Sarajevo: alcune cose che non vi avevano detto


L'articolo che segue e' uscito su "il manifesto" dell'11 Settembre 1998:


Il doppio assedio di Sarajevo

Parla Emir (Nane) Topalovic, fratello del "comandante Caco"

Alla vigilia del voto in Bosnia, un "capo" della difesa di Sarajevo svela le gravi responsabilità del presidente Alija Izetbegovic

GIANCARLO BOCCHI (*)

S otto ogni verità si nasconde sempre un'altra verità" dice un vecchio detto balcanico. A due anni dagli accordi di pace di Dayton sono ancora molti i misteri del conflitto bosniaco rimasti insoluti. Cercando una testimonianza risolutiva alla tragica fine del pacifista, Gabriele Moreno Locatelli, abbiamo trovato molto di più: una risposta ad alcuni dei mille misteri dell'assedio: dalla strage di Kazani, all'assassinio di Bosko ed Admira (Romeo e Giulietta di Sarajevo). Ma soprattutto siamo riusciti a dare un volto alla "mano invisibile" - come l'ha chiamata il generale Sefer Halilovic ex comandante dell'Armija Bosnia - che durante l'assedio colpiva alle spalle con stragi ed assassinii la popolazione per poi svanire senza lasciare traccia.

"Sapete che è molto pericoloso parlare dei segreti del passato. Volete farvi ammazzare?" ci dice con un sussurro Emir (Nane) Topalovic, uno dei vice comandanti della 10ma Brigata bosniaca, fratello del famoso "comandante Caco", uno dei custodi dei 'segreti' di Sarajevo. Lo abbiamo incontrato nella sua modesta abitazione di Sarajevo in Ulica Bistrik. Alle pareti foto ed attestati militari del fratello "Caco", il comandante della 10ma Brigata di montagna. Caco, specializzato in estorsioni e rapimenti, temprava la combattività dei cittadini di Sarajevo obbligandoli a scavare le trincee in prima linea. Ex chitarrista nell'orchestra folk di Kemal Monteno, un po' Robin Hood ed un po' il bandito Giuliano, Caco ha ubbidito, come il Giuliano della strage di Portella delle Ginestre, agli ordini segreti del potere.

"Figlio mio"

Il presidente Izetbegovic lo chiamava "figlio mio", ma è stato giustiziato senza processo il 27 ottobre del 1996. Il suo cadavere è ricomparso nel novembre 1996, per il funerale, il più imponente del dopoguerra, al quale hanno partecipato 20 mila persone con in testa Bakir Izetbegovic, figlio del Presidente.

"Hanno ragione i serbi a chiamarci Balja - sostiene Topalovic -. Noi musulmani siamo stati degli sciocchi. Per far capire alla popolazione quello che è veramente successo durante la guerra ci vorrebbe un'altra guerra".

Di Emir Topalovic a Sarajevo ne parlano come di un personaggio dal carattere instabile, un tipo estremamente pericoloso e sanguinario. Etichettato come "pazzo" (come altri responsabili di gravi fatti di sangue) è stato tolto dalla circolazione per due anni per volontà "politica". In realtà è molto attento e prudente. Risponde spesso con l'espressione "moguce je" (letteralmente "è possibile") facendola seguire da segni affermativi di conferma con la testa per evitare di lasciare tracce registrate.

"Sarajevo poteva essere liberata molto prima - racconta Emir Topalovic -. Tanti personaggi al potere, dai politici ai generali, si sono arricchiti come nababbi. C'è stata anche una volontà politica di tenere la città sotto assedio. Ogni volta che conquistavamo delle posizioni a Grbavica o sul molte Trebevic, arrivava una telefonata della Presidenza che ordinava di ripiegare".

In effetti per Alija Izetbegovic l'assedio è stata un'arma di propaganda internazionale molto forte, un modo per snaturare l'essenza multietnica della città e di gestire la politica con la "tribalizzazione" del potere diviso tra le varie famiglie del regime: i Gencic, i Sacirbej, gli Izetbegovic.

