Dopo ben cinque anni di attesa e' stata finalmente concessa l'autorizzazione a procedere contro ignoti per l'assassinio del pacifista italiano Gabriele Moreno Lucatelli, avvenuto a Sarajevo nel 1993. Riportiamo di seguito alcuni sconvolgenti articoli su quell'episodio e sulla recente decisione del Ministro della Giustizia Diliberto. (CRJ, febbraio 1999)
Storie, notizie dal mondo
Si apre dopo 5 anni l'inchiesta sull'assassinio di un italiano nella
capitale della Bosnia. Parla un testimone oculare
di Leonardo Sturiale
SARAJEVO - Chi ha ucciso Gabriele Moreno Locatelli e perche'? Aveva 34 anni, era disarmato, attraversava in pace e per la pace il ponte simbolo di Sarajevo, citta` martire di questo secolo di sangue e tragedie. Sul ponte Vrbanja insieme a Moreno erano saliti altri quattro italiani. Sulle due sponde del fiume Miliacka, divise dalla guerra, i fucili erano puntati. Sopra il ponte camminava la speranza, coi passi lenti e misurati di un gesto politico non violento, cosi` mite ma cosi` dirompente in una citta` divorata dalla guerra. Chi e perche' ha ordinato quella spietata esecuzione? Dopo oltre cinque anni da quella tragica domenica 3 ottobre 1993 la giustizia italiana dovra` porsi ufficialmente queste domande. Il ministro della giustizia Diliberto ha firmato pochi giorni fa l'autorizzazione a procedere contro ignoti per il delitto politico commesso all'estero contro il cittadino italiano Moreno Locatelli, ex frate minore francescano. In realta` quelle domande non hanno mai smesso di ossessionare la madre, la sorella e i familiari di Moreno che vivono a Canzo, vicino a Como. Le stesse domande assillano i quattro compagni di strada di Locatelli - Gigi Ontanetti, Luigi Ceccato, Luca Berti, padre Angelo Cavagna - e tutto il movimento pacifista, in particolare i "Beati costruttori di Pace" l'associazione di Padova guidata da don Albino Bizzotto a cui i cinque protagonisti della marcia sul ponte si riferivano. Due giorni prima ma della tragedia, altri "Beati costruttori di pace", tra cui lo stesso don Albino, con un gruppo di soli religiosi, preti e suore, avevano tentato di attraversare lo Stari Most, il ponte vecchio di Mostar, diventato frontiera tra est e ovest, tra musulmani e croati. Respinti dalle raffiche intimidatorie venute da est, i "Beati" avevano fatto dietro-front come i cinque di Sarajevo. Ma a Mostar nessuno sparo` addosso ai pacifisti in ritirata come avvenne invece sul ponte Vrbanja. Perche'? Oggi lo Stari Most, uno dei capolavori architettonici lasciati dai turchi in Bosnia, e` solo un ricordo. Quel ponte che collegava oriente e occidente, musulmani e cristiani dell'antica Mostar non, esiste piu`: l'hanno abbattuto a cannonate le cattolicissime milizie croate. Il ponte Vrbanja, il ponte dei Salici, invece e` ancora in piedi col suo carico di ricordi: la targa per Suada, studentessa croata di Dubrovnic, che fu la prima vittima della guerra; il luogo in cui furono uccisi Bosco e Admira, lui serbo, lei musulmana "Romeo e Giulietta" della capitale bosniaca. E infine Gabriele Moreno Locatelli per il quale i cittadini di Sarajevo, con una petizione, hanno ottenuto che gli fosse intitolata una strada, proprio oltre il ponte, dove avrebbe voluto arrivare da vivo. I sarajeviti lo onorano come uno dei loro eroi, un martire italiano tra i tanti bosniaci. In Italia invece la sua vicenda e` stata liquidata con sufficienza (come il gesto folle di un idealista votato al martirio) oppure con malcelato fastidio (cinque anni di silenzio e un'inchiesta arenata alla procura di Brescia prima che un ministro autorizzasse il procedimento penale). E non basta: anche nell'arcipelago dei movimenti pacifisti la tragedia del ponte Vrbanja ha lasciato ferite aperte, lunghi silenzi e fiammate polemiche dopo alcune ricostruzioni giornalistiche giudicate dai protagonisti approssimative o malevole. Noi abbiamo dato la parola a uno dei protagonisti di quella marcia sul ponte, Gigi Ontanetti, 42 anni, operaio edile, cresciuto nella comunita` fiorentina dell'Isolotto, educatore scout dell'Agesci, non violento per convinzione. Ontanetti ha vissuto piu` di un anno a Sarajevo durante l'assedio.
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Intervista esclusiva a un protagonista: Gigi Ontanetti
Perche' volevate attraversare quel ponte?
