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10 Febbraio 2005: "Giornata del Ricordo" giuliano-dalmata. Rassegna stampa.
2) La Voce del Popolo (09/02/'05) - Una storia solo approssimativa (Kristjan Knez).
3) La Voce del Popolo (09/02/'05) - La storia d'ognuno per l'Europa di tutti (Amleto Ballarini).
4) Corriere della Sera (10/02/'05) - La memoria è libertà dall’ossessione del passato (Claudio Magris).
5) Il Gazzettino (10/02/'05) - Giorno del Ricordo (Caterina Fradelli Varisco).
7) Il Secolo XIX (09/02/'05) - Io, fiumano-busallese-genovese (Francesco Fatutta).
11) L''Arena (07/02/'05) - Verona - La testimonianza : Mario Marini, da Zara a Veronetta.
13) Il Piccolo (09/02/'05) "Ma i titini non venivano di giorno" di Guido Galetto.
14) Secolo d'Italia (10/02/'05) - La Patria ritrovata nei ricordi degli esuli (Claudio Antonelli).
15) Osservatorio Balcani (07/02/'05) - Le foibe viste dalla Croazia (Drago Hedl).
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1) QUIRINALE.it (09/02/'05) - Dichiarazione del Presidente Ciampi in occasione della Giornata Nazionale del Ricordo.
dal sito www.quirinale.it
C o m u n i c a t o
Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della Giornata Nazionale del Ricordo, ha rilasciato la seguente dichiarazione: Ho accolto con soddisfazione la decisione con cui il Parlamento Italiano ha istituito la Giornata Nazionale del Ricordo. Essa consente di commemorare con continuità una grande tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Il mio pensiero è rivolto con commozione a coloro che perirono in condizioni atroci nelle Foibe, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945; alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia. Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni. Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono. Tutti i popoli europei ne hanno pagato il prezzo. Da allora sono trascorsi sessant'anni e si sono avvicendate tre generazioni. E' giunto il momento che i ricordi ragionati prendano il posto dei rancori esasperati. I principi di dignità della persona, di rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei diritti delle minoranze sono il fondamento dell'Unione Europea. L'integrazione realizzata fra i nostri Paesi permette a tutti gli europei di condividere un unico spazio di democrazia e di libertà. In questa nuova realtà unitaria contrassegnata dall'abolizione fisica delle frontiere, italiani, sloveni e croati possono guardare con fiducia ad un comune futuro, possono costruirlo insieme: consolidando innanzitutto una convivenza in cui la diversità è il fattore di arricchimento reciproco, in cui le radici e le tradizioni di ognuno vengono rispettate nella loro pari dignità. Auspico, in questo spirito, che la Giornata del 10 febbraio, ispirata a sentimenti di riconciliazione e di dialogo, lasci un'impronta nella coscienza di tutti noi: italiani, europei, cittadini di un mondo che solo una rinnovata unità di ideali e di intenti democratici potrà rendere veramente migliore.
Roma, 9 febbraio 2005
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2) La Voce del Popolo (09/02/'05) - Una storia solo approssimativa (Kristjan Knez).
Una storia solo approssimativa.
Con la mini serie "Il cuore nel pozzo", la televisione di stato italiana affronta per la prima volta una pagina di storia nazionale, volutamente rimossa per oltre mezzo secolo. La siffatta fiction parla delle foibe e dell'atmosfera che si respirava in Istria negli ultimi giorni dell'aprile 1945. Solo con la dissoluzione della Jugoslavia gli storici hanno iniziato a parlare liberamente delle foibe e dell'esodo, senza condizionamenti e scientificamente, tenendo conto anche che per la prima volta gli studiosi avevano a disposizione una certa documentazione. Dagli anni '90 in poi, comunque, siamo testimoni pure di un filone di studi pseudo scientifici che trattano il problema delle foibe, dell'esodo e di quanto avvenne lungo le sponde dell'Adriatico orientale. In tali lavori, privi di rigore scientifico, si parla di decine di migliaia di italiani giustiziati nelle foibe, con la sola "colpa di essere italiani", si parla della "pulizia etnica" perpetrata da Tito nei confronti degli italiani, paragonando i fatti dell'autunno del 1943, del 1945 e degli anni successivi, alla mattanza balcanica che è seguita alla dissoluzione della Jugoslavia. Gli autori di questi studi, poi, dimenticano il contesto in cui si svolsero gli accadimenti succitati. Il problema, invece, è piuttosto complesso e non è possibile esporlo in chiave così semplicistica, faziosa, ecc. Bisogna cogliere i problemi sorti in queste terre nel corso del XIX secolo con le lotte politiche, il risveglio di una coscienza nazionale presso gli sloveni ed i croati, la prima guerra mondiale, lo squadrismo prima e l'avvento del fascismo poi che ha soffocato l'espressione politico- culturale-economica della componente slava, con l'opera di snazionalizzazione e di smantellamento delle istituzioni presenti sul territorio, la bonifica etnica che avrebbe dovuto portare all'assimilazione, l'italianizzazione forzata e l'odio del regime fascista nei confronti degli slavi, considerati "etnicamente inferiori" di fronte alla civiltà italiana. Tutto ciò sarebbe stato, anche, la causa di quanto avvenne successivamente. L'italiano venne visto semplicemente come l'oppressore, colui che ha occupato i territori degli slavi (invadendo assieme al Reich la Jugoslavia) e che ora finalmente sarebbe stato espulso dall'Istria e avrebbe pagato per tutte le sue colpe. Queste regioni però non erano terre "compattamente slave occupate degli italiani", erano terre plurali, eterogenee, abitate da italiani, da sloveni e da croati. E proprio queste popolazioni pagarono il prezzo più alto - tra gli anni '20 e gli anni '50 del secolo scorso - poiché entrambi i regimi che vi misero piede vollero dimostrare rispettivamente la sola ed unica italianità nonché il solo ed unico carattere slavo della penisola. Di conseguenza sulle sopraffazioni si aggiunsero altri soprusi. La lotta partigiana, alla quale si unirono tanti giovani di ogni nazionalità, aveva l'obiettivo di liberare la propria terra dall'occupatore nazifascista, con l'auspicio di costruire una società libera. Gli ideali di quegli uomini e donne, però, si differenziavano nettamente dai piani del maresciallo Tito e del suo entourage, che a partire dal novembre 1943 aveva esplicitamente dichiarato l'annessione di quei territori orientali che l'Italia aveva ottenuto al termine della Grande Guerra. I comunisti, va sottolineato, non solo lottavano contro le forze naziste e quelle collaborazioniste (cetnici, ustascia, domobrani), al contempo stavano portando avanti la rivoluzione che avrebbe trasformato la Jugoslavia nonché miravano alla conquista di quei territori che consideravano suoi, in quanto abitati anche da popolazioni slave, vale a dire la Venezia Giulia e la Carinzia. Nell'aprile del 1945 l'esercito jugoslavo concentrò le sue forze verso occidente, iniziava così la "corsa verso Trieste", lasciandosi alle spalle le divisioni della wermacht e due importanti città come Zagabria e Lubiana ancora in mano tedesca. Al termine delle ostilità le terre della Venezia Giulia sarebbero state assegnate o alla Jugoslavia o sarebbero rimaste all'Italia, ma solo a seguito di un trattato di pace. Era necessario pertanto eliminare tutti i potenziali oppositori all'annessione jugoslava. L'Ozna, la famigerata polizia segreta, iniziò a dare la caccia a tutti i "sospetti", non occorreva essere stati accesi fascisti, spesso bastavano i sentimenti italiani per sparire per sempre. Nella città liburnica, per fare un esempio, furono tolti di mezzo gli autonomisti, che miravano alla costituzione dello stato indipendente di Fiume, i dannunziani, i volontari della guerra del '15-'18, cioè coloro che non volevano la Jugoslavia o che avevano espresso i loro sentimenti italiani. Fu pulizia etnica? Non credo si possa parlare proprio in questi termini, perché al contempo anche nel resto della Jugoslavia si verificarono eliminazioni di massa di sloveni, croati e serbi che avevano collaborato con l'occupatore, spesso in funzione anticomunista, ma anche di coloro che non accettavano il nuovo ordine sociale. Se ritorniamo al discorso delle foibe istriane, sulle stesse sono stati costruiti dei miti che attecchiscono e che non hanno alcun riscontro storico. Dopo l'8 settembre divennero il simbolo della "giustizia" partigiana nei confronti di quanti che si erano macchiati sotto il regime fascista, spesso però finirono anche coloro che non avevano alcuna colpa, eccetto quella di avere la tessera del partito, requisito indispensabile per chi era un pubblico impiegato. Le foibe del '43 furono anche la valvola di sfogo degli slavi dopo due decenni di angherie, di vessazioni e di umiliazioni. Poi ci furono le eliminazioni del 1945, più mirate, condotte con precisione e interessarono i funzionari, le forze dell'ordine, gli intellettuali, i liberi professionisti. Tutti erano potenziali vittime, rappresentavano il precedente stato delle cose, la classe borghese. È doveroso precisare poi che a partire dal 1944 si iniziarono a pubblicare articoli, opuscoli, libri, ecc., che dovevano dimostrare quanto questa terra fosse slava, e italianizzata nel corso del ventennio. Una storia costruita a tavolino doveva sottolineare come l'Italia non avesse alcun diritto storico, etnico, culturale, ecc., su queste regioni. I partigiani che giunsero in queste terre nella primavera del 1945, erano perciò convinti di essere arrivati in terre compattamente slave, ove solo chi "comandava" era italiano, giunto colà del regno. Effettivamente i rappresentanti dello stato erano originari dello stivale, però ciò non toglie che in Istria non vi fossero italiani autoctoni. C'erano eccome, e rappresentavano quasi la metà della popolazione (se prendiamo in considerazione tutta la regione) e costituivano la stragrande, o assoluta, maggioranza nell'Istria occidentale e meridionale, mentre le campagne erano abitate da popolazioni miste, che per secoli avevano convissuto in armonia, e con l'interno compattamente slavo ma anche con isole italiane, rappresentate dai borghi sulle colline, circondate dal contado croato. Quindi una terra composita, distrutta per sempre dalla violenza dei nazionalismi. Di fronte alla complessità di una terra di frontiera, le semplicificazioni storiche possono fuorviare i meno informati sulle questioni del confine orientale d'Italia. Dopo mezzo secolo di silenzi da parte dell'Italia ufficiale, che ha completamente rimosso la storia dell'Adriatico orientale, oggi con il centro-destra al potere i temi delle foibe e dell'esodo sono diventati argomenti di interesse nazionale. Peccato solo che siffatti problemi non siano oggetto di una seria ed approfondita analisi storica. Servono solo come strumento politico volto a dimostrare come i precedenti governi (di sinistra) non hanno voluto trattare tale pagina di storia italiana, mentre oggi, finalmente, proprio questa forza politica si impegna a ricordare e a scrivere quel capitolo mancante nonché a colmare le lacune dei manuali scolastici. Gli italiani, però, non devono conoscere solo le tragedie avvenute sulla sponda opposta dell'Adriatico a partire dal 1943, devono rendersi conto della specificità di quest'area, del suo passato e della sua cultura. Devono apprendere chi era Francesco Patrizi, Gian Rinaldo Carli, Niccolò Tommaseo, solo per citarne alcuni, perché solo in questo modo coglieranno le caratteristiche di quelli che sono stati anche i lembi della patria italiana, nonostante si tratti di una terra eterogenea in cui lingue, culture e popoli si intersecano. Altrimenti è tutto inutile, approssimativo, direi quasi banale, e si rischia di dipingere l'esodo della componente italiana niente meno come l'espulsione di italiani (senza specificare chi fossero) da un territorio, alla pari di quanto avvenuto in Libia, cioè un'ex colonia. I nostri territori, invece, non erano nulla di tale. E poi abbiamo a che fare con tanta confusione. Molti sono i luoghi comuni, che probabilmente aumenteranno esponenzialmente, suffragati dalla scarsa conoscenza dei fatti. Perciò è molto facile individuare il bene e il male, i trionfatori e gli sconfitti. Una cosa del genere l'abbiamo potuta constatare nella fiction "Il cuore nel pozzo" che vorrebbe sottolineare il dramma degli italiani al termine delle ostilità nella primavera del 1945, ma lo fa con ambiguità. Manca lo spazio geografico (indefinito, eccetto l'indicazione di Istria in apertura), manca, se vogliamo, anche il contesto storico. Gli italiani coinvolti sembrano allora, veramente, niente altro che cittadini del regno trasferitisi nelle nuove province, avvalorando in tal modo la tesi che "tutto ciò che era artificiale e portato qui con la forza, si estingue, e ritorna nella sua patria", proprio come l'intellighenzia del regime comunista si spiegava lo svuotamente delle contrade istriane. Nel film anche l'esodo viene presentato in termini molto riduttivi: una lunga colonna di persone, con gli animali e con le loro povere cose in fuga verso la libertà, in direzione del mare dove c'è un piroscafo che attende, e la voce del bambino racconta che molti se ne andarono, forse 300.000. Quest'ultima parte è certamente vera, falsa invece la dinamica dei fatti. Quanto abbiamo potuto vedere è molto simile ai fatti accaduti in Kosovo, evidentemente si vuole equiparare i due fenomeni. Dagli sfollati di Zara che dovettero abbandonare la loro città in seguito ai bombardamenti anglo-americani del 1944 sino all'ultima ondata di profughi del 1954-1956 dalla Zona B passò oltre un decennio. Complessivamente coinvolse oltre un quarto di milione di persone. Il film può andare bene per un pubblico italiano completamente a digiuno delle questioni della Venezia Giulia nel XX secolo, che prende tutto per oro colato. La banalità delle cose rappresentate è quasi un insulto, con troppi falsi storici, come la deportazione degli abitanti di interi villaggi, poi massacrati. Con ciò non voglio dire che l'argomento non dev'essere affrontato, anzi, comunque mi aspettavo una maggiore obiettività. Credo che tale sceneggiato avrà offeso anche buona parte degli esuli, perché dallo stesso sembra che coloro che dovettero andarsene non fossero altro che italiani della penisola venuti in una terra non loro. Niente di più falso!