Anche sugli arricchimenti (anche ai danni di associazioni umanitarie italiane) ci sono molti riscontri alle dichiarazioni di Topalovic. Ad esempio, il famoso "tunnel" sotto l'aeroporto (una specie di cunicolo di 800 metri situato a pochi metri dalle postazioni serbe) utilizzato dall'esercito e dai civili per entrare e uscire dalla città assediata, ha reso decine di miliardi di lire: veniva affittato ai trafficanti di guerra a 40 mila marchi l'ora. E i serbi tiravano ogni tanto una granata sugli ingressi del tunnel per ricordare il pagamento della tassa del 30% sui diritti di passaggio.

I criminali "generali"

Un altro aspetto della "gestione" dell'assedio riguarda l'utilizzo di "criminali" comuni, trasformati in difensori della città (Juka, Celo I, Topla, con l'aggiunta di Caco) che avevano mano libera da parte del MUP (Ministero dell'Interno) controllato dalla famiglia Izetbegovic. Alcuni di loro, come Celo, il presidente Izetbegovic li conosceva fin da prima della guerra: era una conoscenza maturata nelle galere di Tito, in cui Izetbegovic era stato imprigionato per motivi politici.

Questi "criminali" sono stati responsabili di assassinii, estorsioni, stupri e stragi: la più grave quella di Kazani - "la buca del diavolo", un crepaccio sul monte Trebevic dove sono stati rinvenuti finora 30 corpi e 29 teste mozzate (ma c'è chi sostiene che i morti siano molti di più, Chris Hedge sul New York Times ha parlato di duemila).

"Hanno dato la colpa a Caco dei serbi uccisi a Kazani. Dice Topalovic. Sicuramente quei serbi li ha uccisi lui, anche perché meritavano di essere uccisi".

E aggiunge: "Izetbegovic sapeva tutto di Kazani. Era Alija che teneva le chiavi della porta di casa: volete che un padre non sappia quello che fanno i figli nella sua abitazione?"

Già da tempo alcuni organi di stampa avevano ipotizzato che Izetbegovic fosse al corrente di Kazani. Ma Topalovic chiarisce, anche se con perifrasi di tipo balcanico, com'era la questione: c'era una "famiglia" di cui Izetbegovic era il "padre", o meglio il "padrino" che comandava. Di recente il generale Jovo Diviak, un serbo di Belgrado che si era schierato con i bosniaci, che aveva scritto nel 1993 una lettera ad Izetbegovic chiedendogli di porre fine agli assassini da parte dei "criminali" di Sarajevo e, dopo le ultime rivelazioni su Kazani, ha restituito i gradi che Izetbegovic gli aveva concesso.

Anche sull'assassinio di Bosko Berkic ed Admira Suric, i due fidanzati di etnia diversa (un serbo ed una musulmana) che morirono abbracciati nel marzo 1996 sul ponte Vrbanja, Topalovic ci svela una verità inattesa. "E' possibile che siamo stati noi ad uccidere Bosko ed Admira. E' anche possibile che avessimo ricevuto un ordine in questo senso". Cosa vuole dire "è possibile"? Chiediamo a Topalovic: avete ricevuto un ordine, si o no? Topalovic conferma che era arrivato un ordine con un cenno con la testa.

Della tragica fine di Bosko ed Admira, che fece il giro del mondo raccontata dai mezzi di comunicazione, come la romantica storia" Giulietta e Romeo di Sarajevo "si era parlato molto senza arrivare a dare, fino ad oggi, risposte certe. I corpi dei due sfortunati fidanzati vennero lasciati sul ponte per molti giorni come monito per chi voleva fuggire dall'assedio della città. Dopo una settimana i corpi vennero recuperati dai serbi e sepolti nel cimitero di Grbavica.

Assassinio di un pacifista

Sempre sul ponte Vrbania il 3 ottobre 1993 venne assassinato l'italiano Gabriele Moreno Locatelli durante una marcia pacifista "suicida", nella quale "chi veniva ferito doveva essere abbandonato sul posto", organizzata da don Albino Bizzotto (che la polizia bosniaca chiamava "don serbo") e padre Angelo Cavagna dell'associazione "Beati i costruttori di pace". Sulla morte di Locatelli, Topalovic accenna una timida difesa: "Non vorrete accusarmi di avere sparato di persona? Quel giorno ero sul Trebevic... ci dice Topalovic, sbiancando in volto.

