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 Recensione del libro "La dissoluzione del potere. Il partito comunista sloveno ed il processo di democratizzazione della repubblica" (tratta da "Il Piccolo dell'11/06/2007).

 Recensione del libro "Foibe e girotondi" di Alfredo Spadoni (tatto dal sito rievocare.it).

 Recensione del libro "Slovenia. Anche noi siamo morti per la Patria" (tratto dal sito ladysilvia.it) (10/11/2006).

 Recensione del libro "Trieste, dalle foibe alla linea Morgan (tratto dal "Corriere di Romagna" del 16/09/2006).

 Recensione del libro "Sopravvissuti e dimenticati" di Marco Girardo (tratto dal "Il Piccolo" dell' 11/01/2006).

 Recensione del libro di Giovanna Solari "Il dramma delle foibe (1943-1945)" (a cura di Pierluigi Sabatti).

 Recensione del libro di Gianni Oliva "Foibe. Le stragi negati degli italiani della Venezia Giulia e dell' Istria" (a cura di A.M. Shwarzenberg).

 Recensione del libro di Guido Rumici "Infoibati" (a cura di G. Dell'Oglio).

 Intervista a Guido Rumici (a cura di F. Guiglia).

 Recensione del libro di Nidia Cernecca "Foibe. Io accuso. Una sopravvissuta istriana trascina in Tribunale l'assassino di suo padre".

 Recensione del libro di Vincenzo Maria De Luca: "Foibe, una tragedia fatta di silenzi" (a cura di Marino Micich);

 Recensione del libro di Guido Rumici "Fratelli d'Istria".

"L'esodo" di Arrigho Petacco. Mondadori, 202 pagine, 15 €.   (link)

 Nicolò Luxardo De Franchi,  "Dietro gli scogli di Zara", prefazione di Diego De Castro. Libreria editrice Goriziana, pagine 141, € 16.  (link)

 

Da segnalare inoltre:

Titolo Autore - Casa editrice Anno Note
       
 "Foibe"  R. Pupo - R. Spazzali - B. Mondadori   2003   
Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste. G. Holzer  1946  
Prigioniero di Tito 1945-1946, un bersagliere nei campi di concentramento jugoslavi. N. Rossi    
Foibe. Il peso del passato. G. Valdevit 1997 Con saggi di Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Giampaolo Valdevit e Nevenka Troha.
Friuli e Venezia Giulia. Storia del '900. Libreria editrice goriziana 1997  
Guerra e dopoguerra al confine orientale d'Italia 1938-1956. Raul Pupo - Del Bianco 1999  
Foibe,un dibattito ancora aperto. R. Spazzali - Lega nazionale 1990  
L'Istria e le sue foibe. Luigi Papo - Settimo Sigillo 1999 Tesi del "genocidio nazionale".
Contro operazione foibe a Trieste. Giorgio Rustia 2000  
Operazione Foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica. Claudia Cernigoi 1997 Tesi negazioniste.
L'istria tradita. Luigi Papo - Settimo Sigillo 1999 Tesi del "genocidio nazionale".

 

 Un ulteriore elenco è disponibile cliccando sul seguente link:  http://www.leg.it/moderna/foibe.htm 

 

 

Recensione del libro "Slovenia" (tratto dal sito ladysilvia.it) (10/11/2006).

PRESENTATO A TRIESTE IL LIBRO DI AUTORI SLOVENI SUI MASSACRI DEL 1945 ad opera delle forze iugoslave/serbe del maresciallo Tito.

Una lunga marcia della morte.

Pagine di storia raccontate solo dopo 60 anni di silenzio: anche gli sloveni martiri delle foibe.


TRIESTE – Quante pagine di storia ancora ignoriamo perché mai scritte e raccontate? E quante di queste, seppur conosciute, vengono taciute per politiche d’opportunità? Può un eccidio di migliaia di persone attraversare ben 60 anni di colpevole silenzio storiografico per attendere di venire rivelato dal preciso benché amatoriale impegno di ricerca di una semplice associazione civile di volontari?
La storia solitamente la scrivono i vincitori che determinano il discrimine tra vittime e perseguitati. Ma a tanti decenni di distanza, così come il giornalista Giampaolo Pansa ha fatto per le esecuzioni dei fascisti o presunti tali del 1945 nell’Alta Italia, altre testimonianze si fanno strada. Spesso, nel corso della guerra e, purtroppo, negli anni successivi, le vendette incrociate sono state la regola, vittime e carnefici si sono scambiati i ruoli indipendentemente dalla sovranità sui territori e dalla politica, anche internazionale, del momento. Ecco che 35.000 persone – domobranci, collaborazionisti e famiglie al seguito – assassinate in Slovenia nel ‘45 nei modi più truci ed efferati (anche a mannaiate o con coltelli e maceti) dai partigiani titini, trovano ora testimonianza storica e un momento di pietà.

Erano colonne di sbandati e sconfitti in marcia verso le postazioni degli Alleati che venivano riconsegnati, dopo il tentativo di riparare in Austria, agli stessi partigiani. Solo ora, nel 2005, ritrovano la dignità del riconoscimento di un martirio subito pur senza poter ricevere una degna sepoltura – visto che impossibile sarebbe dare identità a resti umani rinvenuti nelle centinaia di fosse comuni disseminate in tutta la Slovenia. “Slovenia 1941-1948-1952. Anche noi siamo morti per la Patria – Tudi mi smo umrli za domovino” è il lavoro documentato, ora tradotto anche in italiano (mentre inizia anche la traduzione in lingua inglese) di quanto è emerso dalle indagini e dalle testimonianze raccolte dall’Associazione slovena per la Sistemazione dei Sepolcri tenuti nascosti durante il lavoro di mappatura dei “luoghi celati” dove trovarono orribile morte non solo ufficiali e sottoufficiali (presumibili prigionieri di guerra), ma anche famiglie intere di civili bollate come anticomuniste e, quindi, “traditori da liquidare”. Agghiaccianti i pochi passi letti e commentati da Fausto Biloslavo che, in una gremita sala della Lega Nazionale d’Istria Fiume Dalmazia di Trieste, ha presentato la traduzione italiana del libro succitato alla presenza di due dei quattro autori del volume, e di Guido Deconi, promotore della traduzione italiana e della pubblicazione dell'opera. La pulizia etnica – è stato detto durante la serata – di ispirazione ideologico-politica venne annunciata nel febbraio del ’43 (“…chi non dimostrerà interesse per il comunismo, verrà eliminato”) per raggiungere l’apice della ferocia nel maggio di due anni dopo: i prigionieri (soldati o civili che fossero, di svariate nazionalità) venivano, dopo la cattura, prima costretti spesso a insensati pellegrinaggi – i cosiddetti “percorsi della morte” – da un campo di prigionia all’altro, per poi, dopo aver vanamente sperato nella salvezza, finire uccisi nel più barbaro dei modi. Ai prigionieri tedeschi era riservato il compito di raccogliere nei boschi le membra delle vittime massacrate per poi finire comunque uccisi o buttati nelle fosse comuni loro stessi. Tanti i documenti, le foto e le testimonianze raccolte nel libro con lo scopo di dare almeno il riconoscimento del ricordo a quella che fino al 1989 veniva sotto voce chiamata la “generazione scomparsa”, ma di cui non era consentito parlare: troviamo così segnate su una mappa artigianale decine di fosse comuni risalenti al periodo della guerra (‘41-‘45), moltissime foibe e numerosissime fosse utilizzate nel primo dopoguerra, dal 1.mo maggio del ’45 in poi, fino, sembrerebbe, alla fine del ’49, anno in cui veniva varata la Costituzione jugoslava. L’invito conclusivo del padrone di casa, l’avv. Paolo Sardos Albertini, in qualità di Presidente del Comitato per le Onoranze agli Infoibati a Basovizza, a condividere con i cittadini d’oltreconfine le commemorazioni delle vittime italiane e slovene di una stessa strategia, quella del regime, sembra voler auspicare al recupero di una memoria a lungo e da più parti negata verso il riconoscimento della verità.