Kristjan Knez
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3) La Voce del Popolo (09/02/'05) - La storia d'ognuno per l'Europa di tutti (Amleto Ballarini).
La storia d'ognuno per l'Europa di tutti.
Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani a Roma, rievoca con precisione e il rigore scientifico che lo contraddistingue i fatti di quel periodo. "L'esodo giuliano-dalmata dai territori che l'Italia, in base al trattato di pace del 10 febbraio 1947, dovette cedere alla nascente Repubblica Federativa Jugoslava retta dal regime comunista del maresciallo Tito, ebbe inizio sin dal 1944, quando la seconda guerra mondiale doveva ancora concludersi. Zara, quasi distrutta dai micidiali bombardamenti alleati e con l'armata partigiana alle porte vide andar via quasi il 50 per cento dei suoi ventimila abitanti superstiti. Tremila rimasero sotto le macerie. Per molti fu facile comprendere sin dall'8 settembre 1943 che la guerra dell'Asse era ormai irrimediabilmente perduta e che, salvo un improbabile sbarco angloamericano sulle coste istriane, in quei territori, tra Zara e Trieste, con una popolazione a larga maggioranza italiana, sarebbe arrivata per prima l'Armata Popolare di Liberazione. Fu così che si verificò un primo calo significativo della popolazione, dovuto a quanti ebbero la consapevolezza di poter scegliere in tempo utile tra la certezza di un regime comunista gradito all'Unione Sovietica e la ragionevole speranza di un regime democratico promesso dagli angloamericani. I più rimasero e il biglietto da visita listato a lutto che Tito presentò all'arrivo fu quello dell'OZNA (la polizia politica istruita con i collaudati schemi della NKVD di Stalin). A pagare con la vita, nei primi giorni di quella "liberazione", non fu soltanto l'ormai esigua minoranza dei fascisti superstiti, ma tutti coloro che potevano essere d'intralcio alla rivoluzione proletaria promessa nel mito dottrinario di Marx e di Lenin; i cosiddetti "nemici del popolo" individuati tra i borghesi capitalisti, i clerici, i reazionari, i conservatori e quanti, a farla breve, si presumeva non fossero affatto intenzionati a passare docilmente da un sistema totalitario a un altro. La triste pratica dell'infoibamento era stata già posta in atto nel breve periodo intercorso tra l'8 settembre del 1943 e la costituzione del Litorale adriatico soggetto alle autorità germaniche. I vigili del fuoco di Fiume, di Pola e di Trieste scoprirono l'orrore di quei crimini prima che la guerra finisse. Altri infoibamenti, ancor più numerosi ebbero luogo tra maggio e giugno del 1945. Migliaia di civili e militari vennero internati in decine di campi di raccolta allestiti in tutta la Jugoslavia. Non lo documentano solo i rapporti delle autorità militari inglesi e americane ma anche le relazioni stilate dai comunisti italiani che facevano parte della Sezione prigionieri italiani operante a Belgrado e soggetta alle disposizioni delle autorità militari jugoslave o da quelli che dall'Istria e da Trieste relazionavano al PCI di Togliatti e le cui missive risultano oggi consultabili presso l'Istituto Gramsci di Roma. C'è mai da stupirsi se tra il maggio del 1945 e il febbraio del 1947 molti abbiano accettato d'andarsene lasciando tutto alle proprie spalle: casa, soldi e morti? E questo quando davano il permesso spogliandovi di tutto. Quando non lo davano si provava l'espatrio clandestino rischiando la morte o anni di galera. Con la firma del Trattato di Pace la scelta dell'esodo dilagò anche se c'era la consapevolezza di lasciare, senza alcuna promessa di lavoro, la propria casa per una baracca o un'aula scolastica divisa da coperte. Non fu solo un esodo italiano. Se ne andarono via anche molti sloveni e croati contrari al comunismo. Nella città di Fiume, al 31 maggio 1945, erano rimasti 44.544 abitanti dei 59.332 registrati nel 1940. Tra il 1947 e il 1950 altri 25.000 se ne andarono. Non abbiamo dati certi su quanti se ne andarono negli anni successivi ma si stima che alla fin fine la città abbia perso almeno l'83 % degli abitanti che aveva nel 1940. Quanti gli assassinati e quanti gli esuli dalle terre adriatiche cedute? Da 10.000 a 20.000 gli uni, da 250.000 a 350.000 gli altri. Meglio sottrarsi alla speculazione delle cifre fin che sloveni, croati e italiani non troveranno la forza di lavorare insieme accettando la realtà dei documenti d'archivio più che le suggestioni della politica. I fiumani sono gli unici, fino ad oggi ad aver avuto il privilegio di lavorare a tal fine con l'Istituto croato per la storia offrendo una pietra maestra su cui operare per dare risposte a una storia taciuta. Non per nulla gli orfani di Tito sono insorti gridando al sacrilegio. Essi ignorano la storia condivisa perché vivono ancora nelle favole divulgate dal regime. Noi siamo liberi di sbagliare e loro no. È con questo spirito che le maggiori istituzioni culturali dell'esodo. Società di Studi Fiumani di Roma e IRCI di Trieste, riconosciute per legge, e non dimenticando, oltre confine, il Centro Ricerche Storico di Rovigno, hanno conservato pazientemente la "memoria storica" giuliano dalmata negli anni del silenzio gravante sui libri di testo delle scuole e nella volontà dei governanti. Oltre mezzo secolo di paziente attesa e di incrollabile fede. Ora i giovani apprendono che viviamo ancora e vogliono sapere ciò che i docenti hanno il dovere d'insegnare. Ora che la 'legge del ricordo' ci sdogana dall'oblio cerchiamo che la minoranza italiana superstite, la cultura ufficiale slovena e quella croata lavorino con gli esuli e con gli esuli si confrontino nell'unità della vecchia Europa pacificata.
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4) Corriere della Sera (10/02/'05) - La memoria è libertà dall’ossessione del passato (Claudio Magris).
Le colpe dei criminali nazisti non ricadono sui tedeschi di oggi. E sarebbe un sacrilegio se slavi e italiani usassero i loro morti per attizzare il risentimento reciproco.
La memoria è libertà dall’ossessione del passato
di CLAUDIO MAGRIS
La proposta di ricordare insieme - ossia di equiparare - tutte le vittime dei diversi totalitarismi e delle violenze perpetrate anche da regimi e governi non totalitari ha destato discussioni e proteste, talora ingiuste e talora giustificate. Ingiuste, se si vuole far differenza tra le vittime, come se alcune avessero più diritto di altre di non morire, di non essere assassinate e dimenticate. Le vittime di Auschwitz esigono, individualmente, di essere ricordate altrettanto quanto le vittime dei gulag staliniani, delle foibe titoiste, del lager di Arbe, in Croazia, e di altri in cui noi italiani abbiamo imitato, contro gli slavi, con zelo i nazisti. Se qualcuno vuole escludere dalla pietas e dal ricordo l’una o l’altra schiera di vittime, ha torto. E non bisogna scordare che crimini li hanno compiuti non solo i regimi tirannici, ma pure quelli democratici, responsabili di ciniche ecatombi nel passato più lontano e più recente, massacri che - come quelli che anche adesso si svolgono in tanti Paesi, anche non additati quali Stati canaglia e ignorati dalle televisioni - sono tante volte passati e passano sotto silenzio, perché il grido di quelle vittime non ha la forza di giungere fino a noi, soffocato da un accorto rumore mediatico assordante. Ma l’eguaglianza delle vittime non significa eguaglianza delle cause per cui sono morte. I tedeschi morti nel bestiale bombardamento di Dresda non sono meno degni di memoria e rispetto dei caduti americani e inglesi, ma ciò non può eliminare, in una conciliazione truffaldina in cui come nella notte tutte le vacche sono nere, la sostanziale differenza tra l'Inghilterra di Churchill e la Germania di Hitler. Le vittime delle foibe - alcune delle quali, antifascisti militanti, sono cadute per mano di coloro che consideravano amici e alleati nella lotta contro il nazifascismo - non valgono meno delle vittime della Shoah. Ma non si possono storicamente equiparare le foibe alla Shoah e non solo e non tanto per il divario numerico, ma perché in un caso si è trattato del pianificato progetto di sterminio di un popolo intero e nell’altro di una violenza nazionalista-sociale-ideologica, simile a tanti altri episodi accaduti in analoghe circostanze di guerra e di collasso civile, ma non per questo certo meno orribile o più giustificabile. Perché il lungo silenzio sulle foibe? Chiedono molti che avrebbero potuto e dovuto parlarne. Se i comunisti, come si è detto, hanno cercato di soffocare la loro memoria per interesse politico di parte, gli altri, gli anticomunisti - si è osservato qualche giorno fa in una trasmissione televisiva dedicata all’argomento - hanno taciuto anche perché era interesse dell’Occidente, in quegli anni, tenersi buono Tito nella sua opposizione a Mosca e nella sua leadership dei Paesi non allineati. È certo un bene che l’Occidente abbia vinto, ma non era altrettanto cinico, rispetto a quei morti, consegnarli alla violenza dell’oblio in nome del proprio interesse politico? Ma il silenzio era calato su di loro - come sull’esodo istriano - anche per altre ragioni: per indifferenza, per l’abitudine di concentrare il proprio interesse soltanto sugli argomenti del giorno imposti da un’informazione sempre più concentrata su se stessa, che ha insegnato a parlare solo di ciò di cui si parla, a leggere solo ciò che viene vistosamente imposto e a dimenticare che esistono altri libri e altri giornali, in una crescente gara dei mezzi di comunicazione a diventare sempre più simili e a dire tutti le stesse cose, a parlare tutti dello stesso libro, in un apparente pluralismo che produce gli stessi effetti di un rigido monopolio ideologico. Come ricordava l’altra sera Anna Maria Mori, capitava, in quegli anni, di incontrare gente, anche di media cultura, che chiedeva se Trieste era in Jugoslavia e diceva «Belgrado» e non «Beograd», ma «Pula» e non «Pola». Non credo fosse colpa dei comunisti, ma dell’andazzo culturale del Paese e dunque della sua classe dirigente, che non era comunista, come, contrariamente a quanto si dice, non lo era la maggior parte dell’editoria, responsabile dei testi scolastici, né dell’informazione. In quegli stessi anni in cui il dramma dell’Istria era dimenticato, gli italiani potevano ascoltare tanta propaganda sui comunisti trinariciuti e autori di ogni nefandezza. C’è tuttavia pure un ricordo negativo che pretende di legare irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l’animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non ne hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie. In quegli anni di oblio, il ricordo delle foibe - e, più in generale, dell’esodo istriano - veniva spesso alimentato (e sfruttato politicamente dall’estrema destra) con uno spirito di risentimento e di vendetta che poteva essere comprensibile in chi aveva subito gravi o gravissimi torti, ma rinfocolava quel generico, indiscriminato odio o disprezzo antislavo che era stato una delle origini del dramma provocato e subito dall’Italia ai suoi confini orientali. Ricordare, aver sempre presente Auschwitz non significa coltivare l’odio per i tedeschi di oggi. Ancor più inammissibile e sacrilego sarebbe se gli italiani e gli slavi usassero i loro morti per attizzare odi reciproci, in una terra il cui senso - come hanno visto i grandi scrittori triestini - è la compresenza di culture, l’oppressione o scomparsa di una delle quali significa una mutilazione per tutti. La rappresentazione più autentica di quel mondo l’hanno data in questo senso, da parte italiana, coloro che - come Tomizza, Madieri, Miglia, per citare solo alcuni - hanno narrato senza titubanza e senza regressivi rancori il dramma che l’ ha lacerato, ponendo così le premesse, come altri scrittori da parte slava, per una memoria non più divisa ma condivisa. Il ricordo creativo è libertà, anche dall’ossessione dei luttuosi eventi ricordati: «Getta dietro di te il tuo dolore e sarai libero», dice Rebecca nel Rosmersholm di Ibsen. La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno, dice Bloch, crede nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece nel futuro, alla fine del viaggio.
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5) Il Gazzettino (10/02/'05) - Giorno del Ricordo (Caterina Fradelli Varisco).