Per tre anni, censure, depistamenti ed indifferenza hanno accompagnato le nostre ricerche per il film documentario Morte di un pacifista su Locatelli. dopo una prima inchiesta della magistratura di Brescia (nella quale non è stata fatta alcuna autopsia al cadavere) ne è seguita una seconda aperta dal procuratore di Brescia Tarquini (sulla base del film), subito insabbiata dal ministero di Grazia e Giustizia ai sensi dell'art. 8 Cp perché secondo loro "non si trattava di un delitto politico".

Insistiamo. Topalovic che con una certa riluttanza ammette: "E va bene. Tanto ne abbiamo uccisi tanti: uno in più o in meno... E' possibile che ci sia stato un ordine". Topalovic conferma che c'è stato un ordine con un cenno affermativo della testa. Chiediamo da chi sia arrivato quest'ordine. Topalovic scrolla la testa e ripete "Vuoi che un padre non sappia cosa fanno i figli in casa?" aggiungendo una spiegazione: "Se Caco avesse voluto ammazzare pubblicamente per la strada quell'italiano lo avrebbe potuto fare. Per lui non c'era bisogno di sparare nascosto dietro un angolo come è avvenuto. Se l'azione si è svolta in quel modo, dovete trarne le dovute conclusioni".

L'ammissione di Topalovic è la conferma decisiva sull'assassinio di Locatelli, che si aggiunge a numerosi altri riscontri, come la confidenza fatta ad un italiano, da Andvia Kresevljacovic, figlio del console bosniaco a Milano: "Sono stati gli uomini di Caco ad ucciderlo". Cosa che all'inizio ci parve strana, perché Andvia Kresevljacovic non faceva parte della Brigata di Caco. Chi gli aveva raccontato come si erano svolti i fatti?

Da tempo sospettavamo che l'assassinio di Locatelli fosse stato deciso "in alto" per la presenza nelle vicinanze del luogo dell'agguato di Haris Lukovac, il capo dei "Biseri", le guardie del corpo di Izetbegovic.

L'amico Lukovac

Edo Smaich, noto traduttore di molti italiani a Sarajevo, disse a Locatelli: "Tu domani torni da quel ponte in barella". E così avvenne: Locatelli agonizzante in barella venne portato all'auto per l'ospedale di Haris Lukovac. L'avvertimento di Edo Smaich assume una valenza diversa dopo quello che ci ha rivelato un altro traduttore: "Ogni sera Edo Smaich riferiva a Kemal Muftic (consigliere di Izetbegovic) e ad Haris Lukovac quello che facevano e dicevano gli italiani a Sarajevo". Edo Smaich cercò, dopo l'agguato a Locatelli, di "giustificare" la presenza di Lukovac sul ponte dando una versione dei fatti (anche a noi) che è risultata a dir poco "fantasiosa" e priva di fondamento. Lukovac certamente non era sul ponte per fermare la manifestazione o portare in salvo Locatelli; era lì già prima dell'arrivo degli italiani e non fece nulla per fermare "la marcia" sul ponte.

Tutte le trappole

Anche su Lukovac, Topalovic ha qualcosa da spiegarci: "Lukovac, Talijan fino al 26 ottobre 1993 il giorno della morte di Caco erano stati nostri grandi amici". Talijan (Mustafà Haijrulahovic detto "Talijan" l'italiano) comandante del 1mo Corpo dell'Armijia Bosnia nel 1993 e successivamente al controspionaggio bosniaco, è stato l'ispiratore della nomina di Caco a comandante della 10ma brigata.

Gli "amici" (Caco, Lukovac, Celo, Talijan, eccetera) si riunivano spesso al bar del Fis del Palazzo partizan dove Lukovac aveva la "Basa".

I Beati costruttori di pace con quella "marcia" suicida si erano andati a cacciare in un gioco aperto ad ogni strumentalizzazione. Una "trappola mortale" che gli organizzatori della "marcia" don Albino Bizzotto e padre Angelo Cavagna, avrebbero dovuto accuratamente evitare.

La "trappola mortale", 23 giorni dopo la morte di Locatelli, scattò anche per Caco.