Duilio Pacifico Grazie a “Lega nazionale Trieste”

 

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Recensione del libro "Sopravvissuti e dimenticati" di Marco Girardo (tratto dal "Il Piccolo" dell' 11/01/2006).

Borovnica non è solo un puntino che galleggia nell’immensità delle carte geografiche. Non è il nome di un paese vicino a Lubiana, e basta. Da tempo è diventato uno dei simboli della follia umana. Dell’insensato orrore che si porta appresso ogni guerra, da qualunque parte la si combatta. Lì infatti, in un campo di concentramento, vennero internati dai soldati italiani moltissimi sloveni, tra il 1941 e il 1943. E quando i rapporti di forza cambiarono, i partigiani di Tito decisero di rinchiudervi i militari italiani. Soprattutto quelli arrestati tra Trieste e Gorizia.
Campi di concentramento, foibe, deportazioni. E un popolo, quello istriano, che quasi per intero decise di abbandonare la propria terra. Perché lì non era più possibile vivere.
Perché i partigiani jugoslavi, che pur avevano il merito di essere riusciti a ricacciare indietro le truppe del Terzo Reich e quelle fasciste, s’erano messi a eliminare gli italiani. Sistematicamente. E non solo i nostalgici del regime di Benito Mussolini.

Ferite mai rimarginate. Storie che in Italia, per troppo tempo, sono state coperte da un muro di silenzio. Da una disinformazione colpevole e di parte. Tanto che ancora oggi, se chiedete in giro che cosa sono le foibe e quanta gente ha abbandonato l’Istria dopo la seconda guerra mondiale, vi guarderanno con occhi interrogativi. Per fortuna, sempre più spesso, arrivano nelle librerie volumi come «Sopravvissuti e dimenticati». Lo ha scritto Marco Girardo, un giornalista originario di Ronchi dei Legionari, ma che vive e lavora a Milano. Verrà distribuito a partire dal 18 gennaio da Paoline Editoriale Libri (pagg. 156, euro 11).
Non è a caso se il libro, prima della prefazione scritta da Walter Veltroni, prima ancora che inizi il lungo viaggio nella memoria, schiera una cartina dell’Istria. Una mappa di quella regione com’è oggi, con i nomi sloveni: Umag, Rovinj, Pula, dove una volta c’erano Umago, Rovigno, Pola. Perché, troppo spesso, quando l’Italia parla del dramma dell’esodo non ricorda bene dove sia quella terra misteriosa che è un po’ più in là di Trieste. Ma che non è poi così lontana da considerarla dispersa nell’immenso «mondo dell’Est» che si estende fino agli Urali.
«Ora non è davvero più tempo di amnesie o di reticenze di alcun tipo - scrive Veltroni -: quella dell’esodo e quella delle foibe sono pagine vergognose della nostra storia, della storia di tutti gli italiani. I morti delle foibe appartengono alla sterminata schiera di vittime delle follie ideologiche, dell’intolleranza, delle pulizie etniche che hanno attraversato il Novecento e l’Europa, e di una capacità di odiare e di disprezzare di cui l’umanità, anche in questo nuovo secolo, non pare riuscire a liberarsi».
Follia, odio, disprezzo: sono parole che ricorrono spesso nel libro di Girardo. Nei boschi di Tarnova, mani ignote hanno sistemato vicino alla foiba grande un testo in lingua slovena che dice: «Eppure erano uomini, come me e te. Chi siete? Vivi, gettati nell’abisso, uccisi, assassinati a colpi di mazza? Qui non c’è croce, non c’è segno. Eppure, o uomo, al fondo vi sono ossa umane».
Girardo vuole riappropriarsi della dimensione umana della tragedia che si consumò in Istria tra il 1943 e il 1945. E negli anni successivi, quando gli italiani hanno continuato a morire, a scappare dalle proprie case, perché in quella terra non c’era più spazio per loro. Perché gli errori del fascismo venivano fatti pagare, con interessi salatissimi, ai padri di famiglia, ai vecchi, alle donne, perfino ai bambini.
Per guardare in faccia quella tragedia a lungo dimenticata, Girardo è andato a cercare i testimoni. Ha trascorso lunghe ore con Graziano Udovisi, l’unico uomo ancora in vita che possa raccontare cosa significa precipitare dentro una foiba. Trovarsi costretti a saltare nel vuoto, nel buio, per scoprirsi all’improvviso vivi. Circondati da cadaveri, ma vivi. In un tempo, in un mondo che per la vita umana sembrava non avere il minimo rispetto.
E, poi, Girardo è andato a cercare Piero Tarticchio, lo scrittore, il pittore. Il giornalista che ha diretto «L’Arena di Pola», e che ha dato vita a un foglio legato al ricordo del suo paese: «La gente di Gallesano». Lui, che da bambino ha visto sparire suo padre nella macchina tritasassi della «giustizia» jugoslava, senza mai capire il perché, ancora oggi dice: «Il profugo, il fuggiasco, se ne ha la possibilità, torna infine alla sua casa. L’esule no. In tasca sin dall’inizio aveva un biglietto di sola andata. Nell’Istria di oggi, quella reale, e non immaginata o rievocata, mi sentirò sempre un turista». E aggiunge: «Ci è stata negata la memoria, siamo stati dimenticati».
Ma Girardo è andato a parlare anche con Natasa Nemec, una studiosa di Nova Gorica, che da anni sta mettendo assieme la lista di tutte le persone morte nelle foibe. Italiane e slovene. Perché «un uomo ha il diritto che la sua morte non diventi materia di una nuova guerra sul piano delle contrapposizioni ideologiche».
Il libro di Girardo è proprio questo: un racconto lucido, obiettivo, documentato. Tessuto dalle voci di chi quegli anni terribili li ha vissuti. Un libro che non dà spazio a nuovi rancori. A contrapposizioni senza fine.

- Per maggiori info clicca sul seguente link, si aprirà una nuova pagina:

http://www.aidanews.it/articoli.asp?IDArticolo=5840 

 

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Recensione del libro di Giovanna Solari "Il dramma delle foibe (1943-1945)" (a cura di Pierluigi Sabatti).