GIORNO DEL RICORDO
In occasione del Giorno del Ricordo, istituito per commemorare i martiti istriani, giuliani e dalmati delle foibe e del mare e non dimenticare l'esodo di 350 mila italiani dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, pubblichiamo una pagina dei ricordi di Caterina Fradelli Varisco, nata a Zara nel 1907 e morta a Padova nel 2001, alla quale fu conferito il titolo di cavaliere della Repubblica per il suo impegno per la conservazione delle tombe degli italiani a Zara. Il brano racconta il primo bombardamento della città, il 28 novembre 1943. Il figlio Giorgio Varisco è dirigente nazionale dell'Associazione degli esuli. Era di domenica, quella mattina mi diedi da fare per preparare un modesto pranzo, patate bollite e un po' di carne in guazzetto, un intingolo gustoso. Pensai di preparare anche un dolce, un dolce di guerra, una ricetta semplice : una tazza di polenta, una di farina, una di zucchero ed una di acqua, il latte lo dovevo conservare per la colazione di Gianna e della mamma. Avevo appena cominciato ad impastare quando accadde il finimondo. D'improvviso la casa cominciò a tremare, i vetri andarono in frantumi, le porte sbatterono fragorosamente, l'impasto che avevo preparato con tanto amore finì per terra, le patate messe a bollire volarono come proiettili ed il pesante tavolo della cucina cambiò posizione. Con Gianna in braccio e tenendo per mano mamma mi precipitai verso la porta e mi accorsi con terrore che era rimasta bloccata per lo spostamento d'aria provocato dalle bombe. Sentivamo il fragore dei proiettili che cadevano portando il loro carico di morte. Gianna piangeva spaventata, io e mamma tremanti ci tenevamo per mano rendendoci conto di essere rimaste prigioniere in quella casa che da un momento all'altro poteva trasformarsi nella nostra tomba. Una scheggia passò vicino alle nostre teste ed andò a conficcarsi nell'erta della porta di entrata. Nonostante i nostri sforzi la porta rimaneva saldamente bloccata e cresceva in noi, tra bagliori accecanti ed il fragore delle esplosioni, la fredda sensazione della presenza della morte che sentivamo vicina. Sole e disperate rivolgemmo il pensiero a Dio perché avesse pietà di noi ma non riuscimmo nemmeno a trovare la forza di pregare se non per mormorare quasi insieme l'ultimo lamento dei disperati "Gesù misericordia". Venne la seconda e poi ancora la terza ondata, tutte devastanti e portatrici di morte e di rovina. La terza ondata fece il miracolo insperato offrendoci l'agognata salvezza. La porta, che fino allora aveva resistito ai nostri sforzi disperati, con uno scossone improvviso cadde a terra dalla parte delle scale. In quello squarcio intravidi la salvezza e la mano di Dio, mi precipitai per le scale con Gianna in braccio e mamma accanto gridando "aiuto, aiuto". Fuori era buio pesto, una nuvola nera oscurava il cielo e diffondeva tutto intorno un pesante odore di bruciato, sentivo distintamente voci concitate che dicevano che la casa era stata colpita e che all'appello mancavamo solo noi del quarto piano. (...). Quel giorno all'appello dei vivi mancò solo Mario Carli, un ragazzo d'oro, studente liceale di sedici anni, era figlio del Questore di Zara. Lo ricordo come fosse ieri, un ragazzo educato cui tutti volevamo bene, esuberante e pieno di voglia di vivere. Come tutti i ragazzi della sua età, in quei momenti di continue astinenze, aveva sempre fame tanto da divorare anche le razioni di pane di mamma e papà. Quella mattina decise di recarsi in un panificio di Cereria dove aveva degli amici; mentre attraversava il ponte che divide quel quartiere dalla città vecchia, lo colse la morte quando già sentiva il profumo del pane fragrante del vicino forno. Una bomba maledetta distrusse quella giovane esistenza spegnendo d'un tratto la sua esuberante vitalità giovanile. Lo piangemmo tutti, al suo funerale mancò solo il fratello, combatteva volontario sul fronte africano. (...) A due passi da noi Piazza d'Armi era una rovina, una parte del parco era in fiamme, nel piazzale dietro la scuola industriale fu colpito in peno un parco giochi con le giostre. Nessuno dei bambini che giocavano si salvò, fu un vero macello!(...) Alle tre del pomeriggio, la sirena della Dikat, la difesa aerea, diede il cessato allarme, ma quanta desolazione quando risalimmo nel nostro appartamento. Lo trovammo completamente distrutto. La facciata che dava sul viale era crollata, le pareti divisorie interne non esistevano più, l'argenteria, la cristalleria ed il vasellame erano in frantumi. La parete che dava sul mare, come risucchiata, non c'era più; per paura di provocare nuovi crolli avevamo timore di toccare anche i pochi mobili rimasti. La situazione ai piani inferiori era analoga alla nostra, stessa distruzione e dovunque vuoti angoscianti. Raccogliemmo quel poco che si poteva delle povere cose rimaste, mettendo tutto alla rinfusa in alcuni sacchi, soprattutto i generi alimentari tanto necessari per un futuro che appariva sempre più incerto. Ci fu chiaro l'obiettivo del bombardamento in quella zona della città, la sua determinata esecuzione era di colpire la vicina Centrale Elettrica, si voleva mettere in ginocchio la città privandola di un bene indispensabile come luce. Con la disperazione nel cuore e pochi fagotti tra le braccia scendemmo di nuovo le scale camminando con grande cautela, le scale erano seriamente lesionate e pericolanti. Nel rifugio decidemmo tutti di cercare un'altra casa dove andare a vivere, Zara era stata dovunque duramente colpita e giudicammo tutti impossibile restare inerti ad aspettare la morte sotto i bombardamenti.
Caterina Fradelli Varisco
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6) La Voce di Romagna (07/02/'05) - Romagna :Il "treno della vergogna" viaggiò sui nostri binari (Aldo Viroli).
Il 10 febbraio del 1947 veniva firmato a Parigi il Trattato di pace, che comportò l'assegnazione alla Jugoslavia dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia. L'anniversario di quell'evento che provocò l'esodo di massa della popolazione italiana è diventato legge dello Stato, giovedì 10 sono in programma cerimonie in varie città, questa sera su Rai 1 andrà in onda la seconda e ultima puntata della fiction 'Il cuore nel pozzo', dedicata alla tragedia delle Foibe, PosteItaliane dedicherà al 'Giorno del ricordo dell'esodo' un francobollo da 45centesimi. Oltre un migliaio di esuli si stabilì in Romagna, i legami culturali e commerciali tra le due sponde dell'Adriatico erano intensi, la marineria romagnola era di casa nei porti istriani, di Fiume e della Dalmazia. Da ricordare anche i pellegrinaggi da Fiume e dall'Istria verso Ravenna per rendere omaggio alla tomba di Dante, il senatore fiumano Riccardo Gigante, assassinato dagli slavi nel maggio del 1945, ne organizzò due, nel 1908 e nel1911. Secondo i dati forniti dall'Opera per l'Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, nel 1958 gli esuli residenti in Romagna erano oltre 1.200. Nella provincia di Forlì, che comprendeva anche Rimini, se ne contavano 714, in quelladi Ravenna 534, mentre nella vicina Pesaro erano 964. Nel 1948 il cavalier Arpad Bressanello, fiumano trapiantato a Forlì dove era in servizio presso la locale Prefettura, ne aveva censiti circa 350. L'esodo, se si esclude il caso di Pola che era sotto il controllo degli Alleati, andò avanti fino ai primi anni '60. Chi non riusciva a ottenere dalla autorità jugoslave il riconoscimento dell'opzione per l'Italia tentava la fuga, spesso via mare, non tutti riuscirono nella disperata impresa, sulle spiagge romagnole vennero rinvenuti diversi cadaveri di sventurati.
Aldo Viroli
Per molti esuli l'impatto con la madre patria fu traumatico, dopo essersi visti costretti ad abbandonare le case e i propri averi, si videro spesso accolti con manifestazioni di aperta ostilità. Non poche famiglie erano state colpite anche dalla tragedia delle foibe. Un altro capitolo praticamente sconosciuto è quello dei campi profughi, che in pratica erano veri e propri campi di prigionia. Viaggiò sui binari romagnoli quello che negli ambienti degli esuli è passato alla storia come 'il treno della vergogna'. La testimonianza viene da Lino Vivoda, per anni sindaco del Libero comune di Pola in esilio, che ha ricordato la vicenda nel suo libro 'Campo profughi giuliani caserma Ugo Botti La Spezia'. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Imperia, dove vive. Aveva 15 anni quando il 16 febbraio del 1947, era una fredda domenica, s'imbarcò a Pola con i genitori sul piroscafo Toscana e non immaginava certo l'accoglienza che avrebbe ricevuto dalla madre patria. Ad Ancona l'impatto fu tremendo. Gli esuli - racconta - dal ponte della nave, agitavano le mani in segno di saluto, con le bandiere al collo, anche perché faceva freddo e nevicava, chi li aspettava sulle banchine rispondeva col pugno chiuso. La sera di lunedì 17 gli esuli salirono su un lungo treno di carri bestiame che li avrebbe condotti a La Spezia. Le recenti nevicate avevano fatto scendere notevolmente la temperatura, ma per combattere il freddo non avevano altro che cumuli di paglia. Dopo aver fermato praticamente in tutte le stazioni per gli incroci o per dare la precedenza ad altri treni (la linea Ancona - Bologna era ancora in fase di ricostruzione), il 'treno della vergogna' martedì, poco dopo mezzogiorno, fece il suo ingresso nella stazione centrale di Bologna. La Poa (Pontificia Opera di Assistenza) e la Croce Rossa avevano preparato un pasto caldo, atteso soprattutto dai bambini e dai più anziani. Dall'altoparlante arrivò un annuncio minaccioso: se il 'treno dei fascisti' non fosse ripartito al più presto, i ferrovieri sarebbero scesi immediatamente in sciopero. I pasti della Poa vennero poi trasportati a Parma con automezzi dell'esercito e distribuiti in serata dalle crocerossine. A Fiume, che all'epoca dei fatti faceva parte dell'Impero Austro Ungarico, era attiva l'associazione irredentista 'Giovine Fiume', che venne iscritta alla Lega Nazionale di Trieste. Quando a Fiume nel 1908 arrivò la notizia che gli irredenti di Trento, Trieste, Gorizia, Istria e Dalmazia intendevano compiere un pellegrinaggio a Ravenna per offrire alla tomba di Dante un'ampolla per l'olio destinato a alimentare una lampada votiva, Riccardo Gigante si attivò immediatamente perchè Fiume non doveva essere da meno. La vicenda viene ricordata da Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani, nel libro 'Quell'uomo dal fegato secco, in cui rievoca la figura del senatore. Fiume avrebbe donato una corona di quercia in argento per ornare la stalattite carsica destinata a reggere l'ampolla. I fiumani offrirono l'argento necessario a fondere un busto e una ghirlanda. La fusione venne curata dalla fonderia Skull, la cesellatura nel laboratorio di oreficeria del padre di Gigante, seguendo il modello di cera dello scultore De Marco. La 'Giovine Fiume'ripeterà il pellegrinaggio a Ravenna nel 1911, sul piroscafo 'Romagna' siimbarcarono in 400. Nel gruppo c'erano anche delle spie del governo ungherese, che al ritorno a Fiume stilarono un dettagliato rapporto sufficiente a far sì che il governatore ungherese della città disponesse lo scioglimento dell'Associazione. Ballarini sottolinea come nessuno allora potesse prevedere quali tragedie si sarebbero abbattute sulle famiglie degli artigiani e degli artisti che si erano impegnati per portare a Ravenna un omaggio a Dante. Il figlio di Skull, Nevio, e il figlio di Gigante, Riccardo, verranno assassinati dagli slavi nel maggio del 1945, il figlio di De Marco, Vittorio, cadrà combattendo a Doberdò nel 1917. Grazie alla testimonianza della vedova del maresciallo della Guardia di Finanza Vito Butti, che condivise l'orribile fine del senatore, è stato possibile individuare la fossa comune nel bosco di Castua, nei pressi di Fiume, dove vennero gettati i corpi di Gigante e di una decina di altri sventurati. E' stata avviato l'iter con le autorità croate per l'apertura della fossa e per dare a Gigante e alle altre vittime una cristiana sepoltura. E' difficile quantificare il numero delle vittime delle foibe e di quanti non tornarono dai campi di concentramento jugoslavi. Tra gli scomparsi c'è anche il nonno del dottor Alberto Urizio, libero professionista e forlivese d'adozione. Di Antonio Urizio si sono perse le tracce a Umago (ex zona B del Territorio libero di Trieste, oggi Croazia) la sera del 4 agosto del 1946. Episodi del genere erano purtroppo molto frequenti. "Quasi ogni sera - racconta il nipote - era solito giocare a carte con il parroco e altri amici. Quella notte in canonica erano presenti l'ufficiale postale, Paolo Chittero, e un'altra persona di cui non ricordo il nome. Verso le 22, raccontò il parroco, smisero di giocare e ognuno prese la via di casa. Da allora di mio nonno non si è saputo nulla". Antonio Urizio, classe 1893, originario di Cittanova d'Istria, si era trasferito a Umago dove commerciava prodotti edilizi. Non si era mai impegnato in politica. "Da alcune voci raccolte in paese da mia zia, Maria Loss, fu vittima di una delazione, quindi prelevato e gettato in qualche vicina foiba. Altri appartenenti alla famiglia Urizio subirono arresti a scopo intimidatorio e vennero liberati con l'ordine di lasciare Umago. "Mio zio paterno Remigio, ufficiale dell'esercito, subì un processo 'popolare' con l'accusa, falsa, di aver comandato un plotone d'esecuzione. Assolto dal giudice, un ufficiale ungherese divenuto partigiano, venne rilasciato. In famiglia gli consigliarono di raggiungere immediatamente Trieste. Lo fece in tempo, la sera stessa i titini si presentarono a casa per prelevarlo. La famiglia Urizio si trasferì a Trieste, il padre del dottor Alberto, ufficiale di Marina, sposò una forlivese. Alberto Urizio anche recentemente ha cercato, invano, di avere notizie sulla fine del nonno da parte delle autorità croate. A Cesenatico è venuto recentemente a mancare all'età di 82 anni, il rovignese Giovanni Zanetti, esule dalla sua città dall'estate del 1946. Era il nonno di Axel Famiglini, ideatore dalla Mailing Histria 'www.mlhistria.it' - una vera e propria 'rete' per tutti gli esuli istriani, fiumani e dalmati sparsi nel mondo - e fratello di Matteo, che riuscì a fuggire dalla sua Rovigno dopo un'avventurosa traversata dell'Adriatico. Era nato il 4 gennaio 1922, secondo di sei fratelli. Iniziò a lavorare molto presto nella barca dello zio Andrea fino a quando ebbe l'età regolamentare per imbarcarsi come marittimo sulle navi passeggeri che facevano rotta verso i paesi del Mediterraneo orientale. Nel 1942 prestava servizio in Marina a Pola, dove ebbe occasione di conoscere Aimone di Savoia, che aveva a disposizione una barca da diporto sulla quale Zanetti era stato imbarcato come motorista. Catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre riuscì a fuggire in modo roccambolesco da un campo di smistamento a Modena passandoattraverso le fogne e a tornare a Rovigno, dove venne costretto ad arruolarsi dai tedeschi. Quando il suo reparto venne portato al nord, in prossimità del confine, Giovanni Zanetti, preso dal timore di essere destinato a combattere in Austria, assieme ad altri rovignesi disertò e, con molta fortuna, in treno fino a Trieste e poi a piedi e in barca, tornò a Rovigno dove si nascose fino al termine della guerra presso dei parenti. Con l'occupazione di Rovigno da parte delle truppe del maresciallo Tito, venne indetta un'ulteriore leva alla quale era obbligato anche Zanetti, ma tramite i parenti riuscì a trovare un'occupazione alle dipendenze della Capitaneria di Porto della cittadina istriana. Nel frattempo si era sposato. "I tempi - racconta il nipote Axel Famiglini - erano molto cambiati a Rovigno e il terrore e la paura causati dal regime titino erano un duro peso su tutta la popolazione. Mio nonno sempre più mal sopportava il clima di oppressione che si era creato e, visto che era pescatore, il peggioramento delle condizioni di vita accentuate da una politica economica errata che non dava respiro alla sua categoria. La situazione precipitò nel giugno del 1946, quando mio nonno fu promotore di uno sciopero di pescatori che ebbe successo ma che suscitò contro di lui le ire dei rappresentanti locali del regime. Avvertito da un amico che la sua situazione stava precipitando, il 26 giugno 1946 (alle 15 ora solare) lasciò Rovigno per non farvi più ritorno se non come turista una trentina d'anni dopo. Da Rovigno mio nonno trovò riparo a Trieste. Dopo essere riuscito a far scappare anche mia nonna, si trasferirono a Chioggia dove continuò la sua attività di pescatore. Nel 1948 tentarono l'esperienza di Fertilia, in Sardegna, e fu tra coloro che con i pescherecci fecero il periplo dell'Italia partendo da Chioggia. Fertilia tuttavia fu una delusione poiché il lavoro non dava i frutti sperati, pertanto mio nonno andò a cercare lavoro a Genova, dove si trasferì con mia nonna, e si imbarcò sulle navi passeggeri con la società Italia prima e poi con l'americana "Texaco" sulle petroliere in qualità di tanchista". Nel 1961 si trasferì con tutta la famiglia a Cesenatico per pescare con il fratello Matteo che era vi era giunto nel luglio del 1948 dopo aver attraversato l'Adriatico in fuga da Rovigno. Passò gli ultimi cinque anni di lavoro a bordo dei pescherecci di Cesenatico. Andò in pensione nel 1982 all'età di 60 anni, rimasto vedovo nel 1992, continuò a praticare attivamente la vita di mare fino al 1996 anno in cui, per problemi di salute, dovette rinunciare alla sua grande passione. È venuto a mancare il 23 marzo del 2004.