Dopo il 26 ottobre 1993 non avevamo più amici. Dice Topalovic, che precisa: l'azione della cattura di Caco è stata diretta proprio da Haris Lukovac (una conferma del ruolo di Lukovac come uomo di fiducia di Izetbegovic per le faccende delicate).

"Hanno fatto cadere mio fratello in una trappola, gli hanno mandato nove giovani poliziotti, senza alcuna esperienza per catturarlo. Il comandante Caco, dopo avere ucciso e forse torturato i nove poliziotti, si arrese ai suoi "amici", non prima di avere avuto l'assicurazione di Izetbegovic di avere salva la vita, (la telefonata è stata sentita da numerosi testimoni). Caco venne giustiziato, malgrado la promessa di Izetbegovic, senza processo: i "criminali" avevano esaurito la loro funzione di "guardiani" dell'assedio per un Izetbegovic che voleva trasformare "l'Armijia Bosnia, da un'armata di popolo - come ha scritto il generale Sefer Halilovic - in un esercito islamizzato al servizio del suo partito, l'Sda".

La strage del pane

Infine domandiamo a Topalovic della "strage del pane" del 1992, il primo orrendo massacro perpetrato ai danni dei sarajevesi.

"Su questo, fumiamoci una sigaretta, salutiamoci e cerchiamo di rimanere vivi, dobbiamo rimanere vivi, meglio rimanere vivi. Non ho più nessun spirito di vendetta - aggiunge Topalovic -ho progettato in passato di uccidere tutti i "traditori" di mio fratello uno ad uno. Ma poi mi sono accorto che è inutile. Stanno morendo da soli. Allah sta provvedendo".

Topalovic ha ragione. Molti dei custodi dei misteri di Sarajevo sono morti: Turajlic (il vice presidente bosniaco), Juka (il comandante delle forze speciali), Zulic (comandante del monte Zuc), Nedzad Ugljen (vice comandante del controspionaggio), il generale Pasalic (dell'Armja Bosnia) ed il generale Talijan (comandante del controspionaggio). Qualcuno si è inaspettatamente salvato: Celo Bajramovic (un criminale divenuto comandante militare).

Dopo essere stato ferito gravemente nel 1993 da un cecchino "amico", ora tiene sotto controllo la mafia di Sarajevo sotto l'occhio vigile di Bakir Izetbegovic.

Il nemico interno

"I bambini piangono di nascosto perché non possono fare il suo nome, ma Caco vive dentro di noi..." cantano a squarciagola in faccia a Izetbegovic i tifosi del Zelijeznicar, una delle due squadre di calcio di Sarajevo che vedono Caco come un "eroe popolare". Alija Izetbegovic, come da copione, verrà rieletto nelle elezioni del 12 settembre prossimo (domani), e la povera popolazione di Sarajevo, dopo quattro anni d'assedio dei "cetnici" serbi di Karadzic, dovrà ancora subire "il nemico" interno, la "mano invisibile" che manovra il destino di tutti.

Molti hanno cercato in passato di giustificare alcuni di questi fatti di sangue come una reazione alle stragi, ai massacri dei "cetnici" di Karadzic.

Tutte le vittime del conflitto bosniaco meritano finalmente che sia fatta giustizia: nessun assassinio di innocenti può rimanere impunito. Lo stesso Izetbegovic ha dichiarato: "Non c'è differenza tra mille morti o uno solo: il Corano vieta di uccidere gli innocenti". Sarà vero, signor presidente Alija Izetbegovic?

Errata corrige

Da "Lettere&Mail" ("il manifesto" del 15 Settembre 1998):

Due date sbagliate

Nell'articolo di sabato 12, per un mio errore di battitura dovuto alla fretta, ci sono due date sbagliate.

Il comandante Caco è stato giustiziato il 27 ottobre 1993, Bosko ed Admira sono morti nel marzo 1993. In entrambi i casi è stato pubblicato 1996 invece che 1993 mentre nei riferimenti temporali successivi l'anno è stato riportato con esattezza.