Fiumi d’inchiostro sono stati sparsi in questi cinquant’anni sulle foibe: articoli di stampa a centinaia e decine e decine di saggi e di libri hanno affrontato la questione. Il risultato, stando a un sondaggio realizzato nel ’96 da Datamedia per Tg2 Dossier, è che il 72 per cento degli italiani non conosce il significato preciso della parola e il 42 per cento non associa nulla al termine foiba. Da questa sconfortante premessa parte il libro di Giovanna Solari «Il dramma delle foibe (1943-1945)», meritoriamente stampato dal Centro culturale «Gian Rinaldo Carli» dell’Unione degli Istriani. Il volume che l’autrice dedica al nonno, Giovanni Montonesi, ritrovato nella foiba di Vines il 26 ottobre 1943, è l’elaborazione della sua tesi di laurea in scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste. 
Nonostante la tragedia familiare, la Solari fa uno sforzo, riuscito, di obiettività nel trattare il delicato tema, forte del distacco, come spiega lei stessa, che può avere «chi non ha visto», perché è nato dopo. Il lavoro della Solari comincia con la ricostruzione degli avvenimenti, distinguendo quanto avvenuto nel ’43, quando si verificarono i primi episodi in Istria dopo l’8 settembre quando collassò l’autorità italiana e fino all’arrivo delle truppe naziste, da quanto accadde nel ’45, a guerra finita, sia in Istria, sia a Trieste e Gorizia. 
Successivamente presenta il dibattito che si è animato nel corso di questi cinquant’anni sulle foibe, esponendo le tesi che si sono confrontate, da quella della snazionalizzazione violenta a quella della reazione eccessiva al fascismo per arrivare al revisionismo  storiografico degli anni Ottanta e Novanta ricomprendendo pure le tesi negazioniste. 
Dopo l’ottimo libro di Guido Rumici, «Infoibati» (edito da Mursia), che espone la vicenda storica con un ampio corredo di documenti anche inediti di fonte jugoslava, il volume della Solari lo integra presentando in maniera approfondita gli orientamenti che gli storici hanno assunto via via nel corso del tempo ed emergono chiaramente i condizionamenti ora da destra ora da sinistra, per dirla con termini rozzi, subiti dalla ricerca. Con estrema accuratezza e precisione, che andrebbero suggeriti ad esempio a Gianni Oliva, autore del discutibile volume «Foibe - Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e  dell’Istria», edito da Mondadori, zeppo di intollerabili strafalcioni, l’autrice mette a confronto le varie tesi, da quella del genocidio etnico, sostenuta da storici e memorialisti degli anni Cinquanta come Tamaro, Pagnacco, Coceani, Rocchi e Papo, ma riprese in anni recenti, a quella dell’eccesso di reazione alle violenze fasciste (Giovanni Miccoli, Cristiana Colummi). Ampio spazio viene dato a Galliano Fogar per le sue ricerche indirizzate alla quantificazione delle vittime. Una delle «zone d’ombra», rileva la Solari in conclusione al volume, sulla quale troppo si è speculato e che sono state oggetto di pesanti strumentalizzazioni politiche, che riappaiono puntualmente alla vigilia di scadenze elettorali. E ampia è la panoramica dei lavori di storici dell’ultima generazione, quali Pupo, Valdevit, Spazzali, per citarne soltanto alcuni, che si distaccano dai due estremi, come del resto aveva fatto a suo tempo Elio Apih. Non mancano i riferimenti ai lavori di parte slovena, come quello apprezzabile per le sue aperture di Nevenka Trohar. Nonostante questa mole di contributi, scrive alla fine Giovanna Solari, i dubbi continueranno a esistere. Si continuerà a disquisire sulla reale entità degli eccidi, magari nelle aule giudiziarie, «a meno che non si avvii una riflessione critica sui fatti superando le chiusure e i rigidi schemi interpretativi che hanno a lungo caratterizzato il panorama storiografico e avendo ben chiaro quanto il passato incida ancora sul presente della tormentata comunità giuliana». La Solari questa riflessione l’ ha avviata con coraggio, intelligenza e serenità. 
Pierluigi Sabatti

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Recensione del libro di Gianni Oliva "Foibe. Le stragi negati degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria" (a cura di A.M. Shwarzenberg).

Da quasi sessant'anni le migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia, trucidate dalle truppe titine, attendono ancora di avere giustizia e, soprattutto, di venire ricordate con la massima dignità e la commossa deferenza dovute a chi, come loro, è stato vittima innocente della capillare e sistematica volontà sterminatrice di un regime dittatoriale sanguinario e prevaricatore. Erano italiani e moltissimi sono morti per il solo fatto di esserlo e di non avere voluto ripudiare quella "italianità" a cui tenevano più della loro stessa vita, eppure l'Italia li ha dimenticati, relegandoli in un oltraggioso oblio che è durato più di mezzo secolo: è una pagina dolorosa della nostra storia che si è tentato troppo a lungo di rimuovere perché mal si conciliava con la visione del secondo conflitto mondiale imposta da coloro che si erano seduti al tavolo dei vincitori.
E dato che la storia, si sa, è scritta da questi ultimi, si è preferito distinguere i "morti buoni" da quelli "cattivi" perché capaci di rivelare le pecche di un regime, quello comunista di Tito, che avrebbero messo in discussione quella visione storica unilaterale ed acritica che ci è stata inculcata per oltre mezzo secolo. E così, come vittime di quella grande tragedia che è stata la Seconda Guerra Mondiale, sono stati ricordati i soldati italiani caduti in Russia e nei Balcani, i combattenti morti nella guerra di liberazione, ma non gli italiani di Fiume, di Pola o di Zara, dimenticati o addirittura rinnegati da una Patria la cui bandiera un tempo sventolava in quelle belle terre perdute. A questo doloroso capitolo della nostra storia Gianni Oliva vuole dedicare il proprio volume "Foibe". Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria, edito da Mondadori, con l'intenzione di ricostruire, attraverso una puntuale documentazione d'archivio e bibliografica, i cupi anni dell'occupazione titina e degli eccidi che sono stati compiuti nei confronti di chiunque fosse stato sospettato di essere contrario all'annessione alla Jugoslavia, indipendentemente dall'appartenenza a meno al pregresso regime. Merito dell'Autore è sicuramente quello di aver contribuito alla rottura di quella sorta di silenzio di Stato che era stato pesantemente calato dall'alto sulle migliaia di vittime inghiottite dalle foibe, ossia dalle cavità carsiche naturali del terreno calcareo profonde anche centinaia di metri. Uomini, donne, vecchie e bambini - non prima di essere stati brutalmente torturati e seviziati - venivano legati tra loro con del filo spinato intorno ai polsi e gettati nelle foibe: non occorreva che fossero già morti, essendo sufficiente assassinare il primo della fila che, cadendo, avrebbe portato giù con sé nella profonda gola sottostante anche tutti gli altri; molti dei quali ancora vivi, tanto una volta caduti sarebbero morti di lì a breve. Il volume esordisce la propria ricostruzione storica con i terribili quaranta giorni vissuti dalla città di Trieste. È il maggio del 1945, e se le città del Nord Italia sono state liberate come il Piemonte, la Valle d'Aosta, la Liguria, la Lombardia, il Veneto e l'Emilia, Trieste al contrario vive la tragedia di un'altra guerra dichiarata dalle formazioni partigiane jugoslave che per prime sono arrivate nella Venezia Giulia, occupando tutti gli edifici pubblici, i municipi, le scuole, le caserme dei carabinieri, i cinema, i magazzini da dove innalzavano le bandiere con la stella rossa e le scritte "Trsl le nas" ("Trieste è nostra"). L'occupazione dei partigiani di Tito - scrive l'Autore - si accompagnava al presentimento di una tragedia nuova, ed ecco infatti che iniziarono i fermi, le perquisizioni nelle case, gli interrogatori, gli incarceramenti, i sequestri dei beni e soprattutto le "scomparse": molti triestini uscivano per comprare il pane o le sigarette e non tornavano più a casa, altri venivano prelevati direttamente nella propria abitazione e non se ne sapeva più nulla, mentre per i parenti iniziava una "odissea tormentata" - per usare le stesse parole dell'Autore - fatta di penose e strazianti ricerche. Oliva racconta la cupa tragedia di quegli anni attingendo alle testimonianze dei miracolati superstiti degli eccidi titini come, ad esempio, quella di Giovanni Radetticchio, originario di Sisiano, salvatosi miracolosamente da una foiba perché il proiettile sparato contro di lui, anziché colpirlo direttamente, aveva spezzato il filo di ferro che lo teneva legato ad una grossa pietra consentendogli così di risalire alla luce e salvarsi.Da Basovizza, una delle foibe più grandi e quindi scenario macabro della maggior parte degli eccidi compiuti, a Borovnica uno dei tanti campi di concentramento e " di sterminio" allestiti dai soldati con la stella rossa, l'Autore ripercorre le tappe dolorose che hanno condotto una moltitudine di vittime innocenti ad essere "sacrificate" dal nuovo regime nella primavera del '45. Parlo di "moltitudine" perché ancora oggi non è possibile fornire una stima precisa a causa sia della preoccupazione dei carnefici di occultare le prove sia dell'inaccessibilità di molti archivi jugoslavi: è comunque certo che si trattava di diverse migliaia di vittime che arrivano ad essere addirittura 16.500 secondo quanto si legge nell'"Albo d'Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell'ultimo conflitto mondiale" (28 edizione). Ma accanto agli eccidi compiuti a Trieste e nella Venezia Giulia nel maggio del 1945, l'Autore ricorda anche le foibe istriane dell'autunno 1943: nell'anarchia e nella totale confusione verificatasi dopo 1'8 settembre le organizzatissime formazioni partigiane slave, aiutate anche dalla spontanea insurrezione dei contadini croati, si impadronivano del territorio, realizzando una eliminazione sistematica e brutale di diverse centinaia di italiani bollati come "nemici del popolo" e fucilati dopo processi farsa o, più sbrigativamente, fatti inghiottire dalle voragini carsiche. Le torture e le violenze compiute sono ricostruite con lucida precisione dall'Autore, grazie ad una minuziosa ed attenta ricerca, ed ecco allora l'episodio forse più emblematico della ferocia dei nuovi invasori, quello cioè di Norma Cossetto, ventiquattrenne di Santa Domenica di Visinada, legata mani e piedi ad un tavolo e violentata e seviziata per giorni finché una notte verrà fatta precipitare, insieme ad altri venticinque prigionieri, nella foiba di Villa Suriani profonda ben 135 metri; analoga sorte toccherà anche alle tre sorelle Rebecca (Albinia di 21 anni ed in stato di gravidanza, Caterina di 19 anni e Fosca di appena diciassette) e a molte altre sventurate. Merito dell'Autore è stato quello di voler affiancare la propria ricerca e ricostruzione storica all'intento di delineare quello che egli stesso definisce "uno sterminio dalle dimensioni di massa" e che, come tale, non può essere né soggetto ad una banalizzazione riduttiva né tantomeno archiviato e dimenticato: si tratta di una delle pagine più sanguinose della nostra storia che deve riemergere dall'oblio in cui è stata sepolta affinché sia di insegnamento e monito per le nuove generazioni e affinché venga riconosciuto lo strazio sopportato dai superstiti, costretti a vivere la dolorosa condizione di esuli, e tributata la doverosa deferenza alle vittime trucidate perché possano finalmente riposare in pace.