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7) Il Secolo XIX (09/02/'05) - Io, fiumano-busallese-genovese (Francesco Fatutta).
«Io, fiumano-busallese-genovese»
FRANCESCO FATUTTA*
RICORRENZE Domani è il giorno della memoria per commemorare l'esodo dall'Istria
L'odissea di un profugo giunto con la famiglia a Sarissola nel 1947. Una volta scesa dal treno alla stazione di Ronco Scrivia, in quella piovosa mattinata del 25 maggio 1947, mia madre era scoppiata in un pianto dirotto. Di certo non il primo nella difficile settimana che ci aveva visto lasciare Fiume per sempre. Soltanto poche ore, però, e si era sentita più rasserenata, dopo che l'accelerato Alessandria-Genova ci aveva lasciato a Busalla e che avevamo raggiunto Sarissola, nostra meta finale, illuminata da un raggio di sole nel suo verde tranquillizzante di allora. Questo primo impatto con la Terra di Liguria non posso non ricordarlo, anche se all'epoca avevo soltanto due mesi di vita, dato che mi è stato narrato centinaia di volte, divenendo così parte integrante della mia memoria. Dopo che il Trattato di Parigi aveva assegnata alla Jugoslavia le province italiane di Fiume, Pola e Zara, avevamo lasciato la nostra città su un autocarro scoperto, in una primavera per fortuna mite. Poi il passaggio del confine con le ultime perquisizioni dei poliziotti slavi alla ricerca dichissà cosa, la sosta di alcuni giorni a Trieste, allora occupata dalle forze alleate, e infine il lungo viaggio in treno. Devo dire che rispetto ad altri esuli, noi eravamo fortunati. Ci era stata infatti risparmiata la sconvolgente sosta in uno dei campi-profughi, sorti in varie parti d'Italia, e ci aspettava una vera casa. Mio padre, infatti, come molti altri capifamiglia giunti a Busalla, era un ufficiale della Tirrenia e la società si era attivata per trovare un alloggio dignitoso ai suoi dipendenti. Il mobilio e tutte le nostre cose giunsero pochi giorni dopo con un treno merci; così, lasciata la famiglia fiumana che ci aveva ospitato in quei primi momenti, ci trasferimmo nel complesso di villa Natini. A Busalla era concentrato più di un centinaio di famiglie fiumane, una sorta di "invasione pacifica", ma pur sempre un'invasione. Dialetto, usi, costumi diversi, una mentalità rigida, di derivazione austro-ungarica, che ci rendeva aperti nel nostro ambito ma chiusi verso l'esterno. E proprio quest'ultimo aspetto, riscontrabile anche nel carattere ligure, è stato il fattore aggregante fra le due comunità. Così, poco a poco, la vita quotidiana per le donne, la scuola per i bambini, il viaggio sino a Genova e ritorno per gli studenti e i lavoratori non naviganti, avevano favorito i primi contatti umani. Ai più piccoli, come me, era affidata la scoperta di ciò che ci circondava e che sarebbe divenuto patrimonio nei ricordi: i fari dell'autocorriera che illuminavano a sera la strada per Crocefieschi, il traffico sulla "camionale" che, in braccio a mia sorella, osservavo incantato senza stancarmi, il lento incedere di un massiccio cavallo che trainava un carro a due ruote, carico di sabbia prelevata dalla Seminella. La convivenza tra i nativi e i "foresti" non venne scalfita neppure dall'esito delle elezioni del 1948, che avevano visto anche a Busalla la sconfitta del Fronte Democratico Popolare, a cui aveva contribuito il voto degli esuli. Forse un po' di sconcerto, forse qualche mugugno, ma nulla più e l'unica voce controcorrente che minacciava di «...rispedirci su carri piombati ai titini (nomignolo da noi affibbiato ai partigiani comunisti di Tito)...» non apparteneva a un ligure. E lo stesso rispetto, che molti esuli in quei primi anni non hanno conosciuto in altre parti d'Italia, lo abbiamo trovato nella nostra seconda tappa ligure, a Nervi, ove ci siamo trasferiti nel 1952, alla ricerca di quel mare, saldamente ancorato nel nostro patrimonio genetico, che purtroppo Busalla non poteva offrirci. Anche qui una lenta ma costante aggregazione per i "veneti", come spesso venivamo definiti, per l'abitudine di usare ancora il dialetto fiumano. E i pochi che, nell'ambito della scuola o del lavoro, per ideologia o ignoranza, mi hanno chiamato "jugoslavo" (per noi un'offesa), non erano di ceppo ligure. Più volte mi è stato chiesto perché continuo a ricordare le mie origini, anche se quasi tutta la mia vita si è svolta a Genova e provincia. Lo faccio per non condannare la mia città natale, Fiume, nel suo unico vero nome, ad un oblio cui è destinata quando la mia generazione sarà scomparsa. E non credo di offendere nessuno nel definirmi fiumano-busallese-genovese, cosa di cui vado fiero.
*esperto militare, esule fiumano
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8) Il Giornale (08/02/'05) - Piero Tarticchio:" La mia famiglia trucidata dai titini " (Domizia Carafoli).
Stasera a «L ‘Antipatico» Maurizio Belpietro intervista lo scrittore polesano Piero Tarticchio, figlio di italiani infoibati
“ La mia famiglia trucidata dai titini ”
D0MIZIA CARAFOLI
Parliamone ancora, per non dimenticare. E per rompere un silenzio ufficiale durato quasi sessant’anni. Questa sera a L’antipatico in onda alle 0,30 su Canale 5, il direttore del Giornale Maurizio Belpietro rievoca il dramma delle foibe intervistando Piero Tarticchio. Nato a Gallesano, vicino a Pola, Piero Tarticchio, figlio di un infoibato, è un personaggio molto conosciuto tra i profughi dei nostri territori orientali ed è anche un poliedrico uomo di cultura, giornalista, scrittore ed artista. Nel 2003 ha pubblicato per Baldini Castoldi Dalai un romanzo storico, Nascinguerra, storia di una famiglia italiana che ha le radici in Istria. Nascinguerra (è il nome emblematico del protagonista, uomo nato in guerra e dalla guerra) muore nel romanzo di Tarticchio proprio nel febbraio 1947, nei giorni tragici in cui l’ingiusto trattato di pace imposto all’Italia sconfitta sancì la tragedia delle genti istriane, dalmate e giuliane. Ma Tarticchio la tragedia l’ha vissuta sulla propria pelle. Della sua famiglia; sette furono vittime della ferocia titina: il padre, lo zio e cinque cugini. Il padre fu infoibato, un cugino, parroco, venne torturato a morte e il suo cadavere fu poi mostrato alla madre e alla sorella con una corona di spine in testa. All’epoca del massacro, Piero Tarticchio era un bambino di otto anni. La sua famiglia, benestante, aveva un negozio di alimentari che si affacciava sulla piazza principale di Gallesano, borgo alla periferia di Pola. Scrive Tarticchio in Nascinguerra: «Dei 32.000 abitanti di Pola, 28.000 optarono per l’Italia. Come il lupo, la cui zampa è rimasta imprigionata nella tagliola che, pur di rag giungere la libertà, non esita a staccarsi a morsi l’arto imprigionato, così fecero gli istriani: strappando le radici che li legavano alla loro terra e disperdendosi nei cinque continenti fmo ai confini del mondo. Non fu un atto di coraggio a decidere la loro sorte, ma la spinta che viene dalla disperazione ». Fuggirono in quasi 400.000, alcuni diretti all’estero, i più verso quell’Italia «creduta madre per lingua e tradizioni, ma che accolse i suoi figli con il cuore duro di una matrigna». Sì, perché una volta scampati all’eccidio, i profughi si trovarono di fronte all’indifferenza, se non all’aperta ostilità di un Paese, la cui classe dirigente li consideravà ospiti indesiderati. Importante, in quel momento, era non irritare ll Pci e lo scomodo vicino al di li dell’Adriatico. Piero Tarticchio non ha digerito l’affermazione che Giulio Andreotti ha fatto il 3febbraio a Porta a Porta: «È stato un bene che non si sia parlato dell’Esodo e delle foibe per non creare turbative presso il Pci e non compromettere i rapporti di buon vicinato con Tito». Ma arriva sempre il momento in cui la viltà di un colpevole silenzio viene smascherata. E quel momento è arrivato per i cittadini di Fiume, di Pola, di Zara, per quelli che sono morti e per i loro discendenti che quelle terre non hanno conosciuto. Di questo stasera parlano Belpietro e Tarticchio, che non ha mai saputo qual è il crepaccio carsico che da quasi sessant’anni è la tomba di suo padre.
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9) L'Arena (07/02/'05) - Verona : Sardos Albertini: "Un intero popolo e la sua cultura distrutti dalla pulizia etnica".