Giancarlo Bocchi - Parma


Gli articoli che seguono sono usciti su "il manifesto" del 23 Ottobre 1998:


Sarajevo, doppio assedio

Scoperti gli archivi della polizia supersegreta

GIANCARLO BOCCHI (*)

Non si era ancora spento l'eco delle rivelazioni di Emir "Nane" Topalovic, fratello del comandante Caco, sull'eccidio di Kazanj (i serbi desaparecidos a Sarajevo, v. Chris Hedges sul New York Times dell'8/11/1997), sull'omicidio di Bosko ed Admira del 1993 (Giulietta e Romeo di Sarajevo) e sull'assassinio del pacifista italiano Gabriele Moreno Locatelli, (ci è stato riferito d'improvvisi pallori sui volti dei potenti di Sarajevo che leggevano le fotocopie dell'articolo del manifesto dell'11 settembre) che Sarajevo è stata scossa da nuove inquietanti verità.

All'interno del Mup (il Ministero degli interni bosniaco) esisteva una struttura segreta denominata Aid ed una sua emanazione ancora più segreta, la Seva. Queste strutture, molto vicine all'Sda (il partito di Izetbegovic) sono state accusate dalla stampa bosniaca indipendente di essere implicate in assassinii a sfondo politico come l'uccisione della moglie di Sefer Halilovic, l'ex comandante dell'Armjia Bosnia, destituito da Izetbegovic nel 1993.

Alcuni "pentiti" dell'organizzazione segreta Seva, come Edin Garaplija hanno ammesso che la moglie di Sefer Halilovic è stata uccisa, da una "trappola esplosiva" collocata dai bosniaci stessi sul balcone della sua casa di Ciglane e non da una granata serba da 105 mm come si era sostenuto in precedenza. Si voleva togliere di mezzo Halilovic, un generale scomodo. Nel prossimo numero di Svijet , il settimanale indipendente diretto dal giornalista-scrittore Zlatko Dizdarevic, verrà pubblicato un dossier sul caso Halilovic, con l'anticipazione di altri documenti riservati e inediti sul presidente Izetbegovic. Nel frattempo si è diffusa una clamorosa notizia: il generale Halilovic ha denunciato al Tribunale dell'Aja Bakir Alispahic (ex Ministro degli Interni) e Kemo Ademovic (capo della polizia segreta Aid) due personaggi legati a filo doppio ad Izetbegovic. Nell'agosto scorso avevamo incontrato Sefer Halilovic, che ci aveva svelato i veri motivi della sua destituzione da comandante in capo dell'esercito bosniaco, che lui stesso fin dai tempi della "Lega Patriottica" nel 1991, aveva contribuito a fondare ed organizzare. Halilovic si era opposto alla "svendita" di Sebrenica e Zepa (enclavi musulmane) nell'ambito delle trattative segrete per la spartizione della Bosnia Erzegovina.

Islamizzare l'esercito

Si era anche opposto al progetto di Izetbegovic di "islamizzare" l'esercito bosniaco con espulsione delle componenti multietniche, che fino ad allora avevano avuto un certo ruolo con i vice comandanti Jovan Divjak (serbo) e Stjepan Siber (croato). Possiamo anche rivelare che proprio il generale Divjak, uno dei veri eroi dell'assedio, nello stesso periodo, fu imprigionato per un mese nel "campo" di Tarcin.

Nel libro Lukava strategija Halilovic aveva scritto di altri fatti inquietanti, come del tentativo di colpo di stato a Sarajevo del maggio del 92, che lui stesso era riuscito a sventare, dove avevano avuto un certo ruolo due personaggi misteriosi e potentissimi come Aljia Delimustafic (un personaggio di spicco degli ex servizi segreti di Tito) e Mahmutcehajic (un uomo misterioso del quale si sa pochissimo). Halilovic ci aveva riferito che temeva per la sua vita, ma che era pronto "a morire per impedire un dopo Dayton con la Bosnia sventrata in tre entità etniche divise".