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"Infoibati". Recensione del libro di Guido Rumici (a cura di G. Dell'Oglio).

- Sito internet del Prof. Rumici: http://digilander.iol.it/xrumici 

Un velo di silenzio ha coperto per molti anni le vicende che hanno colpito il confine orientale d'Italia al termine della seconda guerra mondiale, come si volesse dimenticare una pagina buia del nostro Paese. Nel settembre-ottobre del 1943 e, più tardi, nella primavera del 1945, con la presa del potere da parte delle autorità jugoslave guidate dal maresciallo Tito, diverse migliaia di Italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia vennero arrestati e deportati. Molti di loro non fecero più ritorno a casa, né si seppe più nulla della loro sorte. Rilevante è il numero di coloro che vennero gettati nelle foibe, cavità naturali a forma di imbuto caratteristiche del paesaggio carsico della regione, spesso delle vere e proprie voragini, che sprofondano verticalmente nel terreno per decine o centinaia di metri, dove le loro salme non avrebbero dovuto essere più ritrovate. Le foibe divennero così la tomba di tantissimi sventurati, anche vittime dell'odio, delle passioni dell'epoca e degli avvenimenti storici e politici che travolsero la Venezia Giulia. Questa drammatica pagina di storia, da troppo tempo dimenticata, viene ora finalmente raccontata in modo completo ed organico dal prof. Guido Rumici nel volume "Infoibati", fresco di stampa, pubblicato da Mursia Editore di Milano ( http://www.mursia.com/testimonianze/infoibati.htm )

Copertina del libro di Rumici

Si tratta di un'opera importante perché affronta con rigore storico ed obiettività un'epoca sicuramente difficile della storia delle nostre terre e, soprattutto, è un libro che, avendo divulgazione a livello nazionale, potrà far conoscere finalmente anche al di fuori della cerchia degli esuli le travagliate vicende di un popolo, quello giuliano dalmata, che da sempre si lamenta giustamente per la scarsa attenzione che la Nazione gli ha finora prestato. E di ciò va dato merito all'autore che, dopo aver analizzato il drammatico periodo dell'esodo e del dopoguerra nella Venezia Giulia e in Dalmazia nel volume "Fratelli d'Istria", pubblicato sempre dall'editore Mursia nel 2001, ha ora affrontato, con linguaggio semplice e lineare, la dolorosa pagina delle foibe che può essere vista come il completamento di un percorso di ricerca sull'intera storia del confine orientale d'Italia dal 1940 in poi. Il libro "Infoibati" ha anche il merito di mettere in primo piano le vicende umane di tante persone gettate nelle voragini della Venezia Giulia, dalle foibe dell'Istria alle cavità del Carso triestino e goriziano. Numerose sono infatti le testimonianze dirette raccolte da Guido Rumici tra i parenti delle vittime e tra i sopravvissuti che, inserite nel contesto storico abbondantemente descritto, fanno capire il clima di pesante oppressione che attanagliò la popolazione civile di quelle terre martoriate. Gli avvenimenti dell'Istria, di Pola, Fiume, Trieste, Gorizia, Zara e della Dalmazia trovano spazio in specifici paragrafi che descrivono con completezza come le autorità partigiane assunsero il potere e come si svolsero gli arresti, le deportazioni e le uccisioni di tanti italiani. La polizia segreta di Tito colpì con spietata precisione tutti coloro che potevano essere, di fatto o in teoria, possibili oppositori all' instaurazione del nuovo regime jugoslavo. In questa prospettica molte persone finirono non solo nelle foibe, ma furono uccise anche in vari altri modi: numerosi vennero fucilati o comunque eliminati in modo violento durante la loro deportazione, altri cessarono di vivere per malattia, per stenti o per esecuzioni sommarie nei lunghi periodi di detenzione nelle carceri e nei campi di concentramento jugoslavi. Moltissimi italiani rimasero rinchiusi nelle prigioni di Tito anche parecchi anni dopo la fine della guerra ed il regime jugoslavo si comportò in maniera assolutamente illegale, in spregio ad ogni norma del diritto internazionale. Una ricca documentazione fotografica di una settantina di immagini arricchisce il volume "Infoibati" che in appendice presenta pure una serie di interessanti documenti che fanno luce su i crimini compiuti dai partigiani di Tito. Di rilievo la Relazione Harzarich compilata dai Vigili del Fuoco di Pola che recuperarono numerose salme dalle cavità istriane, nonché alcuni documenti di fonte jugoslava, inglese ed italiana, anche inediti, che aiutano a capire i meccanismi che furono alla base delle stragi perpetrate non solo nel periodo bellico, ma pure nel dopoguerra.
Il volume del prof. Rumici inquadra il dramma delle foibe nel contesto storico in cui avvenne la tragedia: i nomi, i luoghi, i testimoni di questi eccidi, sono tutti tasselli di un ampio mosaico che il lettore riesce agevolmente a capire. Si tratta, in definitiva, di un libro che meriterebbe un'ampia diffusione non sono nel mondo degli esuli, di cui illustra in sintesi fatti e vicende, ma soprattutto tra tutti quei nostri connazionali, ed in particolare i giovani studenti, che potranno avere l'opportunità di conoscere finalmente una pagina drammatica della storia d'Italia.

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Intervista a Guido Rumici (a cura di F. Guiglia).