Verona accolse gli scampati alle foibe
Il giorno del Ricordo
Il presidente veneto dell’Associazione Venezia, Giulia e Dalmazia raccontagli eventi che portarono in città la comunità di profughi italiani sfuggiti agli orrori dei miliziani di Tito durante la Seconda Guerra Mondiale Sardos Albertini: «Un intero popolo e la sua cultura distrutti dalla pulizia etnica» A ricordare, adesso, sono rimasti soprattutto quelli che allora erano bambini, adolescenti e giovani. E così le loro storie hanno l’immediatezza della paura e la precisione di un ricordo rimasto indelebile. L’ignoto di allora, quando sono arrivati in braccio o per mano di mamma e papà, è oggi il loro mondo quotidiano, quella che poi è diventata la seconda loro patria. Dagli occhi del papà e dalle lacrime della mamma hanno imparato subito che cosa fosse l’angoscia della fuga, il rischio cui andavano incontro in un futuro che era incerto. La storia dell’esodo dei profughi istriani, dalmate e giuliani che hanno trovato rifugio a Verona, dal 1943 al 1954, in vari momenti, in varie ondate, per sfuggire ad una morte sicura, quanto crudele, gettati dai soldati miliziani di Tito nelle profondità delle pietraie carsiche, le Foibe appunto, ci è stata raccontata dai profughi che hanno trovato una nuova casa a Verona, in occasione della prima ricorrenza del Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo degli Italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, il 10 febbraio. È fatta soprattutto di tanti ricordi individuali, di tante famiglie: non è stato l’Esodo di un popolo unito, ma di gruppi di famiglie, (anche se quasi tutti se ne sono andati via) e, forse anche per questo, oltre ad una serie di pregiudiziali politiche che hanno pesato almeno sino al 2001, non è stato raccontato dalla Grande Storia e non è comparso mai sui libri di testo scolastici. Dalle testimonianze che abbiamo raccolto, a Verona e provincia sono arrivate in vari momenti 800 famiglie di profughi istriani, fiumani e dalmati e ognuno di questi nuclei era formato da 3/4 persone, marito, moglie e 1 o 2 figli: in tutto non meno di 3 mila persone. Qui, da noi, a differenza di Torino, Vicenza, Roma non sono sorti villaggi per accogliere i profughi, come previsto dalla legge 137 del 1952, ma è indubbio che si è trattato di un numero considerevole. «Il grande esodo degli italiani dai territori occupati dalla Jugoslavia alla fine della II guerra mondiale dà una cifra colossale: 350 mila persone, tra le quali 20 mila dalla sola Pola», esordisce l’avvocato Gian Paolo Sardos Albertini, nato in Italia da padre capodistriano e madre dalmata. È attualmente presidente della Consulta veneta dell’Associazione nazionale Venezia, Giulia e Dalmazia (in sigla Anvgd) nonché dirigente nazionale della stessa associazione. Aggiunge l’avvocato: «I numeri di questa tragedia sono ben noti: 350 mila dei 400 mila residenti nelle zone dell’Istria e della Dalmazia sono venute profughe in Italia e molte di loro si sono poi trasferite all’estero, in Australia, negli Stati Uniti, in Sud America, 20 mila sono i morti che sono stati gettati nelle Foibe o mandati nei campi di concentramento. Sono rimasti solo 30 mila. Un intero popolo con la sua cultura è stato completamente distrutto. Ed alla tragedia collettiva si aggiungono tante tragedie familiari: la maggior parte di questi profughi aveva dei parenti, molti dei quali sono stati uccisi dai miliziani di Tito». Il momento più drammatico? «Certamente dall’8 settembre del ’43 sino alla ripresa del controllo del territorio da parte delle Forze tedesche e della Repubblica Sociale, avvenuta circa due mesi dopo. In questi mesi vi fu una vera e propria mattanza, motivata prevalentemente da ritorsioni, anche di carattere personale. Fu solo in seguito che fu messa in atto scientificamente da parte di Tito e dai propri collaboratori una vera e propria pulizia etnica per giustificare la presa di potere da parte del regime comunista jugoslavo dei territori che sono sempre appartenuti all’Italia. In buona sostanza, Tito, per raggiungere l’obiettivo di occupare e di estendere il regime anche sui territori italiani, ha sfruttato ed alimentato l’odio etnico, allontanando con la forza, con la violenza e con la minaccia la popolazione italiana esistente. Vi è poi da considerare che dal giugno del 1943 sino alla fine della guerra le popolazioni istriane vissero una situazione per altri versi drammatica: da una parte i miliziani comunisti di Tito, che di notte scendevano nelle città e costringevano i giovani ad arruolarsi tra i partigiani e di giorno i fascisti ed i nazisti che, d’altro canto, chiedevano ai giovani di arruolarsi nella Repubblica Sociale o, altrimenti, li deportavano in Germania. In realtà la pregiudiziale fascista è rimasta ai profughi, tant’è vero che al loro arrivo in Italia, soprattutto nelle città di Venezia, Ancona e Bologna, vennero accolti in malo modo, con sputi ed insulti al grido di "Fascisti! Tornatevene a casa!"». La situazione fu poi drammatica dopo la fine della guerra e precisamente a Trieste, allorquando il 1 maggio del ’45 la città venne occupata dalle truppe di Tito e per 45 giorni vi fu una vera e propria pulizia etnica della città. Ben 8 mila persone scomparvero e ben 4 mila non ritornarono più, morte nelle Foibe o deportate nei campi di concentramento. Ma il grande esodo praticamente iniziò dopo la fine della II guerra mondiale e dopo il 10 febbraio del ’47 quando, con il Trattato di pace, si persero definitivamente le speranze di poter conservare l’italianità di parte dei territori e la città di Pola, che era rimasta occupata dagli anglo-americani a difesa delle forze di Tito, si svuotò completamente dell’intera popolazione. Dopo la fine della guerra e soprattutto dopo il 1947 è, quindi, avvenuto il grande esodo definitivo degli Italiani. Esodo che poi è continuato nel 1954 per quanto riguarda i Territori della zona B (Capodistria, Porto Rose, Umago e Pirano) che con il Memorandum di Londra vennero assegnati all’Amministrazione civile jugoslava. Con tale Trattato, infatti, si sancì il ritorno definitivo dell’Amministrazione civile nella zona A (Trieste all’Italia) mentre la zona B rimase sotto l’Amministrazione jugoslava, pur permanendo su tale territorio la sovranità italiana. «Sovranità», dice Sardos Albertini, «venne, inopinatamente e senza motivazione alcuna, ceduta alla Jugoslavia nel 1975 con il Trattato di Osimo, allorquando l’Italia vi rinunciò definitivamente. Fu una rinuncia che, avvenne in maniera illegittima dato che se la sovranità sulla zona B era italiana, al fine di poter modificare i confini della Repubblica era necessaria una legge costituzionale, dato che la nostra Costituzione afferma che la Repubblica Italiana è "una ed indivisibile". E per tale violazione il codice penale prevede la pena dell’ergastolo. Ma denunciare oggi i parlamentari che all’epoca ratificarono il Trattato di Osimo, sarebbe giuridicamente corretto ma politicamente, a distanza di oramai 30 anni, forse, inopportuno. E fu proprio nel 1975 che si verificò l’ultimo esodo in quanto con il Trattato di Osimo i confini della zona A e della zona B vennero ulteriormente, sia pure lievemente rettificati a favore della Jugoslavia ed un paese che faceva parte della zona A venne assegnato alla Jugoslava e i suoi 300/400 abitanti furono costretti all’ultimo esilio». Ma qualcuno è tornato? «No», risponde l’avvocato, «se non per le vacanze.Ormai queste famiglie sono veronesi a tutti gli effetti ma resta in tutti la volontà di salvaguardare la propria identità e la storia della propria famiglia. Tutti gli italiani a Natale tornano ai paesi e alle città da dove partirono nei decenni passati le loro famiglie. Solo a noi questo non è stato dato». Oggi, comunque, gli esuli «veronesi» si sono ritrovati più uniti che mai e da ormai cinque anni hanno ricostituito la loro associazione, con il comitato provinciale dell’Anvgd. La loro presidente è una giovane avvocatessa, con mamma esule, Francesca Briani: «Nel ’99, un gruppo di esuli ha organizzato un convegno alla Gran Guardia a cui ha partecipato la scrittrice Anna Maria Mori. L’affluenza è stata enorme. Così, grazie ad un registro conservato da Giuseppe Piro, uno dei primi esuli arrivati a Verona, che, da ragazzo aveva trascritto i nomi dei profughi, è iniziata una laboriosa ricerca. Migliaia di telefonate e di contatti e, dopo un lungo e certosino lavoro, abbiamo chiamato tutti a raccolta». Nel 2001 è stata inaugurata la sede dell’associazione, in via Lussino 33. Curioso no? Lussino è un’isola del Quar Quarnaro. Rimane aperta normalmente nei pomeriggi della settimana ed è divenuto un luogo di ritrovo per gli esuli ed anche per i figli. Aggiunge la presidente: «L’Associazione a Verona conta oramai 500 iscritti: di essi 300 sono esuli o discendenti che non vogliono perdere la memoria e gli altri 200 sono veronesi che condividono la nostra causa. Il nostro obiettivo è aprirci sempre di più alla cittadinanza veronese, in fondo ai nostri concittadini».
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10) Corriere di Romagna (05/02/'05) - Edoardo Burrini : Lavoravo a Zara per la Cmc e ho visto nascere le Foibe" (ro.em.).
Lavoravo a Zara per la Cmc e ho visto nascere le Foibe”
Ravenna - Allora aveva appena 18 anni. Adesso ne ha 82. Edoardo Burrini ha qualche acciacco, ma la memoria funziona ancora bene. E lui ha visto cose agghiaccianti, difficili da dimenticare anche se ormai è trascorso tanto tempo.“Ora - dice - si parla molto di Foibe e io sono stato testimone diretto di fatti che certamente con le Foibe hanno un nesso”. La sua testimonianza riguarda soprattutto quella serie di eventi, a loro volta terribili, che fecero in un certo senso da prologo a quel pezzo di storia fino a qualche tempo fa poco indagato.Racconti signor Burrini: per quale motivo si trovava in quei luoghi teatro di tragici avvenimenti?“Nel settembre 1939 fui assunto come impiegato dalla Cmc di Ravenna, che aveva numerosi uffici e cantieri in molte parti d’Italia. Nella primavera del 1941 fui trasferito all’ufficio di Zara, dove la Cmc., con logo ‘La Ravennate’, operava fin dal 1933. Avevo 18 anni, ero appena arrivato, quando l’Italia e la Germania dichiararono guerra anche alla Jugoslavia. La durata di quella guerra fu di circa una settimana. Subito i ‘vincitori’ suddivisero il territorio conquistato più o meno così. La costituzione del Regno di Croazia con nomina a re di Aimone di Savoia (che però non si insediò mai) e un 'duce’ (Poglavnik) Ante Pavelic sostenuto da una milizia feroce pari alle SS tedesche e alle brigate nere fasciste. Poi una fascia litoranea, da Fiume alle bocche di Cattaro, denominata Dalmazia, fu assegnata all’Italia e governatore fu nominato il gerarca Bastianini. Il restante territorio jugoslavo fu appannaggio della Germania hitleriana e di alcuni suoi alleati minori. Con la costituzione del Governatorato della Dalmazia, immediatamente cominciarono ad affluire nel territorio reparti di camicie nere denominati Battaglioni M”Cos’erano i Battaglioni M?“M stava per Mussolini. Le camicie nere sostituirono in gran parte il regio esercito nel servizio di ordine pubblico, ma in particolare nella caccia ai banditi, cioè ai patrioti jugoslavi che si opponevano all’occupazione del loro territorio nazionale. Nella sostanza, la storia della Resistenza al nazifascismo ha inizio in territorio Jugoslavo. I battaglioni M applicarono la politica dell’italianizzazione forzosa e violenta, cioè la stessa che, all’avvento del fascismo, dopo la prima guerra mondiale, era nota come ‘la bonifica dei carsi’ . Incendiarono villaggi, stuprarono donne, impiccarono e fucilarono uomini per il solo sospetto di essere anti italiani, uccisero vecchi, donne e bambini, seminarono terrore e odio. Si passavano alle armi all’istante tutte le persone che per qualunque causa fossero rimasti feriti”.Cose agghiaccianti, terribili.“Sì. A Sebenico, città a sud di Zara, dove mi recavo saltuariamente per commissionare la fornitura di laterizi, sabbia, ghiaia, ho più volte visto cittadini jugoslavi impiccati appesi ai lampioni del lungomare, a volte a testa in giù. La prima volta che vidi quel triste spettacolo chiesi ad un milite fascista quali erano i motivi di tante, impiccagioni e la testuale risposta fu: ‘Caro camerata, erano tutti sporchi banditi anti italiani, e questo è ancora poco’. Potrei testimoniare altri fatti di violenza feroce nei confronti di tanti cittadini jugoslavi i quali, purtroppo, trovavano consenso ampio nella grande maggioranza della popolazione italiana residente in Dalmazia. In Italia, invece, quei fatti furono praticamente ignorati”.Lei si trovava là per motivi di lavoro. Quali erano i rapporti con la popolazione?“L’attività della Cmc riguardava la costruzione di case popolari, caserme, interventi portuali, ristrutturazione e ampliamento di varie fabbriche (Zara era porto franco e c’erano molte fabbriche di sigarette, liquori, cioccolata, eccetera). Le maestranze si componevano di 50/60 operai specializzati e capi cantiere trasferiti da Ravenna, mentre alcune centinaia di operai provenivano dalle zone occupate limitrofe a Zara. Posso testimoniare che gli operai jugoslavi trovarono nella Cmc pieno rispetto umano, oltre che salario contrattuale garantito, regolarizzazione contributiva, assistenza sanitaria, stessa razione supplementare di pane che spettava agli addetti ai lavori pesanti. Noi della Cmc godevamo della fiducia e della stima da parte degli ex jugoslavi”.Poi prima che accadesse il peggio lei tornò in Italia.“Nel marzo 1943, un operaio jugoslavo chiese di potermi incontrare privatamente. La sostanza del colloquio fu: ‘Caro Burrini tu sei un bravo giovane e devi avere molta cura di te, ti consiglio di trovare un motivo per rientrare al più presto a Ravenna; la guerra sarà perduta per l’Italia e la Germania e allora, con molta probabilità, ci sarà una dura reazione che sarà purtroppo indiscriminata a causa della ferocia e dell’odio sparsi a piene mani dai nazifascisti’. Meditai seriamente su quelle parole e, con la scusa di una vacanza a casa, a fine luglio ritornai a Ravenna e ci rimasi. Venne l’8 settembre 1943 e tutte le previsioni di quell’ operaio jugoslavo si sono avverate. Le foibe, le stragi, le torture, allora come oggi, come sempre, sono figlie della guerra. Per quanto mi riguarda, dall’8 settembre ’43 al 15 maggio 1945, giorno di smobilitazione della 28^ Brigata Garibaldi, ho sempre combattuto i nazifascisti. A mio avviso, non si può parlare di foibe e dell’esodo dimenticando il ‘prima’”.
ro. em.
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11) L'Arena (07/02/'05) - Verona - La testimonianza : Mario Marini, da Zara a Veronetta.