Nell'ambito della sistemazione dei segreti di guerra, molte persone, sono state misteriosamente assassinate. Un membro della polizia segreta Aid, Edin Garaplija, condannato a 13 anni per il rapimento e l'assassinio del poliziotto Nedzad Herenda, per paura di essere assassinato in galera, ha scritto una lettera aperta ai giornali svelando il coinvolgimento dell'Aid nella morte della moglie di Halilovic, nell'assassinio del vice comandante del controspionaggio bosniaco Nejad Ugljen e nell'attentato del 1993 a Celo Bajramovic, noto criminale e comandante delle "forze speciali" bosniache. Oggi Celo Bajramovic ha il controllo della "mafia" di Sarajevo con il beneplacito delle autorità.

Nijaz Durakovic, membro del governo ai tempi dell'assedio, ha dichiarato al settimanale Svijet : "sono convinto che il Mup (Ministero degli interni) ha intimidito, maltrattato e torturato i testimoni su questi casi criminali. In quel periodo ho fatto le fotocopie di tutta la documentazione e le ho nascoste in un posto sicuro in una banca di Vienna. Di questo ho informato il Governo, perché volevo essere sicuro di non essere ucciso dai cecchini serbi" (una macabra ironia: in realtà stavolta si riferiva a cecchini musulmano-bosniaci).

Munir Alibabic, già responsabile del centro per la sicurezza della polizia, ha accusato Bakir Alispahic, ex Ministero degli Interni, di controllare il mercato nero ed il traffico di droga. Alispahic è stato destituito da Izetbegovic dopo una forte pressione della diplomazia americana. Alibabic, vecchio investigatore della polizia fin dai tempi di Tito, il responsabile delle indagini su Izetbegovic, quando il presidente bosniaco finì in galera ai tempi di Tito, ha dichiarato che quello che sta venendo alla luce è solo la punta dell'iceberg.

C'è ancora molto da scoprire: traffici illeciti, accordi misteriosi ed alcune morti eccellenti come quelle di Juka Prazina (il "criminale" posto al comandando delle Forze Speciali) di Safet Zajko (leggendario comandante del monte Zuc) del generale Atif Pasalic (comandante del IV Korpus dell'Armjia Bosnia) e del generale Mustafà Hajrulahovic "Talijan" (comandante del controspionaggio).

Lo stato parallelo

Il pentito Garaplija, in una lettera aperta a Izetbegovic (dove gli si rivolge in modo confidenziale) ha anche accusato Kemo Ademovic (capo della polizia segreta Aid) di avergli ordinato di arrestare Herenda ed ha aggiunto: "Qui in galera non c'è nessuno che ha colpa per i crimini di guerra. Ci sono ex-soldati che sono stati spinti da questa maledetta guerra a fare qualcosa che non avrebbero mai fatto".

Oggi si può affermare che agli ordini del potere operavano per finalità assassine, non solo criminali come Juka, Celo, Caco, ma anche pezzi dello stato con strutture supersegrete. Ma Izetbegovic sapeva tutto o era all'oscuro di cosa facesse la sua polizia, la sua struttura segreta l'Aid e la sua struttura supersegreta, la Seva?

Una spiegazione l'ha data Emir "Nane" Topalovic (fratello di Caco) che ha sostenuto: "Era Izetbegovic che aveva in mano le chiavi di casa. Vuoi che un padre non sappia cosa fanno i figli nella propria abitazione ...?"

Quello che abbiamo scritto sulla "mano invisibile" - che durante l'assedio colpiva alle spalle con stragi ed assassinii la popolazione per poi svanire senza lasciare traccia - trova in queste ultime rivelazioni ulteriore conferma: la polizia segreta Aid ed il gruppo supersegreto Seva erano stati creati non per fare la guerra al nemico esterno (i serbi) ma per eliminare gli oppositori interni. Alla luce delle ultime rivelazioni sulla Seva, legata all'Sda, possiamo fare una nuova rivelazione sul caso Locatelli. Nel 1995 ad una delle nostre prime interviste - quella al dottor Nakuas - per l'inchiesta Locatelli, era presente un militare che se ne stava silenzioso ad ascoltare le domande e risposte. Quella sera stessa, abbiamo colto lo stesso militare a confabulare, all'interno dell'abitazione di un nostro vicino, con Edo Smajic, il traduttore dei Beati Costruttori di Pace che aveva detto a Locatelli il giorno prima della marcia a Vrbanja: "Guarda che domani torni in barella!". Solo di recente abbiamo riconosciuto il misterioso militare che ci controllava, grazie ad una foto apparsa sulla rivista Dani : si tratta di Halid Ganjac, attuale segretario dell'Sda, il partito di Izetbegovic. Perché un personaggio così importante si preoccupava di controllare la nostra inchiesta su Locatelli? Ad ulteriore conferma della correlazione tra Caco ed Izetbegovic, c'è il fatto che Timur Numic, uno degli ex comandanti della 15 brigata di Caco, è oggi il direttore centrale dell'Sda.