- Sito internet del Prof. Rumici: http://digilander.iol.it/xrumici 

I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti". Così si presenta, semplicemente, "Infoibati", l'ultimo libro (per Mursia) di un insegnante di storia e di economia che al tema ha dedicato dieci anni di passione, tre di ricerche e uno di stesura. Ma il lavoro di Guido Rumici, che alle tante storie di quella Storia dimenticata rivolge la sua attenzione da tempo, è solo uno spunto per riflettere oltre le foibe: che cosa può significare quella memoria negata per un futuro condiviso? "Anche in Slovenia la gente comincia finalmente a parlare", rivela lui, che ha raccolto dati e date, carte, centinaia di dichiarazioni. E di lacrime. Cultore di diritto europeo e agrario nell'Università di Genova, già autore di "Fratelli d'Istria", Rumici sottolinea il metodo ("documentario") e l'approccio ("fonti multiple, nazionali ed estere") all'origine delle sue conclusioni: "Ci fu un disegno politico nell'eliminazione di migliaia di italiani". Il professore è goriziano e ha quarantadue anni.

- Perché la storia delle foibe è stata infoibata così a lungo?

C'era tutto l'interesse a tenerla nascosta Nel secondo dopoguerra le etichette affibbiate sia agli esuli ("tutti fascisti") sia ai rimasti ("tutti comunisti"), facevano comodo alla politica del tempo. Regnava il pregiudizio. All'epoca la nostra sinistra era legata allo schema internazionalista comunista. E i misfatti fatti dai partigiani di Tito, andavano coperti.

- Quand'è che ha imparato per la prima volta il significato della parola foiba?

Quando l'ho vista. Un mio amico istriano mi portò a mostrarmene una - la foiba Martinesi, vicino a Buie - in cui avevano buttato giù un sacerdote. Dunque, un innocente, che non era certo inquadrato nella politica. La cosa mi colpì profondamente.

- Che cosa invece la spinse a dedicarsi al tema da studioso?

Il fatto che da troppi anni si parlava poco del fenomeno. E soltanto in chiave politica. Io racconto fatti, non do interpretazioni. Credo che finora sia prevalso, al contrario, un generale orientamento di opinioni, di giudizi sui fatti. Non le date, i fatti, i luoghi, gli episodi in modo il più possibile divulgativo.

- Oltre al metodo in che maniera si può essere storiograficamente originali nel merito della questione?

Nelle fonti. Io ho usato sia la pubblicistica italiana che quella slava. E ho avuto accesso a documenti anche inglesi e anche slavi.

- Perché questi punti d'osservazione erano stati finora trascurati?

Negli anni passati era più difficile scrivere di questi argomenti, perché essi erano legati intimamente alla politica. Adesso si può cercare una maggiore oggettività L’uso di più fonti, e di fonti inedite e sottovalutate, aiuta a scavare nella verità dei fatti.

- Qual è la conclusione più rilevante dei suoi studi?

Di rilevo c'è sicuramente una cosa: i fatti testimoniano che vi fu un disegno politico nell'eliminazione delle persone. Non fu, come in molti altri testi si dice, il frutto di una resa dei conti, di fatti emozionali, di una grande vendetta sul momento. Certo, non mancarono episodi anche di questa natura. Però alla base di tutto ci fu un progetto politico.

- Progetto che prende corpo quando e come?

Ci sono state due ondate, per così dire. La prima nel '43 (settembre/ottobre). La seconda nel'45 (maggio/giugno). Si cercò di colpire tutte quelle persone che rappresentavano in qualche modo lo Stato italiano. Andando a confrontare nelle varie località chi fu eliminato, si vede che grossomodo furono uccisi appartenenti alle stesse e significative categorie. Insegnanti, segretari comunali, rappresentanti delle forze dell'ordine, carabinieri, poliziotti. Non esclusivamente fascisti in quanto tali, quindi, ma cittadini espressione dell'Italia sul territorio.

- Persino chi ?

Persino i messi comunali, gli impiegati dell'anagrafe, le guardie forestali... La prima ondata colpi essenzialmente l'Istria, ma non solo. In prevalenza s'abbatté sull'interno dell'Istria, dove i partigiani s'erano insediati. Nelle grandi città - Pola, Fiume, Trieste, Gorizia - c'erano i nazisti, e non i partigiani di Tito, che vi arriveranno nel '45, prima ancora degli anglo-americani. Essi, quei partigiani, applicheranno lo stesso criterio sperimentato in precedenza: colpire quanti potevano rappresentare un ostacolo alla lotta per l'annessione della Regione italiana alla Jugoslavia.

- Altre prove dei disegno politico?

Andavano casa per casa con delle liste già compilate. «Vennero a bussare alla mia porta con un elenco di cento nomi e presero mio padre che era il trentacinquesimo». Si trovano tante testimonianze come questa. In certi casi arrivarono a prendere due persone omonime. Nel dubbio. Dunque, non fu un'eliminazione casuale, a casaccio, dettata da furori emotivi.

- Qual è la responsabilità di Tito nel progetto?

Come spesso succede nella storia, i quadri intermedi possono essere più cattivi del capo. Magari scatta quest'ansia di voler essere più realisti del re. Naturalmente non esiste un documento con un ordine scritto, firmato e timbrato da Tito. E magari spedito da una raccomandata con ricevuta di ritorno... Però certamente la sua polizia segreta agi in base a direttive comuni in varie città. C'è un'accertata ripetizione di metodi che non è casuale. Il fatto, per esempio, che molto spesso andassero nelle case in modo amichevole. «Venga al comando per un semplice interrogatorio», dicevano con aria tranquilla. Per la vittima designata era l'inizio della fine.

- Altri elementi a favore delle «non casualità» dei fatti?

Il modo stesso in cui uccidevano le persone. Le portavano via quasi sempre di notte. E le ammazzavano seguendo di solito la stessa «procedura».

- In che modo venivano uccisi?

Quando si parla di foibe, si tende a generalizzare il fenomeno. Un fenomeno che può essere invece distinto in tre fasi. Ci furono i fucilati. Ci furono i deportati in campi di concentramento, dove rimasero anche a lungo, morendo di stenti, sevizie, malattie. Infine ci furono gli infoibati. Questi ultimi in linea di massima venivano spintonati a calci e pugni fino all'orlo della cavità. Avevano i polsi legati col fil di ferro. Spesso erano messi a due a due. Così si sparava al primo, che precipitava nella foiba, portandosi appresso quello vivo. La foiba era fonda decine, anche centinaia di metri. Potevano morire, i vivi, dopo lunga agonia Testimonianze riferiscono di urla, di strazianti richieste di aiuto che arrivavano dal ventre della terra anche uno, due giorni dopo gli eccidi.

- Quanti furono gli italiani scomparsi?

Le stime possono partire da almeno seimila vittime accertate ad oltre diecimila. Più di quattrocento fra donne e raga zzi. Trentanove i religiosi. I primi cinquecento furono eliminati già nel '43.

- Chi finiva nei campi di concentramento?

Molti militari. Sia della Rsi, catturati alla fine delle ostilità, sia soldati italiani rimasti nei Balcani dopo 1'8 settembre e che vissero un'epopea di stenti. II fatto di essere stati tra i partigiani, non li salvò dalla deportazione. Aggiungo che furono uccisi anche molti slavi anti-comunisti. In particolare sloveni e croati che avevano combattuto contro Tito con le formazioni collaborazioniste. Nel progetto di eliminazione alla fine si mescolarono elementi politici, nazionali, ed ideologici. E pure sociali: con l'occasione si uccise anche il borghese, il padrone del negozio che non dava credito.

- Che cosa emerge dalle fonti straniere da lei consultate?