La testimonianza.
Marini, da Zara a Veronetta
Nella sua vita c’è tutta la storia più drammatica della sua città, Zara: Mario Marini, classe 1919, oggi 85 anni, residente in via XX Settembre, è nato nella capitale della Dalmazia, quando la città era stata appena strappata all’impero austroungarico di Francesco Giuseppe e poi nel ’20 con il trattato di Rapallo è passata all’Italia. «Avevo un anno quando sono diventato italiano», esordisce Marini, «e sono il testimone oculare dei 54 bombardamenti che nel ’43 hanno distrutto Zara, provocando 400 mila morti. Ci sono state più bombe su di noi che sulla martoriata Dresda e pare che sia stato lo stesso Tito ad incitare l’ostinazione degli Angloamericani ai bombardamenti. In una di queste micidiali incursioni, quella del 28 novembre del ’43, è morta anche mia sorella: aveva 18 anni, era sul traghetto che faceva servizio a Zara, e stava andando a messa. Non è più tornata a casa». La famiglia Marini era proprietaria di un elegante albergo diurno, con profumeria, in Calle Larga ed abitava in una villa nell’immediata periferia della città. «La mia casa», racconta ancora Marini, «venne requisita per diventare la mensa dei sottufficiali tedeschi. Fuori Zara vi erano già i carri dei partigiani di Tito. Noi eravamo tra due fuochi ed eravamo considerati nemici da tutti. Sapevamo quello che ci sarebbe aspettato: da noi non c’erano le foibe, ma a noi zaratini italiani veniva legato un enorme sasso al collo e si veniva buttati nel mare. E così il 15 marzo del ’44 abbiamo affittato una barca a vela e siamo partiti. La nostra meta era Grado». Una follia? «Forse», aggiunge, «ma era l’unica possibilità di salvezza. Sulla barca eravamo in sei: io, mamma, papà, mio fratello con la giovane moglie e la loro bambina piccola, di nemmeno un anno. Io avevo 24 anni». Il momento più drammatico? «Sono stati due: in pieno mare, di notte, siamo stati inseguiti dai partigiani di Tito. Per fortuna noi avevamo la barca più veloce. Poi, durante il viaggio, mia mamma si è ammalata e così ci siamo fermati a Lussino, dove è stata ricoverata all’ospedale. Quando è guarita siamo ripartiti. Sempre via mare, ma questa volta avevamo una barca a motore. Siamo arrivati a Grado il 24 maggio del ’44. Un’odissea di due mesi e mezzo. Poi con un camion ci siamo diretti a Tregnago». Come facevate a conoscere questo piccolo centro del Veronese dalla Dalmazia? «Mia sorella più vecchia, che era sposata con Ena Pakler, anche lui profugo, vice direttore della Banca d’Italia, viveva a Tregnago e così siamo andati da lei. Qui vi era il vice prefetto, il dottor Erenda che mi ha trovato una sistemazione provvisoria in prefettura fino al 25 aprile del ’45. Poi ho avuto altri impieghi, prima di essere assunto alla Mondadori, dove ho concluso nel ’79 la mia carriera». Ma Mario Marini si sente più veronese o zaratino? «Sono più veronese, ma le mie radici sono ancora là. Sono tornato tre volte per vedere la mia città. L’azienda è stata rasa al suolo, ma la mia villa c’è ancora e sul cancello c’è ancora il mio cognome, Marini. È abitata da quattro famiglie, che ignorano la storia di quella casa a me tanto cara. Al cimitero di Zara c’è la tomba della mia famiglia». Marini,veronese di Zara, ci tiene molto all’italianità della sua città ed a questo proposito ha un cruccio: «Nel 2001, il presidente Ciampi ha assegnato motu proprio la medaglia d’oro al valor militare alla città di Zara, ma per motivi politici, fino ad oggi questo conferimento non ha mai avuto luogo. Quale città più della mia, merita questo riconoscimento?»
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12) Avvenire (10/02/'05) Gorizia – Giorgia Rossaro : Porto il lutto di foibe, lager e gulag» (Lucia Bellaspiga).
10 FEBBRAIO GIORNO DEL RICORDO
Nella stessa famiglia la zia e la nonna ebree morte ad Auschwitz, uno zio sparito nelle Fosse Katyn e due cugini condannati da Stalin ai lavori forzati
«Porto il lutto di foibe, lager e gulag»
Giorgia Rossaro, 81 anni: «Mio padre fu preso dai titini. Non ne sapemmo più nulla» L’appello al capo slavo: «Fate ricorso», rispose.
Da Gorizia Lucia Bellaspiga.
Un padre portato via dai comunisti titini nel 1945 e inghiottito da una Foiba. Una zia e una nonna uccise dalla furia nazista in quell'abominio che ha nome Auschwitz. E uno zio scomparso nelle Fosse di Katyn, dove i sovietici (Stalin e Hitler erano ancora alleati) nel 1940 massacrarono con un colpo alla nuca 10mila ufficiali polacchi... Se la "memoria condivisa" chiesta a gran voce dal presidente Ciampi è di questo mondo, non può che abitare in casa di Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini, 81 anni, goriziana, ex docente di Lettere. Tra quelle mura si intrecciano i destini di una famiglia mezzo giuliana e mezzo ebraica, e di Giorni del Ricordo sono più d'uno. Una Memoria conquistata a fatica, tra omissioni e bugie. Il '900 è il secolo maledetto delle grandi tragedie e la mia famiglia porta il lutto di tutte: naziste, sovietiche e titine. Ma se l'olocausto ci è riconosciuto da sempre, la tragedia delle Foibe ci è stata fino a oggi negata. Siamo stati derisi, vilipesi, zittiti. Quanto al massacro di Katyn, poi, per decenni ci hanno fatto credere che fosse stato opera dei nazisti, invece era stato ordinato da Stalin. Una storia familiare degna di una saga, la sua, affascinante se non fosse drammatica. Mia madre Angela era nata a Leopoli (oggi in Ucraina) quando lì c'era l'Austria, mio padre Giorgio Rossaro era nato a Rovereto (oggi Trentino) ed era Austria anche lì. Medico l'uno, crocerossina l'altra, si sono incontrati durante la prima guerra mondiale sul campo di battaglia, in una Leopoli era assediata dai russi... Pensi, si sono sposati nel 1918 e gli ultimi mesi di guerra li hanno passati al fronte, insieme. Finito il conflitto, sono andati in Trentino, dove io nascerò nel 1923. Restiamo a Leopoli ma facciamo un salto di guerre: passiamo alla seconda. Che succedeva? Leopoli ora era sovietica e i russi ancora odiavano la città che nella prima guerra aveva resistito a lungo all'assedio. Lì abitavano mia nonna materna e quattro fratelli di mia mamma, ma noi dall'Italia non abbiamo più saputo nulla di loro per 20 anni: mia mamma era disperata, non aveva notizie della sua anziana madre. Persino il Vaticano e la Croce Rossa se ne sono interessati, ma ormai lì era Unione Sovietica... Nel 1959 lo spiraglio. Con l'avvento di Kruscev, dopo Stalin, c'è stato un barlume di disgelo e ho ricevuto una lettera da una cugina di Leopoli. Era scritta in latino, unica lingua che ancora ci accomunava, e dava tristi ragguagli di quel ventennio di silenzio: "Mater matris mortua est...", la mamma di mia mamma era morta, e mio zio era sparito nelle Fosse di Katyn. In realtà non finì lì: della generazione successiva due miei cugini adolescenti finirono in un gulag sul Don, condannati ai lavori forzati. Si ammalarono di tubercolosi ossea, per la fatica e il gelo, poi grazie al padre ferroviere riuscirono a fuggire su un treno che trasportava carbone a Leopoli. Era il '49, c'era ancora Stalin, così vissero nascosti in casa della cugina mettendo a rischio l'incolumità di tutti. Ricorda la soffitta di Anna Frank, i sottotetti di tante, troppe vittime di regimi, diversi per colore, uguali per bestialità. Solo nel '59, con Kruscev, sono usciti alla luce, ancora oggi li aiutiamo a mantenersi. Intanto qui in Italia suo padre finiva trucidato da Tito, il colonnello jugoslavo che voleva de-italianizzare Venezia Giulia e Dalmazia, con ogni mezzo. Da anni vivevamo a Gorizia. Nell'aprile del '45 la guerra stava terminando: ricordo giovani partigiani che ci chiesero di esporre il Tricolore ma con la stella rossa di Tito in mezzo, noi rifiutammo. Il 3 maggio di buon mattino un soldato sloveno venne a chiamare mio padre: doveva presentarsi al comando slavo «per informazioni». Eravamo tranquilli, ormai c'era la pace, invece poi sapemmo che quel giorno 600 goriziani erano stati rastrellati casa per casa, non tornarono più. Vidi mio padre per l'ultima volta il 5 maggio dietro una finestra del carcere di Gorizia, mi sorrise e mi salutò con la mano. Corsi dal comandante titino, Joseph Kuk, mi spiegò che erano tempi difficili, «fate un esposto», mi disse... Mia madre per 13 anni restò seduta davanti alla porta da cui era uscito, lo ha sempre aspettato».
Intanto ad Auschwitz...
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13) Il Piccolo (09/02/'05) "Ma i titini non venivano di giorno" di Guido Galetto.
«MA I TITINI NON VENIVANO DI GIORNO»
di Guido Galetto*
Mia nonna mi riceve alle otto e tre quarti di sera, con la sua vestaglia dai colori scozzesi e le ciabatte in panno, quelle che tengono caldi i piedi in questi freddi giorni di febbraio. Sulle pareti i suoi quadri, nel senso che li ha dipinti lei, e che riproducono un’Umago che oggi non c’è più, quell’Umago dove è nata e da dove – adesso si può dirlo, e non sussurrarlo – fu costretta a emigrare con due bambine piccole a carico, una delle quali mia madre. Ci accomodiamo io e lei in salottino per guardare comodamente la televisione. La sua testimonianza di fronte alle immagini della fiction «Il cuore nel pozzo» risulta per me preziosa: chi meglio di lei può farmi capire quanto la sceneggiatura si sia attenuta a una realtà dei fatti che riesce ancor oggi, dopo sessant’anni, a far discutere e a dividere le anime della nostra collettività? «Ma questa non è l’Istria», è il suo primo appunto, osservando le mura esterne di un’anonima cittadina del Montenegro. Bisognerebbe spiegarle, anzi sussurrarle, che evidentemente i tempi della pacificazione per poter girare una storia sulle foibe, nelle vicine terre d’oltreconfine, debbono ancora arrivare. Seconda nota sulle divise dei partigiani comunisti di Tito: «Guarda che erano molto più trasandati. La maggior parte di loro indossava giacche e giubbotti presi ai tedeschi». Poi lo sceneggiato sfiora i drammi e le atrocità che solo oggi sono di pubblico dominio; eppure non c’è coinvolgimento passionale, né odio, ma solo lucido spirito critico, in questa signora di ottantaquattro anni cui quella volta fu portato via tutto ciò che possedeva. «I titini – racconta – non venivano mai di giorno a prelevare la gente. Loro passavano di notte. In pratica succedeva che delle spie locali segnalavano ai partigiani alcune personalità del paese, non necessariamente degli ex fascisti. Anzi – precisa – a sparire o a essere picchiati a sangue furono per lo più esponenti della classe dirigente di allora: funzionari pubblici, professioni e anche preti». Intanto la storia televisiva scorre senza infamie e senza lodi sulle ali di una personalissima guerra che il comandante Novak combatte contro tutti, italiani in particolare, per poter riavere quello che dovrebbe essere suo figlio. Alla fine, se pensavo che al termine della puntata avrei trovato delle lacrime sul viso di questa mia personale testimone, evidentemente mi sbagliavo di grosso. Sul suo volto traspare invece un velato sorriso di soddisfazione. «Adesso – dice fissando i titoli di coda – finalmente molti italiani sapranno cos’è successo, anche se ci sarà qualcuno che avrà da ridire. Sappi, comunque, che è proprio andata in questo modo». Non c’è brama di vendetta nelle sue parole, solo la consapevolezza di una giustizia storica che ha tardato oltre mezzo secolo ad arrivare. Meglio tardi che mai? «Per me – risponde, accompagnandomi alla porta – che sono arrivata fino a qua, all’età di ottantaquattro anni, potrei dire di sì. I governanti del dopoguerra però, quelli che hanno messo sotto il tappeto le nostre sofferenze, dovrebbero almeno chiederci scusa, in segno di rispetto per chi non c’è più». E chissà che questa volta qualcuno non trovi il coraggio di farle a voce alta quelle scuse, e non solo di sussurrarle...
* assessore alla Cultura della Provincia di Trieste
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14) Secolo d'Italia (10/02/'05) - La Patria ritrovata nei ricordi degli esuli (Claudio Antonelli).
PRIMO PIANO
Alle cerimonie di oggi porteranno la loro testimonianza anche i profughi provenienti da ogni parte del mondo. La Patria ritrovata nei ricordi degli esuli. L’amore per la terra natia e il dolore dell’oblio nelle parole di Claudio Antonelli, professore in Canada.