C'è da attendersi una risposta a queste nuove inquietanti rivelazioni sul periodo dell'assedio di Sarajevo? C'è una relazione tra queste rivelazioni e i recenti avvenimenti in Kosovo?

Sarà la risposta delle nazioni che hanno garantito gli accordi di Dayton ed hanno firmato il trattato sul "Tribunale Internazionale" alle pesanti accuse agli uomini più vicini al presidente Izetbegovic?

In attesa che si faccia giustizia su tutti i crimini delle guerre della ex-Jugoslavia, e che tutti i presidenti balcanici si rechino a Londra a far compagnia a Pinochet, aspettiamoci a breve tempo altre clamorose rivelazioni dalla martoriata capitale della Bosnia.


BOSNIA/GIUSTIZIA LETTERA APERTA AL NEO-MINISTRO DILIBERTO. GLI ASSASSINII NEL 1993

Quattro delitti politici, ancora impuniti

Sono i casi di Lana, Moreni e Puletti uccisi in Bosnia centrale e di Moreno Locatelli assassinato a Sarajevo

- G. BOC. -

Il tributo di sangue degli italiani nelle guerre della ex Jugoslavia è stato molto alto. I casi dove non si tratta di tragico destino in guerra, ma di assassinio riguardano la procura di Brescia: sono i casi di Sergio Lana, Fabio Moreni e Guido Puletti uccisi nella Bosnia centrale e di Gabriele Moreno Locatelli assassinato a Sarajevo. Nel primo caso il Gip di Brescia ha respinto il mandato di cattura internazionale contro Hanefija Prijc "Paraga" accusato di essere il mandante del triplice assassinio, ai sensi dell'art.9 del codice penale, in quanto il "delitto comune" è perseguibile solo con l'imputato presente in Italia. Nel caso di Gabriele Moreno Locatelli, la Procura di Brescia ha aperto un'inchiesta senza alcun seguito, per la mancata concessione da parte dell'ex ministro Flick dell'autorizzazione a procedere per "delitto politico".

Il 29 maggio 1993 Lana, Moreni e Puletti furono intercettati e assassinati sulla Diamond Road, mentre si recavano a Zavidovici con un carico di aiuti umanitari e i documenti per l'espatrio di una quarantina di vedove con bambini. Viaggiavano con Agostino Zanotti e Christian Pennocchio, che sono sopravvissuti. Della loro fine, etichettata come "delitto comune" apparentemente si sa tutto. Vennero fermati da un gruppo islamico guidato da tal "Paraga", rapinati dei camion e dei soldi, e poi fucilati sul campo. Ma qualcuno riuscì a fuggire. E grazie alla testimonianza degli scampati all'eccidio, Zanotti e Pennocchio, si risale alla banda di "Paraga". Ma è stato veramente un delitto "comune"? Uno squarcio di verità viene dalla ricostruzione fatta da Luca Rastello nel bel libro "La guerra in casa" (Ed. Einaudi). E' certo che molti convogli sono stati rapinati e saccheggiati, ma è anche vero che i soldati bosniaci non avevano alcun bisogno di sprecare pallottole. Sembra più un atto d'intimidazione, un avvertimento alle associazioni umanitarie, che aiutavano la fazione croata, da parte di un musulmano filocroato ("Paraga" era un soprannome croato) che si batte contro i croati.