Intanto la dichiarazione scritta del 1950 - occhio alle date - in cui Francesco Freddi, un rimpatriato dalle carceri jugoslave, dichiarava che con lui erano presenti, fino a pochi giorni prima, pure due personaggi famosissimi in Istria: Licurgo Olivi, rappresentante socialista del Cln e Gino Morassi, vice podestà di Gorizia. Si pensava che queste due persone fossero state infoibate nel '45. Invece cinque anni dopo erano ancora vivi come «ostaggi». Ostaggi destinati a sparire nel nulla. La vicenda di Olivi, poi, è molto importante. Antifascista, dopo che fu catturato nel '45 si ebbe un intervento molto forte promosso dal Cln per liberarlo. Senza esito da parte degli sloveni.

- Altri documenti innovativi per capire «sine ira et studio»?

Ne ho trovati tantissimi, sono stato costretto alla selezione. Ho pubblicato la relazione Harzarich, per esempio, dal nome del maresciallo Arnaldo che aveva diretto le esplorazioni e i recuperi nelle foibe istriane fra il 16 ottobre '43 e il 2 febbraio '45. Questo maresciallo dei vigili del fuoco racconta di ogni foiba perfino le donne che ha tirato su. Tra cui Norma Cossetto, nome conosciutissimo e oggetto di una violenza brutale. C'è poi un documento inedito dei comunisti di Gorizia i quali, il 29 giugno del '45, davano ordine ai compagni sloveni di liberare trentasei carabinieri che avevano collaborato nella lotta partigiana. In realtà, un mese e mezzo prima essi erano stati tutti infoibati.

- Dalle carte inglesi che cosa si ricava?

Per molti anni si disse che a Basovizza non c'era niente. I negazionisti contestavano il simbolismo di quella foiba. Ma documenti inglesi confermano il recupero di una decina di salme e di una quantità notevole di resti. Impossibile indicare oggi quanti morti siano rimasti laggiù. Probabilmente non sono i tremila, di cui pure s'è scritto molto. Però ci sono, ecco. C'è un punto fermo tra zero e tremila.

 

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"Foibe. Io accuso. Una sopravvissuta istriana trascina in Tribunale l'assassino di suo padre". Recensione del libro di Nidia Cernecca.

Un uomo steso nudo su una foiba, con sullo sfondo una pagina di storia stracciata e macchiata di un colore inconfondibile, quello del sangue e della stoltezza comunista. Si presenta con questa copertina intrisa di "stimmung" il nuovo libro edito dalla fucina napoletana di Controcorrente (per informazioni 081/55.20.024), scritto da Nidia Cernecca: "Foibe. Io accuso. Una sopravvissuta istriana trascina in Tribunale l'assassino di suo padre" (pp. 135, euro 11). 
Una testimonianza che è un brivido continuo, che commuove profondamente, provocando un pianto di dolore e di rabbia che sale con le parole della scansione narrativa, parole di bimba, semplici, vere, che arrivano diritte al cuore del lettore facendo nascere un interrogativo immenso: sarà "cantierabile" la Verità sulle Foibe? Nidia Cernecca, all'epoca dei fatti che videro la brutale uccisione di suo padre Giuseppe, uomo buono, torturato e poi decapitato dopo avergli estratto dalla bocca due denti doro, aveva poco più di sei anni, ma non ha dimenticato nulla di quei momenti. L' assassino del padre si chiamava Ivan Motika, deceduto ultraottantenne in Istria, da pensionato italiano dell'Inps. La Cernecca non scrive ora per odiare, ma perché questo doloroso capitolo europeo non venga dimenticato, perché questo "gigantesco tritacarne che ha riguardato tutti gli Italiani", come ha annotato nel testo Armando de Simone, non sia cancellato dagli interessi della storia contemporanea, dopo aver già attraversato il deserto del silenzio durato cinquant'anni e dopo che i testi di storia, sui quali studiano i nostri ragazzi, hanno travisato od omesso la verità sull' accaduto. A chi ha giovato il silenzio? Occorre oggi coniare un verbo che è un impegno, mantenere vive le stimmate del coraggio. Mario Varesi ha scritto dei versi unici che rendono la tragedia Dicono: "Lapidato con i sassi delle tue doline / ogni pietra ha una voce / il tuo lamento che chiede: perché?".
La realtà è che una bambina cresciuta troppo presto e diventata donna nel dolore, ha avuto il coraggio di accusare Motika, il boia di Gimino. La compiacenza e il silenzio che hanno circondato queste storie sono senza dubbio, annota il testo, ascrivibili alla sinistra italiana: "Non si poteva, non si doveva sapere quello che l'Istria rappresentava: la carta di scambio sull'altare di Yalta". I fatti sarebbero stati gli stessi di quello che sarebbe avvenuto in Italia all'indomani dell'instaurazione della "democrazia popolare" (leggi dittatura comunista). Che cosa vuole questo libro? "La storia istriana non è una vicenda di risarcimenti per le vittime o per gli immensi danni subiti, gli espropri. Gli ultimi testimoni di quel massacro, stanchi e per di più annichiliti dal silenzio che li ha circondati nella loro battaglia della memoria, potrebbero correre il pericolo di "marmorizzazione"; d'incapsulamento nel mito dell'unicità "della propria esperienza". Non fa così la Cernecca. La sua non è una memoria che incatena gli esseri umani al proprio odio. È un presente. La scrittrice scrive al figlio Ennio, che casualmente, rovistando nel cassetto dei ricordi di famiglia, ha trovato carte ingiallite, scritte dalla mano incerta e dolorosa di una bambina, nel lontano 1944. Era il suo Diario, il giardino segreto, tenuto per anni lontano dalle atroci domande che hanno continuato a produrre tuffi al cuore facendola macerare per risposte che nessuno le ha dato. "Ora eri tu, mio figlio, a chiedermi il perché... Così quel giorno iniziai a raccontarti la mia storia". E la storia di Pepi, il nonno del ragazzo che ascolta, il padre di una bimba costretto, dopo aver lavorato per il bene di tutti a Gimino, a sfilare per le vie del paese con un sacco di pietre sulle spalle, legato con una catena da buoi al collo e lapidato con gli stessi sassi che aveva portato dove cominciava il bosco della "draga". Ma è anche la storia del genocidio di quattro "popoli" italiani dimenticati, quello istriano, fiumano, giuliano e dalmata, ad opera dei comunisti slavi e italiani. Quando, in Istria, i berretti con la stella rossa si fermarono davanti alle case degli italiani, quelle case con gli angoli in grosso bugnato di pietra bianca circondate da boschi che parlavano, allora le foibe, che nascevano dalla terra come profonde ferite, divennero il terrore degli uomini. "Solo chi sapeva volare poteva uscire vivo dalle foibe", che divennero un cimitero speciale ed unico, coltivato dalla natura Vi si giungeva con i "camion della morte", con i finestrini dipinti di bianco, affinché nessuno potesse guardare dentro e individuare i prigionieri. Capolinea di quelle corriere della morte erano le foibe. l viaggi erano sempre gli stessi e numerosi. Le corriere "erano piene, ma tornavano sempre vuote e ingombre dei vestiti che i massacratori toglievano alle vittime". I cappottini dei bimbi portavano i segni delle bruciature di miriadi di schegge. Le mamme, vestire di nero, divennero il dolore delle case istriane di pietra, tirate a secco. Anni dopo la fuga con la madre, Nidia, una sera d' autunno, riceve una telefonata da un amico che aveva trovato su uno dei tre volumi di Giorgio Pisanò "La guerra civile in Italia", il nome di Giuseppe Cernecca Uno storico come Pisanò aveva scritto del padre. Partì per l' Istria il giorno dopo. Erano trascorsi ventidue anni da quando aveva dovuto lasciare la terra del suo cuore. Trovò le ossa del padre; due mani le avevano salvate, ma incontrò anche tanto silenzio. Scrive la donna: "Per ottenere giustizia, avevo bisogno di aiuto. Mi arrovellai per alcuni giorni, poi ricordai che Alleanza nazionale era stato l'unico partito che aveva sempre tentato di rompere il silenzio che gravava sulla tragedia adriatica". Incontrò Roberto Menia, oggi deputato di An. La aiutò fraternamente. Lasciamo percorrere al lettore questa drammatica accusa contro un boia di italiani e le tappe del processo, permettendoci solo di consigliare un paragrafo meraviglioso, tra gli altri, intitolato "Per la memoria", due pagine rivolte al figlio. Inizia dicendo "Figlio, vivi la tua memoria..." e si conclude, quando chi scrive questa recensione ha già le lacrime agli occhi, con un invito: "Nella memoria troverai te stesso. Dona agli altri il meglio di te stesso: la tua memoria per alimentare la loro memoria... Ennio, custodiscimi nella tua memoria, per non farmi morire".
L' lstria fu il Golgota di chi ancora oggi non ha risposte, terra di domande di veri Italiani, dimenticati troppo presto. Roberto Menia, che nel testo ha scritto "Il buco nero della memoria" annota giustamente: "Cè un solo modo per spezzare la congiura del silenzio. l grandi storici e soloni della cultura imperante non lo faranno mai. Allora lo faccia chi ha vissuto quella storia cancellata". Questo capitolo della storia umana nel mondo potrà concludersi solo con la Giustizia. L'attendiamo tutti.