TRIESTE. Anche le testimonianze di chi le subì faranno rivivere oggi a Trieste la tragedia delle foibe e dell’esodo dei 35Omila italiani istriani giuliano e dalmati costretti ad abbandonare le loro case sotto la morsa delle violenze titine. Quelle storie, insieme personali e collettive, che furono portate dai nostri profughi nei quattro angoli del mondo oggi si ricongiungeranno nel capoluogo giuliano attraverso i racconti di dieci protagonisti: dall’Argentina Alfeo Martinoli e l’imprenditore Livio Giuricin; dal Brasile il professore universitario Lucich Roberto e il dirigente assicurativo Urizio Guido; dall’Uruguay l’ingegnere Gianfranco Premuda; dall’Australia lo scrittore Pino Bosi e il giornalista radiofonico Roberto Masi; dal Canada il professore universitario Claudio Antonelli e l’insegnante Morgan Perini e dal Sud Africa l’imprenditore ,Nicolò Giuricich
Di seguito riportiamo ampi stralci dell’intervento di Antonelli fratello dell’attrice Laura.
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lL diniego dell’identità è il torto più grave che si possa fare a un individuo, a un gruppo,a un popolo, E noi questo diniego l’abbiamo subito per tanti anni. (…) L’estero è una scuola. (..) Una vita all’estero ci ha in- segnato che onore e dignità nazionali, senso della storia, continuità, appartenenza, identità non sono vuote parole, ma esigenze insopprimibìli dello spirito.(…) Tra i profughi-emigrati, il mondo perduto - io ho l’esempio dei miei compianti genitori - riesce ad assumere la trascendenza dei valori assoluti, con il culto della memoria e con ricordi in coi i teneri colori dell’infanzia si mescolano alle aspre tinte della violenza e della morte, (…) Il patriottismo dei profughi giuliano-dalmati è un sentimento mite e civile. Credetemi. (...) Io ho ricevuto dai miei genitori un insegnamento costante di patriottismo, e, osiamo dirlo, di nazionalismo. (..) Con le parole e con l’agire, essi mi hanno dato esempi di onestà, altruismo, sacrificio, lealtà, solidarietà nazionale. E da questi miei genitori per così dire “estremisti’ facilmente etichettabili con il marchio ben noto, mai una lezione di odio, di disprezzo o di superiorità verso il nostro cosiddetto nemico, (…) Forse fu questa la tragedia dei miei genitori e di tanti altri: noi, popolo dei confini, dall’identità che è stata sempre una scelta dell’anima e non un dato anagrafico, noi credemm0 veramente… Il patriottismo è amore, Amore per i propri (...j Nel passato, avevo dovuto fare una constatazione dolorosa: anche amici intimi apparivano sorpresi, disorientati e direi infastiditi da questa mia storia. (…) Ebbene “la mia” storia, la storia di noi esuli, nella quale quasi nessuno si riconosceva in Italia, oggi invece grazie ai francobolli di Maurizio Gasparri, all’azione di Mirko Tremaglia, a quella di Roberto Menia, e alle tante iniziative dì questo governo volte a ricordarci, potrà infine essere considerata parte della storia d’Italia. (…) E nessuna azione di propaganda potrà cambiare le tragiche pagine di una storia che ci ha visti sconfitti, con la perdita di nata parte del territorio nazionale e con l’esodo di una popolazione inerme tra episodi di un’allucinante ferocia, (…) Occorre girare la pagina – sono d’accordo - ma per poterlo fare occorreva il giorno del ricordo. Occorreva riconoscere il popolo che per molti, troppi italiani non era mai esistito. (…)Diverse cose da allora sono cambiate e la nostra presenza qui lo attesta. L’Italia, dopo tutta è una madre cha sa essere generosa. E noi abbiamo sempre saputo distinguere tra il Paese e la Patria, tra il discorso politico e il discorso autenticamente nazionale, Noi italiani all’estero abbiamo tributato a Mirko Tremaglia ovazioni senza fine, commossi di ritrovare finalmente qualcuno per la quale gli emigrati italiani sono dei fratelli da proteggere e da amare. Ma non è stato sempre così, (...) Spesso, dottrinari all’estremo si pongono al servizio della tessera di un partìto, non accorgendosi di mancare di un senso elementare dì coscienza e di solidarietà nazionali. Coloro, in Italia, e siano ancora tanti, che temono, riconoscendo il nostro dramma, diminuire i drammi altrui, manifestano un’arida mentalità contabile, quasi che le vittime di un campo e di un altro fossero da trattare come le iscrizioni in un libro di partita doppia, dove la cifra che si mette in una colonna la si deduce all’altra. (...) Basta poi con questo cercare sempre “a monte’ le cause di questo o quel obbrobrio, per giustificarlo. (..) Non esiste, non deve esistere un monopolio delle lacrime. (...) L’estero ci ha mostrato ad abundantiam che la nota dominante in Italia, per tanti anni è stata lo spirito di parte e l’antipatriottismo. Troppo spesso gli italiani considerano un normale, sano, indispensabile amor patrio come una pericolosa involuzione dello spirito. (…) Noi giuliano-dalmati abbiamo educato i nostri figli, che sono nati all’estero, al rispetto e all’amore per la terra che li ha visti nascere e per la quale noi stessi proviamo un profondo senso di riconoscenza e di lealtà Dopo una vita all’estero, ci appare grottesco il gusto per la polemica, l’ oralità incontinente, la rissosità di tanti, troppi italiani. (..) L’ emigrato riesce a vedere la Patria come un tutt’uno da cui egli non potrà mai prescindere nel bene e nel male, e con cui il rapporto è d’amore e non funzionale strumentale, opportunistico. (...) E noi rientrando in Italia, siamo quindi colpiti e direi offesi dal disordine immigratorio, così evidente, che noi vediamo come una manifestazione, ancora una volta, di abusivismo, e non una conseguenza dell’umanità degli italiani, come sostengono certe animi pie. Qualche anno fa venni a vivere in Italia per un lungo periodo. Fui trattato dalla burocrazia come extrcomunitario. Da allora, veramente tante cose sono cambiaate. L’Italia ci ha permesso di riacquistare la cittadinanza italiana. Ptsino, amatissimo mio luogo di nascita, simbolo di sofferta italianità, ha avuto gli onori di un francobollo. Un francobollo: sembra una cosa da poco eppure è una cosa immensa. Peccato che le lettere con quel francobollo siano giunti troppo tardi per mio padre e mia madre, spentisi oltreoceano. Il francobollo è giunto ugualmente troppo tardi per mia zia Adalgisa Bresciani, vedova di quel Lino Gherbetti(Gherbetz) che morì da eroe, per mano degli infoibatori titini. Mia zia si trovava in ospedale, a Montréal sarebbe morta in quella stanza il giorno dopo. (...) Sulla sua fossa venne sparsa la poca terra dell’Istria che aveva portato con sé in un vasetto, al momento dell’esodo, (..,) Una terra che è diventata un’anima. (...) Era giusto rendere gli onori al nostro giuramento di fedeltà all’Istria, Fiume,Dalmazia, Il nostro giuramento all’Italia. Una memoria nazionale condivisa (…) è auspicio di una definitiva pacificazione degli italiani (…)
CLAUDIO ANTONELLI
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15) Osservatorio Balcani (07/02/'05) - Le foibe viste dalla Croazia (Drago Hedl).
Le foibe viste dalla Croazia - 07.02.2005 - Da Osijek, scrive Drago Hedl Dure reazioni in Croazia alla proiezione dello sceneggiato televisivo “Il cuore nel pozzo”, prodotto dalla Rai e dalla Rizzoli audiovisivi. Secondo il quotidiano di Fiume/Rijeka Novi List, si tratta del peggior film di propaganda mai realizzato. L’opinione di Furio Radin, rappresentante della minoranza italiana al Parlamento di Zagabria, e della Unione dei Soldati Antifascisti.
Tace la Zagabria ufficiale.
Il cuore nel pozzo “Sporchi e malvagi partigiani di Tito sterminano Italiani innocenti”. Con questo titolo a tutte colonne, il quotidiano di Rijeka (Fiume) “Novi List” ha pubblicato sabato scorso in terza pagina il servizio di Elio Velani, corrispondente dall’Italia che, insieme ad alcune migliaia di rappresentanti della alta società triestina, ha partecipato alla visione del film “Il cuore nel pozzo” nella sala da concerti “Tripcovich”. Il giornale di Rijeka parla del film come dell’”assalto alla storia da parte della destra italiana”, riportando che il film “conduce il pubblico italiano negli abissi delle foibe dove la destra italiana ha trovato il proprio senso più profondo dell’esistenza.” Questa è, allo stesso tempo, la reazione più forte che si è potuta ascoltare in Croazia a proposito del film “Il cuore nel pozzo”, una fiction che descrive le sofferenze dei soldati italiani nella ex Jugoslavia (in particolare nelle ex repubbliche di Croazia e Slovenia) dopo la disfatta dell’armata di Mussolini nel corso della seconda guerra mondiale. La Zagabria ufficiale infatti non ha commentato, il che è comprensibile dal momento che la leadership del Paese è totalmente concentrata sul caso del generale Gotovina e sulla ferma posizione espressa dall’Unione Europea. Per Bruxelles, infatti, la data per l’apertura dei negoziati di ingresso nell'Unione, fissata per il 17 marzo, non verrà rispettata a meno che il generale croato latitante non compaia davanti al Tribunale dell’Aja entro quel giorno. Il corrispondente di Novi List descrive il film come “l’esempio difficile da eguagliare del film di propaganda più brutto, maldestro, assurdo e inappropriato che sia mai stato fatto”, e sostiene che sia molto peggio dei film simili prodotti in Jugoslavia sui partigiani e le loro avventure di guerra. “Dopo questo film, apparirà chiarissimo a tutti cosa intende la destra italiana quando parla della necessaria revisione degli eventi storici. E’ alla stessa destra italiana che va attribuito il maggiore credito per la produzione di questo film, mentre la televisione di Stato Rai non ha fatto che dare ascolto ai leader attuali finanziando servilmente l’ intero progetto”, afferma Novi List. Il quotidiano sostiene le proprie affermazioni citando un anonimo giornalista de “Il messaggero” che, secondo Novi List, dichiara: “Viene posto un parametro incredibile: le vittime innocenti delle foibe sono state uccise ancora una volta da questo film”. Oltre a questa citazione, Novi List pubblica anche l’opinione del noto storico triestino Fulvio Salimbeni che dichiara che si tratta di un “lavoro vergognoso” e che gli esuli istriani dovrebbero citare in giudizio il produttore del film per “il totale travisamento della ricostruzione storica degli eventi.” Tuttavia, sono stati gli stessi esuli, secondo il corrispondente di Novi List, a enfatizzare il significato del film, e sarebbero stati loro i più rumorosi nella sala tra quelli che gridavano “Hurrah, sono arrivati i nostri”, nella scena in cui il giovane soldato italiano Ettore, ritornato dalla Russia, uccide due partigiani. Se da un lato non ci sono state reazioni al “Cuore nel pozzo” da parte della Zagabria ufficiale, la Unione dei Soldati Antifascisti della Croazia è però intervenuta nel dibattito. Il segretario della sezione istriana dell’ organizzazione, Tomislav Ravnic, ha affermato che gli antifascisti croati sono sconvolti dal fatto che i media italiani scrivano che i partigiani uccidevano gli Italiani solo in quanto Italiani. “Questa è una menzogna – dichiara Ravnic – quando nel 1943 abbiamo catturato 15.800 soldati italiani, non gli è successo nulla. Avevamo un rapporto umano nei confronti dei prigionieri italiani. E’ per questo che io dico a Berlusconi, a Fini e alla compagnia che dovrebbero inchinarsi di fronte ai nostri soldati che hanno salvato migliaia di persone. I partigiani non hanno ucciso gli Italiani, ma i fascisti che sono stati condannati dai Tribunali nazionali.” Oggi, tuttavia, nessuno in Croazia nega che ci siano state molte vittime nel periodo delle foibe. Furio Radin, rappresentante della minoranza italiana nel Parlamento croato, dichiara: “Non dobbiamo dimenticare quello che abbiamo dimenticato negli ultimi 60 anni, le foibe. Ci sono state vittime collaterali, e c’erano naturalmente anche i fascisti. Resta il fatto che finire la propria vita all’interno di una caverna non è normale, indipendentemente dal fatto che uno fosse un fascista oppure no, e bisogna ricavarne un insegnamento affinché una cosa del genere non possa più ripetersi.” In Croazia si parla solitamente di circa 500, 600 Italiani uccisi nelle foibe, ma il pubblico conosce anche le fonti italiane secondo le quali circa 17.000 persone sarebbero state gettate nelle foibe. “Posso affermare che secondo alcuni storici considerati esperti della materia circa 5.000 persone sarebbero morte nelle foibe. Il fatto è che la maggior parte delle foibe era situata nel territorio che ora appartiene alla Slovenia, anche se ce n’era un numero considerevole anche in Croazia, in Istria”, dichiara Furio Radin. Qualche tempo fa, Radin ha proposto la edificazione di un monumento alle vittime delle foibe in Istria, ma questa idea ha incontrato la opposizione della Unione dei Soldati Antifascisti. Radin ritiene che ancora oggi questa questione sia troppo legata alla politica, e sostiene la necessità di una ricerca della piena verità storica. Non ritiene, tuttavia, che agli Italiani venga costantemente detto che sono gli stranieri a dover essere accusati per tutto quello che è accaduto di sbagliato nella propria storia: “A parte Trieste, il resto dell’Italia non ha nessuna idea delle foibe, non sanno quello che stava accadendo durante la seconda guerra mondiale in Istria e Dalmazia, e non hanno alcun interesse per questa parte della storia”, dichiara Radin. La Croazia ha cominciato a parlare di foibe e di azioni criminali commesse dai partigiani durante la seconda guerra mondiale solo dopo l’indipendenza e il riconoscimento internazionale, nel 1992. La destra ha cercato di abusare di questo fatto storico per presentare l’intero movimento antifascista come criminale, e per dare una stessa identità ad antifascismo e comunismo. Negli ultimi anni, tuttavia, l’attuale sinistra croata ha affermato la necessità di un approccio storico obiettivo al problema, anche se in realtà nel corso del governo di sinistra (2000-2003) non sono stati fatti particolare sforzi verso questo obiettivo.
