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Lucrezio

De Rerum Natura - Libro III

Il timore della morte (vv. 31 - 93)


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E visto che ho insegnato quali siano i principi
di tutte le cose e quanto diverse per varietà di forma
spontaneamente volteggino stimolate da moto perpetuo,
e in che modo da questi si possa creare ogni cosa,
mi sembra dopo tali argomenti che nei miei versi debba ormai essere
illustrata la natura dell'animo e dell'anima,
e che si debba cacciare a precipizio quel timore dell'Acheronte,
che dal profondo turba appieno la vita umana,
inondando ogni cosa con il nero della morte,
né lascia esistere alcun piacere limpido e puro.
Infatti spesso gli uomini dichiarano che le malattie e una vita infame
devono essere più temute del Tartaro, regno della morte;
e dicono di sapere che la natura dell'animo è fatta di sangue,
o anche di vento, nel caso che così comporti la loro volontà,
e di non avere assolutamente bisogno della nostra dottrina;
ma da qui ne puoi dedurre che ogni affermazione viene esibita più
per vana gloria piuttosto che essere espressa per convinzione della cosa stessa.
Le stesse persone cacciate dalla patria ed esiliate lontano
dal cospetto degli uomini, disonorate da un'accusa infame,
afflitti da ogni pena, alla fin fine vivono, e,
dovunque siano giunti, tuttavia sacrificano ai parenti morti,
e immolano pecore nere, e inviano offerte ai divini Mani,
e nei momenti critici ancor più accanitamente rivolgono
gli animi alla religione.
Tanto più conviene, quindi, provare l'uomo nei dubbiosi pericoli,
e nelle avversità conoscere chi sia:
infatti allora gli si cavano dal profondo del petto parole veraci,
e viene gettata la maschera, rimane il suo aspetto reale.
Infine la cupidigia e la cieca brama di onori,
che spingono i poveri uomini ad oltrepassare i confini
del giusto, e talora, come compagni e strumenti di delitti,
adoperarsi notte e giorno con soverchiante fatica
per elevarsi alle più elevate posizioni e conquistare il potere,
queste piaghe della vita sono nutrite in gran parte dal timore della morte.
Infatti il turpe disprezzo e la dura povertà sembrano
quasi escluse da una vita dolce e stabile,
e quasi già indugiare davanti alle porte della morte;
da lì gli uomini, mentre oppressi da un falso terrore
vogliono scappare lontano e lontano starsene,
aumentano la loro sostanza e con il sangue civile
e avidi raddoppiano le loro ricchezze, accumulando delitto su delitto;
crudeli gioiscono del triste funerale del fratello,
e odiano e temono le mense dei consanguinei.
In modo simile, nata dallo stesso timore, spesso li tormenta
l'invidia che quello davanti agli occhi sia potente,
sia riverito, colui che incede con chiaro onore,
mentre essi stessi si lamentano di vivere nelle tenebre e nel fango.
Alcuni muoiono per il desiderio di statue e di gloria.
E spesso per la paura della morte, l'odio della vita
e della vista della luce colpisce a tal punto gli uomini
che essi si danno la morte con animo straziato,
non ricordando che è questo timore la fonte degli affanni,
che questo distrugge il pudore, che questo rompe i legami d'amicizia,
e, insomma, convince a distruggere la pietas.
Infatti già spesso gli uomini tradirono la patria e i cari
parenti, cercando di evitare i templi Acherontei.
Infatti, come i fanciulli trepidano e temono ogni cosa
nelle cieche tenebre, così noi, talvolta, temiamo nella luce
le cose che non devono essere temute più di quelle
che i fanciulli paventano nel buio e immaginano come future.
E' necessario, dunque, che disperdano questo terrore dell'animo
non i raggi del sole né i lucidi dardi del giorno,
ma la spiegazione razionale della natura.




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