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"Foibe, una tragedia fatta di silenzi". Recensione del libro di Vincenzo Maria De Luca (Di Marino Micich).

Merita senz'altro un'attenzione particolare nel variegato panorama editoriale nazionale, questo interessante libro, dedicato alle tragiche e a noi ben note vicende dell'ex-Venezia Giulia, occupata nel 1945 dalle armate jugoslave: Vincenzo Maria De Luca, "foibe, una tragedia annunciata", Settimo Sigillo, Roma 2000, (Libreria Europa, Via Sebastiano Veniero, 74 - 00192 Roma). L'editore della Settimo Sigillo, Enzo Cipriano, è noto per essersi da sempre interessato alle vicende delle terre adriatiche cedute dall'Italia all'allora Jugoslavia, e anche in questo caso non è mancato al suo appassionato impegno. E' quanto mai importante, a più di cinquant'anni di distanza da quei tragici avvenimenti che sconvolsero le terre dell'Adriatico orientale, poter leggere un altro contributo storico (ricordo "L'esodo" di Arrigo Petacco pubblicato lo scorso anno da Mondadori), dai toni equilibrati ma fermi, inteso a riconfermare una coscienza e dignità storica a una terra e alla sua gente, che in tanti decenni è rimasta ai margini dei circuiti culturali della nazione italiana. Solo ultimamente, in seguito ai mutati scenari geopolitici (la caduta simbolica del Muro di Berlino nel 1989, la riunificazione della Germania, il crollo dell'Unione Sovietica, la dissoluzione dell'ex-Jugoslavia, ecc.), l'Italia e l'Europa si sono accorte dell'esistenza di un popolo, quello giuliano-dalmata, che era destinato a scomparire dalla scena della storia, per di più con un marchio d'infamia politica appositamente confezionato da una nefasta strategia bipolare. Tuttavia i crimini e le atrocità avvenute nei recenti conflitti etnici in ex-Jugoslavia, hanno spinto le coscienze europee ad affrontare più seriamente questo tipo di problemi ed era quasi inevitabile che non balzasse all'attenzione degli studiosi e dell'opinione pubblica la "pulizia etnica" sofferta dagli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia oltre cinquant'anni fa ad opera degli allora jugoslavi. Seppur pesantemente provata dagli eventi storici contrari, la comunità giuliano dalmata (circa 350.000 italiani esodarono dopo il 1945 dalle terre di origine) sta attualmente dimostrando, attraverso il suo mondo associativo, di essere ancora in grado di cogliere l'opportunità del momento presente per offrire un valido contributo culturale all'Europa di oggi e riaffermare la propria identità. Pur trattando temi ancora oggi controversi lo stile narrativo di Vincenzo De Luca è elegante, sostanzialmente misurato ma che si avvale anche dell'uso di toni appassionati e fermi, semanticamente tesi a fare luce su molti aspetti poco chiari della lunga storia delle genti istriane, fiumane e dalmate. Il sottotitolo che appare in copertina "Il lungo addio italiano alla Venezia Giulia" costituisce il filo conduttore attraverso il quale De Luca ci conduce, con chiara ed esauriente esposizione sintetica, attraverso i secoli, per far meglio comprendere ai lettori la consistenza della presenza italiana nell'altra sponda dell'Adriatico e la puntuale inadempienza da parte dell'Italia nei confronti di questa meravigliosa realtà. De Luca ci illustra a ogni capitolo periodi di storia avvincenti ma anche molto dolorosi. Mi diceva l'autore, nel momento in cui si apprestava a iniziare la sua fatica di studio e di ricerca sulla Venezia Giulia, che l'idea di contribuire attraverso un libro nacque soprattutto dalla profonda impressione che l'episodio delle foibe suscitò nel suo animo. Egli, pur non essendo originario di quelle terre, si è sentito colpito nel profondo dell'animo, senza capire perché tanta violenza dovesse rimanere impunita o addirittura cadere nell'oblio. Questo libro nasce, non certo con la pretesa di voler esaurientemente spiegare definitivamente la triste vicenda dei giuliano-dalmati, ma vuole essere un appassionato contributo alla conoscenza di questo mondo così complesso. Coloro che hanno scritto finora in Italia sulla vicenda giuliana con rigore scientifico e desiderio di ricercare la pura verità si possono contare sulle dita di una mano. La storia fatta di silenzi, di falsificazioni, di mistificazioni non è maestra di vita ed è proprio per combattere questa storia che nasce un libro come quello di De Luca. "Foibe, una tragedia annunciata" è quindi un libro che per efficacia narrativa, e ripeto, l'elegante narrazione, si presta ad essere divulgato ad un più vasto pubblico di quello degli addetti ai lavori, scuole incluse. Un altro aspetto interessante che si può cogliere nel libro di De Luca è la lunga serie di manchevolezze e di cediménti dell'Italia ufficiale verso le "terre irredente", che costarono nella Prima Guerra Mondiale ben 600.000 morti e oltre un milione di feriti e di invalidi. Se l'Italia avesse considerato con maggiore attenzione la realtà delle terre giuliane, da sempre e non sporadicamente, tante tragedie si sarebbero potute evitare e non solo la tragedia delle foibe, ma anche quella di un esodo degli italiani che ha compromesso definitivamente gli storici equilibri etnici ad est di Trieste. Le foibe rappresentano ancora oggi l'estremo grado di efferatezza e di barbarie a cui può arrivare l'essere umano, ma sono anche il punto terminale di un sistema ideologico violento e incompiuto come quello comunista jugoslavo, che erroneamente viene citato spesso a modello di convivenza da chi evidentemente non ne ha conosciuto la vera storia e su quante vittime Tito fondò la sua stabilità e sicurezza. Tuttavia, ritengo che l'episodio delle foibe deve essere ormai liberato da ogni strumentalizzazione politica, per essere definitivamente consegnato alla coscienza di italiani, croati e sloveni, come un delitto contro l'umanità da condannare sempre e in ogni caso, se vogliamo veramente sperare in un'Europa migliore. Si deve rendere giustizia alla storia e alle vittime con prese di posizione chiare e decise, nel senso che la moderna coscienza europea deve assolutamente condannare ogni forma di pensiero o di sub-cultura che avalli, anche solo a livello latente, il metodo dell'eliminazione fisica, lo svilimento morale e psicologico dell'avversario politico. Non ci si può nascondere dietro alla considerazione che lo sterminio fisico è stato sempre uno dei mezzi della politica e che purtroppo così sempre sarà. Occorre definitivamente combattere questa forma distorta del pensiero politico, perché la storia ha insegnato che non ci porta a nulla. Per questo sono importanti le giornate dedicate alla memoria, agli olocausti perpetrati sempre e comunque ai danni dall'essere umano che deve essere ritenuto il fine principe della storia e non un semplice mezzo. Le distruzioni, i genocidi di intere comunità che sono avvenuti nella storia dell'Europa diverse volte, ma mai in maniera così aberrante co me nel trascorso Novecento (definito dallo storico francese Alain Besancon in un suo libro "Il Secolo del Male") non devono accadere mai più. Anche questo è un altro dei considerevoli messaggi che De Luca ci trasmette attraverso il suo libro. Un simile impegno si manifesta, quindi, non solo ricordando altre tristi e ben note circostanze della storia, ma anche attraverso il riconoscimento del sacrificio, simboleggiato dalle foibe istriane, affrontato dai fiumani, istriani e dalmati per rimanere se stessi, con le proprie convinzioni politiche, tradizionali e consuetudini secolari. Spiegare tutto questo è risultato sempre difficile ai giuliano-dalmati in un'Italia post bellica, dove al sentimento della Patria si sostituiva il complesso della sconfitta e il mito del progresso americano. Ci provò a spiegare la scelta per l'Italia, tra i tanti esuli ormai scomparsi, anche lo scrittore fiumano Paolo Santarcangeli nel suo libro di memorie "il Porto dell'Aquila decapitata" con queste toccanti parole che ancora oggi sono patrimonio per pochi: "Perché tante storie? In fin dei conti, non siamo come gli altri? Potremmo tuttavia sostenere questo sino in fondo? Non ci smentiscono le nostre voci, i nostri cognomi, i quali, nella loro forma originaria, suonavano spesso slavi o tedeschi o ungheresi? O d'accordo anche italiani: ma venuti da quale Italia, insulare o lagunare e, comunque, non istriana né fiumana. Solo la volontà testimonia per noi, perché abbiamo voluto e scelto di stare con l'Italia; e tale scelta ci fece onore, quando significò distacco, povertà, esilio". Da tale scelta la cultura giuliano-dalmata ha saputo trarre la forza per sopravvivere negli anni bui del dopoguerra e del "boom" economico, distinguersi nelle operazioni di massificazione ideologica per giungere ancora intatta e capace di promuovere fermenti nuovi (basta operare una breve ricerca via Internet per accorgersi di questa ben viva realtà). In conclusione, questo libro presenta notevoli spunti di novità e di interesse sulla Venezia Giulia capaci di coinvolgere emotivamente un più grande pubblico e restituire dignità a una storia taciuta e scientificamente poco indagata. Un ulteriore e doveroso plauso lo rivolgo all'autore per la sensibilità e gli alti valori di umanità che ha inteso esprimere nel suo narrato e per le emozioni che ha saputo trasmettere come pochi altri.