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sommario
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16) Il 10 febbraio è la giornata dei massacri titini.E all'interno della sinistra si riapre la discussione.
IL 10 FEBBRAIO È LA GIORNATA DEI MASSACRI TITINI. E ALL’INTERNO DELLA SINISTRA SI RIAPRE LA DISCUSSIONE
FOIBE La rimozione rimossa.
ROMA
Lo aveva anticipato subito, già nel primo articolo inviato al Messaggero, pubblicato nel giorno della Shoah e col quale annunciava e spiegava il senso del suo imminente viaggio nella Venezia Giulia: «Non è un tema di parte, questo, da agitare per convenienza politica. E’ una grande questione nazionale, che proprio per questo richiede non furbizia, ma onestà, responsabilità e unità: del Paese, delle istituzioni, di tutte le forze politiche». E, a viaggio compiuto, lo ha ripetuto ieri, dalle colonne dell’Unità: «Non è davvero più tempo di amnesie o reticenze di alcun tipo: quella dell’esodo e quella delle foibe sono pagine vergognose della nostra storia, della storia di tutti gli italiani. Sono pagine da leggere fino in fondo, con onestà, con senso di responsabilità da parte di tutti. Qui i giochi della politica non possono e non devono entrare: è una grande questione nazionale». Doppio avviso, dunque, da parte di Walter Veltroni: la politica, con le sue faziosità e le sue interpretazioni maliziose, stia lontana dal tema delle foibe. Avviso non inutile e, soprattutto, non retorico: nel senso che non di rado riflessioni storiche (o tentativi di revisione di passaggi cruciali per la storia del paese) sviluppate da leader politici di destra o di sinistra, sono state lette come null’altro che piccoli escamotage per trarne un vantaggio nell’agone della lotta tra partiti. E non è che sia faccenda di oggi, se solo si ricorda che identico sospetto aleggiò su alcune delle «svolte» di Palmiro Togliatti e, un po’ più recentemente, sugli «strappi» di Enrico Berlinguer: le prime, tese - secondo gli avversari politici - a consolidare il profilo nazionale e democratico del Pci filo-sovietico degli anni ‘50 e ‘60; ed i secondi effettuati per legittimare - negli anni ‘70 e ‘80 - l’ambizione a ruoli di governo dei comunisti italiani. Del resto, che le riletture storiche proposte da leader politici - insistiamo: di sinistra e di destra - debbano passare sotto le forche caudine del «perchè tu, e perchè ora?» è cosa di fatto inevitabile. E questo non sorprende e, soprattutto, non scandalizza un uomo che - per quel che disse sui «giovani di Salò» - fu fatto oggetto di critiche (storiche, ma soprattutto politiche) e ironie. Luciano Violante non se ne sorprese, come detto, e continua a non sorprendersene: «L’uso strumentale e tutto politico della storia, è ovviamente da criticare. Ma l’uomo politico non può prescindere dalla storia del paese in cui vive, visto che vi è immerso e, in qualche caso, contribuisce addirittura alla sua scrittura, se non proprio alla riscrittura. E’ chiaro, naturalmente, che il giudizio storico espresso da un uomo politico entra immediatamente - e a mio avviso inevitabilmente - a far parte del dibattito politico. Che poi ha le sue regole e le sue malizie...». Luciano Violante, dicevamo, ne sa qualcosa. Quando nel maggio del 1996, nel discorso di insediamento come presidente della Camera, invitò a interrogarsi sul perchè della scelta a favore della Repubblica di Salò compiuta mezzo secolo prima da migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi, ricevette molti sospettosi apprezzamenti. C’è chi disse che mirava al Quirinale, e per questo avviava una «politica di distensione» nei confronti della destra. «Per come è andata, ora possiamo dire che si trattava di sospetti ingenerosi - commenta Violante -. Ma in politica questa, più o meno, è la regola. Non mi scandalizza. Così come mi appare moralista, e dunque politicamente debole, l’interrogarsi circa la buona fede dei leader politici quando parlano di storia: le loro tesi, infatti, saranno poi oggetto di dibattito, e potranno esser confutate con uguale, minore o maggiore buona fede. O cattiva, se si vuole..». Ma torniamo a Walter Veltroni e alle foibe. «Nessun rancore storico, nessuno spirito di vendetta - ha scritto per l’Unità il sindaco di Roma - può giustificare quel che avvenne, e il modo barbaro in cui avvenne. Ad alimentare l’espansionismo nazional-comunista di Tito fu un intreccio perverso di odio etnico, nazionale e ideologico. Un odio che colpì fascisti, antifascisti, persone senza una precisa posizione politica. Poi iniziò la rimozione. Quasi tutta l’Italia - scrive Veltroni - ha rimosso. Fu per colpa anche di una parte importante della cultura della sinistra, prigioniera dell’ideologia e della guerra fredda». E’ una responsabilità - parliamo della rimozione - che la cultura della sinistra avverte oppure no? Il professor Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, è tra gli storici che guardano con un qualche sospetto (e non per «orgoglio professionale») a certe irruzioni della politica nelle vicende della storia. «In verità - spiega dunque Vacca - il problema di rimettere in ordine i conti tra la sinistra e questa complessa vicenda è stato posto - e da tempo - dalla stessa sinistra riformista. Negli ultimi dieci anni sono stati pubblicati almeno una decina di libri assai interessanti. Si tratta di un pezzo di storia assai complicato e la tragedia delle foibe non è facilmente isolabile dalla questione del confine orientale dell’Italia e dalle vicende della guerra e soprattutto del dopoguerra. Identificare tutto questo semplicemente con le foibe è come voler ridurre il nazismo, che purtroppo fu anche altre e terribili cose, alla sola Shoah. Comunque, se i politici, ciclicamente, sentono il bisogno di applicarsi a complicate vicende storiche, facciano, che devo dirle... Il mestiere dello storico è altro: cercare di capire e di spiegare. E se è bravo, di non giustificare». Per Beppe Vacca, dunque, «la cultura della sinistra» non sarebbe all’anno zero, per quel che riguarda la lettura - o la rilettura - della tragedia delle foibe. Convincimento analogo esprime Giorgio Napolitano, che non nasconde - per altro - di non entusiasmarsi più a questo genere di dibattiti: «Sul tema delle foibe non mi pare che la sinistra arrivi oggi. Molto è stato scritto e molto è stato detto. E se penso a La crisi dell’antifascismo di Sergio Luzzatto, mi pare di poter dire che - comunque la si pensi politicamente - alcune delle ragioni che sono a monte delle foibe sono state ben spiegate». Sbaglia, dunque, Walter Veltroni ad attribuire anche alla cultura della sinistra la rimozione della pagina nera delle foibe? I pareri sono controversi. E per tornare a Luciano Violante, il suo giudizio ha due facce. La prima riguarda la fondatezza (e l’opportunità) del rilievo mosso dal sindaco di Roma: «Veltroni ha fatto benissimo a dire quel che ha detto ed a scrivere sulle foibe. Il peso del suo intervento spinge storici e politici ad andare avanti nella ricerca e a non dimenticare». La seconda riguarda le responsabilità (e in questo caso parliamo di responsabilità politiche) della sinistra. «E’ vero anche, però - annota il capo dei deputati ds - che noi non cominciamo adesso. Ricordo che Piero Fassino si recò alla foiba di Basovizza già nel lontano 1989. Nel 1997 io vi andai con Fini e assai più di recente, l’anno scorso, sono tornato in Venezia Giulia con Castagnetti, Intini e Carla Mazzuca. Tutto questo solo per dire che se rimozione c’è stata - e c’è stata, questo è fuori dubbio - ora non è così. E che le cause di quella rimozione sono ascrivibili a fattori convergenti, certo, ma dall’origine assai diversa». E qui torna il possibile uso strumentale della storia. Nei lunghi anni della Prima Repubblica e fino alla morte di Tito, il silenzio italiano sulla tragedia delle foibe non fu certo solo ad opera della sinistra politica e storica del paese. Le stesse e diverse maggioranze di governo succedutesi nei decenni, furono reticenti in virtù di una evidente scelta politica. Porre la questione delle foibe significava attaccare il maresciallo Tito negli anni in cui l’eresia jugoslava costituiva una spina nel fianco dell’impero sovietico. Tito era «un nemico del nostro nemico», cioè del comunismo ancora insediato al Cremlino, e nè la Democrazia cristiana nè i suoi satelliti avevano alcun interesse, allora, ad aprire un’aspra polemica col maresciallo. Infatti, non l’aprirono. E’ stata la storia, insomma, con i suoi imprevedibili rivolgimenti, a render possibile - anzi, inevitabile - che il velo fosse alzato anche sulle foibe. La politica, diciamola tutta, come spesso accade è arrivata dopo. Molto, molto dopo.
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PARLA GIANNI OLIVA, IL PRIMO STORICO CHE HA AFFRONTATO IL TABU’ A SINISTRA: SI VA VERSO UNA MEMORIA CONDIVISA
«Non possiamo nasconderci, non dobbiamo tacere»
TORINO UNA cosa sono i libri degli e per gli specialisti, un’altra quelli destinati a un pubblico più vasto. Sulle foibe uscirono negli Anni Ottanta ottimi lavori a cura dell’Istituto storico della resistenza per il Friuli Venezia Giulia, ma non fecero molta strada. Il primo a squarciare il velo di un silenzio opprimente, ad affrontare il tabù - e farlo da sinistra - è stato Gianni Oliva, storico, ma anche politico ds (ora è vicepresidente della provincia di Torino), che nel ‘99, con La resa dei conti (Mondadori) si affacciò sul terreno «maledetto» della memoria negata, con un libro poi riecheggiato da Pansa col suo best seller Il sangue dei vinti cui, scherza Oliva, «invidio il successo». Ma il testo che ha destato le reazioni maggiori venne nel 2002, sempre per lo stesso editore. Si intitolava Foibe, le stragi negate, e per molti fu uno choc. Ora Oliva ha appena pubblicato quello che ne è il seguito ideale, Profughi. Dalle foibe all'esodo: la tragedia degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia. In pochi anni qualcosa è cambiato. Forse molto. La tragedia degli italiani assassinati. della pulizia etnica sul Carso è diventata anche un film, che presto vedremo alla Rai. La lunga rimozione è davvero finita? Sta finendo, risponde lo storico.
Lei ha fatto da apripista. E stato difficile interpretare questo ruolo da sinistra?
«La sinistra per lungo tempo non ha voluto sentir parlare di foibe perché mettevano in discussione il mito dell’esercito di liberazione del maresciallo Tito, ed evidenziavano le contraddizioni nella politica di Togliatti su Trieste. E poi, è inutile negarlo, i profughi istriano dalmati venivano considerati “fascisti”. Ma non basta. La rimozione aveva anche altri motivi, anche al centro, fra i democristiani».
C’era un interesse reciproco a non parlarne?
«Non dimentichiamo che l’esodo giuliano-dalmato è stato il prezzo pagato per la guerra perduta. E noi non ci siamo vissuti come un Paese che ha perso la guerra. Evitare i temi delle foibe e dell’esodo voleva dire scaricare il peso della sconfitta su Mussolini e sul Re, creando il paradosso di far tenere alta quella bandiera solo all’Msi, erede del fascismo e cioè della vera causa della sconfitta e della tragedia».
Oggi invece non fa più scandalo. Perché?
«Perché da un lato perché i comunisti non sono più tali, ma i fascisti neppure. Si va verso la ricostruzione di una memoria condivisa, che dev’essere priva di zone d’ombra e silenzi. Si può e si deve parlare dei morti dopo il 25 aprile, si possono e si devono eliminare le omissioni. Aveva cominciato Violante. Ci sono stati importanti prese di posizione da parte del presidente Ciampi. Ora il discorso di Veltroni è lineare: non possiamo, dice, nasconderci che fanno parte della nostra storia le leggi razziali, le foibe, i silenzi di Togliatti e del pci».
Non è sempre facile evitare l’impressione che ci sia una componente strumentale in tutto ciò. Violante ne fu accusato.
«Direi al contrario che c’è stata molta strumentalità nei silenzi, nelle cose non dette. La politica è contrapposizione sul futuro, non sul passato. Io, che sono di sinistra, non mi sento certo colpevole per le stragi titine, né considero Fini responsabile per le leggi razziali. Ora probabilmente riusciremo anche a far entrare un tema drammatico come le foibe nelle scuole».
Uno dei luoghi privilegiati di quel lungo silenzio.
«Guardi, ho insegnato storia e filosofia per anni; non ho mai parlato di foibe, per un semplice motivo: non sapevo che cosa fossero. Ed era la situazione di buona parte degli insegnanti, in ottima fede. Nessuno li aveva preparati a questo compito. Di foibe si discuteva solo a Trieste, per esperienza diretta».
Una memoria ghettizzata?
«Per fortuna sta diventando memoria nazionale, come deve essere. E va completata».
In che senso?
«Allargando, parlando di tutto. Io ad esempio sto lavorando sui criminali di guerra italiani: non vennero perseguiti, né consegnati alla Jugoslavia, che li voleva processare. E’ un tema importante, ma studiarlo non significa in nessun modo giustificare le foibe, cui pure è connesso».
Il problema sono le connessioni?
«E’ la memoria confusa. Ho fatto già in passato, proprio su questo giornale, l’esempio delle lapidi che ricordano i caduti al Nord. Spesso una accanto all’altra vediamo quella dei morti nella campagna di Russia e quella dei morti partigiani. Ma non c’è nulla che ci faccia capire il rapporto tra le due».
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