratore della Repubblica, Coiro,
con la richiesta di unirle agli atti. Cosa che io feci.
- Coiro
glielo disse a voce?
No, lo scrisse.
C'è un documento in proposito. Bene, il 21 novembre del '97, in mattinata,
arrivò ad una persona della mia segreteria una telefonata in cui si diceva:
"pubblico ministero, dottor Pititto, messaggio: lasci perdere le foibe, non
si appelli altrimenti l'ammazziamo come un cane". Sostanzialmente mi si
diceva di non impugnare la sentenza del giudice che dichiarava non doversi
procedere per difetto di giurisdizione, altrimenti avrei fatto questa fine. Io
invece feci ricorso e le cose andarono come andarono. Comunque feci fare una
relazione di questa telefonata alla mia collaboratrice e la mandai al
procuratore della Repubblica.
- Il dottor
Coiro?
No, nel 97 era l'
attuale procuratore della Repubblica, il dottor Secchione. Ad ogni modo non
ottenni risposta. Però, incredibile a dirsi, lo stesso giorno ricevetti una
lettera del procuratore che mi chiedeva conto del perché io avessi inserito nel
fascicolo quelle interrogazioni.
- Il
procuratore sapeva che Coiro le aveva chiesto di inserire queste interpellanze
agli atti?
Risultava dal
fascicolo. Comunque per aver inserito questi atti, che mi erano stati trasmessi
proprio a tal fine, ho subito un procedimento disciplinare al Csm.
- Dove
ha potuto dimostrare, lettera del procuratore alla mano, che in effetti tutto
era in regola?
Infatti il Csm mi
ha assolto.
- Quanto
invece alle minacce ha mai più avuto risposta dal procuratore?
A seguito di
quella relazione?
- Ora,
comunque, il processo è finalmente in Corte d'Assise. Sarà soddisfatto?
Si, certo. Ma è
seguito da un altro pubblico ministero, non da me.
- Come
mai questa scelta?
Non è stata una
mia scelta, è stata un'istanza, accolta dal procuratore di Roma, del difensore
dell'imputato il quale ha chiesto la mia sostituzione poiché io avevo iniziato
una causa civile per diffamazione nei confronti dell'autrice e dall'editore di
un libro sulle foibe in cui venivano espressi giudizi che a mio avviso erano
offensivi della mia reputazione. E questo nonostante avessi scritto al Csm che
ero disposto a rinunciare al giudizio a condizione che mi si lasciasse
continuare a fare il pm. Ciò nonostante io sono stato, sostituito.
- Quindi
alla
Si .
- Qual è li
bilancio a distanza di tanti anni dall'inizio di quell' inchiesta?
Posso dire di
avere affrontato questa inchiesta tra difficoltà non lievi. Ma certamente il
bilancio è positivo. Non bisogna guardare a quelle che sono state le mie
vicende personali, anche le minacce e i pericoli che ho corso. L'importante,
invece, è che oggi si sia davanti alla Corte d'Assise. Ai giovani dico di
guardare ai risultati positivi per la società che si possono conseguire facendo
il proprio dovere anche tra difficoltà forti. Io ritengo che questa inchiesta
abbia contribuito - lo dico naturalmente senza alcuna presunzione sapendo che
era il lavoro che dovevo fare, nulla di più -
a illuminare una pagina tragica della nostra storia. Una pagina che è
stata sempre tenuta nascosta.
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Altra intervista a Pititto (di Simone Navarra).
La Giustizia, fatta di merito e scrupolosità, attenzione, a volte viene fermata per antipatia, voglia di rimozione. È il caso del magistrato Giuseppe Pititto nel processo che vede - o vedrà, o dovrebbe vedere - sul banco degli imputati il solo Oskar Piskulic, ma che dovrebbe accusare tutti coloro che per 55 anni non hanno indagato sui fatti delle foibe. Per primo sarebbe lo Stato italiano, i suoi troppi governi in tutto questo tempo, i professori di storia che scrivono i libri di testo facilmente dimentichi di quei luoghi e quelle date. Per ora il magistrato che per cinque anni ha provato a portare in aula questo pezzo di storia rischia di vedersi togliere l'inchiesta. Motivo? Il cittadino Giuseppe Pititto ha querelato - dunque in una causa civile - tal Claudia Cernigoi, autrice del libro "Operazione foibe a Trieste" in cui molte cose vengono messe in dubbio, a cominciare dall'operato del giudice Giuseppe Pititto. A difendere la Cernigoi è l'avvocato Livio Bernot, già difensore di Piskulic. Questo potrebbe ingenerare un conflitto, perciò provvedimento di revoca. Il magistrato precisa: "Oggi 27 giugno ho presentato il ricorso sull'illegittimità di quel provvedimento, se comunque non dovesse essere ammesso ho già detto: datemi il processo e vi darò la causa civile".
- In questo caso quanto è difficile fare il giudice?
Molto. A volte sembra che diventi un fatto eccezionale fare il proprio dovere. Per anni non s'è voluto fare niente. Quando abbiamo cominciato questo cammino nel 1995 non c'erano documenti ufficiali e abbiamo dovuto fare appelli attraverso i media per arrivare a delle testimonianze.
- E poi?
Poi nel 1997, quando presento la prima richiesta di rinvio a giudizio, mi si dice che i giudici italiani, visto che ormai quelle terre sono appartenenti a un altro paese, non possono decidere in merito. Perciò ricorro in Cassazione e i magistrati della suprema corte mi danno ragione. Si arriva alla prima udienza in corte d'Assise il 5 maggio del 2000 e finalmente viene fissata la data dell'inizio. Il 25 settembre.
-Proprio finalmente?
No, perché nel frattempo due dei tre imputati sono morti, e uno di questi - Ivan Motika - era il principale, visto che era un capo partigiano.
- Quale è il problema reale di fronte a percorsi di questo tipo? Così travagliati, quasi osteggiati da chi dovrebbe
aiutare?
Si sente una forte crisi di legalità, nella quale troppe volte ci si sente soli, senza riferimenti. E questo comunque non accade solo per questa vicenda, anche nel procedimento sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - di cui ho condotto tutte le indagini e che poi, prima di andare in dibattimento, mi è stato tolto - il percorso è stato simile.
-La politica non aiuta?
Le foibe sono un altro esempio di come la giustizia abbia precorso la politica, interessata il più delle volte a difendere o rappresentare i propri interessi e le proprie convenienze più che il desiderio e il sentimento delle
persone.
--- Fine ---