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"Fratelli d'Istria". Recensione del libro di Guido Rumici.

Le vicende che colpirono gli Italiani del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale sono state a lungo trascurate dalla storiografia ufficiale nazionale quasi che si volesse stendere un velo di silenzio su una pagina buia del nostro Paese.Con il Trattato di pace del 1947 venero cedute alla Jugoslavia di Tito le intere province di Pola, Fiume e Zara oltre che una consistente porzione delle province di Trieste e Gorizia.La conseguenza fu drammatica e provocò l’esodo di circa 350.000 giuliani e dalmati, con interi paesi che si svuotarono nel giro di pochi anni. I pochi che restarono si ritrovarono dopo poco tempo "stranieri in Patria" in un’Istria completamente cambiata e snazionalizzata da un regime, quello di Tito, che non lesinò minacce e vessazioni verso tutti coloro che potevano rappresentare, di fatto o anche solo potenzialmente, degli oppositori al nuovo ordine costituito. La storia dell’Istria e di Fiume dal 1945 fino ai giorni nostri ci viene raccontata dal prof. Guido Rumici nel volume "Fratelli d’Istria 1945-2000", fresco di stampa, pubblicato da Mursia Editore di Milano. Si tratta di un’opera importante perché affronta con rigore storico ed obiettività un’epoca sicuramente difficile della storia delle nostre terre e, soprattutto, è un libro che, avendo divulgazione a livello nazionale, potrà far conoscere finalmente anche ai non addetti le travagliate vicende di un popolo, quello giuliano dalmata, che da sempre si lamenta giustamente per la scarsa attenzione che la Nazione gli ha prestato. E di ciò va dato merito all’Editore Mursia che, dopo aver stampato il fondamentale libro del prof. Gaetano La Perna "Pola-Istria-Fiume 1943-1945", ha ora pubblicato questo nuovo volume "Fratelli d’Istria 1945-2000" di Guido Rumici che può essere visto come la continuazione ed il completamento del primo lavoro citato. Il libro del prof. Rumici appare comunque del tutto innovatore soprattutto perché traccia una panoramica sull’intero dopoguerra in Istria, a Fiume ed in Dalmazia, analizzando in modo oggettivo e pacato il fenomeno dell’esodo e di come un popolo divenne minoranza in soli pochi anni. Ciò è abbondantemente spiegato con una notevole massa di dati (tutte le statistiche dei censimenti jugoslavi sono riportate), di fatti e di episodi che videro il regime jugoslavo ghettizzare la lingua e la cultura italiana in spazi sempre più ridotti. Vennero chiuse scuole, asili, circoli di cultura italiani, mentre la gente partiva senza soluzione di continuità per raggiungere l’Italia o per fuggire ancora più lontano, verso le Americhe o l’Australia. Da Pola partirono 28.000 persone su 32.000, da Fiume 54.000 su 60.000, 8.000 su 10.000 da Rovigno e 14.000 su 15.000 da Capodistria. Dalle altre località, da Umago, Pirano, Parenzo, Cittanova, Isola, Albona, Cherso, Lussino e Zara l’andamento fu circa analogo con punte del 90-95% di esodati. E chi rimase? Coloro che avevano creduto nel nuovo regime comunista (e in buona parte poi se ne pentirono) o che avevano voluto restare per accudire gli anziani o per non aver avuto la forza di lasciare la propria terra, il proprio mare. Molte famiglie si divisero, partirono i giovani, rimase qualche anziano. Un popolo, una comunità che è stata divisa da una tragedia bellica a distanza di più di mezzo secolo viene riguardata oggi con un occhio nuovo. Guido Rumici per anni ha raccolto voci, relazioni, testimonianze di genti che per vari motivi ha fatto la scelta o dell’esodo o di una nuova imposizione statale. Una scelta decisamente sofferta, e quasi sempre lacerante, sia per i 350.000 esuli sia per gli esiliati in casa. "Fratelli d’Istria" vuole contribuire soprattutto a far conoscere la situazione attuale dei rimasti ed i mutamenti storici, economici e politici che si sono verificati nel volgere di questo ultimo mezzo secolo e che furono la causa di tante sofferenze e che, soprattutto, spinsero la maggior parte della popolazione ad abbandonare tutto ciò che possedeva pur di fuggire da una realtà non più tollerata. Degne di menzione sono poi le appendici che raccolgono diverse testimonianze, la cronologia ed una ricca bibliografia per chi volesse ulteriormente approfondire l’argomento. Il volume del prof. Rumici è pure arricchito da numerose fotografie dell’epoca che bene rendono l’idea del clima che si viveva nella Jugoslavia di Tito. Si tratta, in definitiva, di un libro che meriterebbe un’ampia diffusione non solo nel mondo degli esuli, di cui illustra in sintesi fatti e vicende, ma soprattutto tra tutti quei nostri connazionali, ed in particolare i giovani studenti, che potranno avere l’opportunità di conoscere finalmente una pagina drammatica della storia d’Italia.

 

 

 

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