Le indagini vengono svolte dal P.M. Paola de Martiis (la stessa di Locatelli) con alcune "intromissioni": gli identikit della banda di assassini vengono sequestrati da servizi segreti e consegnati alla de Martiis solo un mese più tardi. Scrive Rastello: "I dati vengono citati con esattezza in un articolo sulla 'Stampa' dell'11 ottobre. L'autore, Giuseppe Zaccaria, racconta di essere stato sul luogo e di aver parlato con un membro del commando che gli avrebbe mostrato Paraga con binocolo...Tuttavia la reale presenza sul posto di Zaccaria è resa dubbia dalla descrizione di luoghi e riferimenti topografici che risulta totalmente errata".

Nel tragico fatto si inserisce, per Rastello, una storia parallela, quella della "Caritas di Ghedi", in contatto con i potenti francescani di Medjugorie, sospettata dai musulmani di portare aiuti logistici sotto la copertura di aiuti umanitari. Lana, Moreni e Puletti sono stati ucci, per un errore di persona o per un sospetto infondato, ma come si può sostenere la tesi del "delitto comune"?

Il 3 ottobre 1993 venne ucciso a Sarajevo Gabriele Moreno Locatelli, durante una manifestazione pacifista sulla prima linea del Ponte Vrbanja. I giornali titolarono: "Pacifista ucciso da un cecchino serbo". Nel 1995 all'inizio della nostra inchiesta (si sparava ancora) si sono subito presentati gravi problemi: bisognava scoprire chi avesse sparato in un fazzoletto di terra, dove erano appostate ben 4 fazioni (i serbi di Karadzic, l'Hvo croata alleata dei bosniaci, la 15 brigata bosniaca del comandante Caco e le Forze speciali dell'Armija Bosnia). Un altro ostacolo era quello dei funzionari Onu che dicevano di aver perso il dossier sul caso Locatelli. Una nostra richiesta a Kofi Annan di avere le mappe delle dislocazioni delle forze, rimase senza risposta. Sapevamo però che il caso Locatelli poteva spiegarci molto dei misteri di Sarajevo. Così malgrado l'indifferenza da parte della stampa ("un caso fumoso"... ci disse un noto inviato speciale), e la censura sul nostro lavoro televisivo (Il film-documentario "Morte di un pacifista" non è mai stato programmato dalla tv italiana) siamo andati avanti.

Avevamo trovato le prove della presenza di Haris Lukovac, capo delle guardie del corpo di Izetbegovic, sulla scena del delitto con compiti alquanto strani; avevamo trovato le prove della presenza di un misterioso agente del controspionaggio bosniaco travestito da giornalista; avevamo trovato prove sull'arma utilizzata e sulla traiettoria del proiettile, ma inspiegabilmente il Ministero di Grazia e Giustizia non ha mai dato l'autorizzazione per l'inchiesta giudiziaria come "delitto politico", anche se fin dall'inizio era chiaro che un assassinio durante una manifestazione per la pace (in zona di guerra) non poteva essere considerato un "delitto comune". Non si è neanche indagato sull'ipotesi, molto realistica, di eventuali reati connessi. Lo scorso settembre, abbiamo registrato le dichiarazioni di Emir Topalovic (fratello del comandante bosniaco Caco): "Siamo stati noi e abbiamo avuto un ordine". L'ultima conferma - ce n'era bisogno? - che Locatelli è caduto in un agguato "politico".


(*) Il regista Giancarlo Bocchi ha realizzato filmati sui conflitti di Afghanistan, Bosnia, Kosovo, Irlanda del Nord e Messico. Durante l'assedio di Sarajevo ha raccontato le sofferenze della popolazione con i film-documentari "Mille giorni a Sarajevo", "Sarajevo Terzo Millennio", e "Diario di un assedio". Nel 1995 ha realizzato il film-documentario "Morte di un Pacifista" su Gabriele Moreno Locatelli, assassinato sul ponte Vrbanja di Sarajevo il 3 ottobre 1993. Il film "Morte di un pacifista", che ha ricevuto il Premio Trieste per il nuovo cinema Europeo, ha portato nel 1996 la riapertura dell'inchiesta giudiziaria sulla morte di Locatelli da parte della Procura della Repubblica di Brescia. Giancarlo Bocchi sta realizzando attualmente una seconda versione di "Morte di Pacifista" con testimonianze inedite, raccolte di recente, come quella di Emir (Nane) Topalovic, fratello del tragicamente famoso "Comandante Caco".


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