I ponti servono per collegare. Da una parte della citta` c'erano i Bosniaci e oltre il ponte, a 600 metri circa, c'erano i serbi. Nel dicembre del '92 in 500 attraversammo le frontiere dall'Italia verso Sarajevo per ricordare al mondo che ci sono altre vie oltre la guerra per trovare una soluzione giusta ai conflitti. Alcuni dei Beati costruttori di pace vivevano da fine giugno '93 a Sarajevo. Da dentro la citta` assediata era chiaro che l'Occidente si era scordato di questa guerra. Tra l'altro si avvicinava l'inverno e le condizioni di sopravvivenza diventavano drammatiche. Attraversare il ponte Vrbanja era un atto politico per dire all'Occidente, cittadini e potenti, che anche grazie a loro migliaia di persone rischiavano di morire di fucilate, di fame e di freddo.
Vi accusano di non aver preparato bene l'azione.
Tutti danno per scontato che quando c'e` una guerra i semplici cittadini non possano fare niente e solo gli esperti (politici e militari) sappiano cosa fare. In guerra nessuno ti da` il permesso di fare la pace. In questo senso e` vero che il rischio di morire era altissimo. E ne eravamo ben consapevoli.
Avevate chiesto garanzie alle parti in conflitto?
Abbiamo incontrato tutti i comandanti: quello delle truppe serbe, quello dell'Armija, l'esercito regolare della Bosnia al cui interno militavano formazioni croate, e lo stesso comandante dei croati. Tutti ci dicevano che non avrebbero sparato per parte loro ma non garantivano che gli altri avrebbero fatto altrettanto
Chi vi creo` piu` difficolta`?
Tutti dicevano una mezza verita`. Ma fummo costretti a rinviare l'azione di un giorno perche' scoprimmo che il famigerato comandante Caco (si legge Zazo N.d.R.), che aveva alle sue dipendenze un mini esercito dalla fama poco raccomandabile, teneva la testa di ponte a sud, quella piu` avanzata e vicina alle linee serbe. E lui non rispettava gli ordini del comando dell'Armija
Dicono che rispondesse direttamente al presidente bosniaco lzetbegovic?
Non mi stupirebbe. In guerra tutto diventa lecito. Non escludo neppure che tra noi volontari si fossero inoltrati personaggi ambigui. Come quell'italiano che tento` di venire con noi a Sarajevo per fare il cecchino a 600 marchi ogni vittima. A Sarajevo ce n'erano diversi di cecchini italiani. Non era un segreto. Possibile che le autorita` italiane non siano intervenute? C'erano perfino quelli che invece pagavano per farsi un "safari di caccia all'uomo". E c'era una tratta di piccoli profughi. Bambini partiti dalla Bosnia per le vacanze in Italia che poi non tornavano a casa. Mi auguro che qualcuno si stia occupando della loro scomparsa.
Anche dietro gli aiuti c'erano traffici loschi?
A Sarajevo ho mangiato biscotti americani datati 12 agosto 1963. Erano avanzi della guerra del Vietnam. C'e` un economia di guerra che non ha confini e gestisce il business dei conflitti.
Come funzionava in Bosnia?
L'ONU divideva gli aiuti umanitari per le tre fazioni poi ne perdeva le tracce. Le mafie locali facevano il resto: immettevano gli aiuti sul mercato nero e con il ricavato ricompravano armi. C'erano interessi economici di grande peso internazionale intorno all'assedio di Sarajevo e alla guerra in Bosnia. Queste cose le sanno tutti, ma pochi le scrivono... preferiscono dedicarsi ai pacifisti che muoiono in azioni di pace come se fossero colpevoli del proprio destino.
Torniamo al comandante Caco. Ci parlaste?
Si` e gli chiedemmo di assumersi la sua responsabilita` di uomo. Lui lo fece. Ma quando salimmo sul ponte i suoi uomini ci spararono colpendo a morte Moreno. Mentre lo aspettavamo davanti al suo comando, lo vedemmo uscire dalla sede dell'Unprofor a braccetto con un alto ufficiale del contingente egiziano dell'ONU in un clima di grande cordialita`
Era normale a Sarajevo?
Vista la fama criminale di Caco noi restammo impietriti. Ma a Sarajevo abbiamo visto anche di peggio. La mattina del giorno prima, il primo ottobre, eravamo al Ptt, il palazzo che ospitava il comando della missione ONU (Unprofor) a Sarajevo. Moreno mi chiamo` urlando "vieni a vedere!". Accanto a lui c'era una signora anziana che faceva le pulizie. Mi affacciai al parapetto e vidi un mezzo blindato delle Nazioni Unite con le insegne della Croce Rossa da cui venivano scaricate casse di kalasnikov nuovi, luccicanti, e granate da mortaio. Le casse venivano trasferite su un altro mezzo sempre dell'ONU. All'urlo di Moreno i soldati, come colti sul fatto, chiusero subito il blindato e ci vennero incontro.
E voi che faceste?
Moreno scappo` da una parte e la donna dall'altra. Di me forse non si accorsero. Ci ritrovammo mezz'ora dopo, promettendoci di tacere la cosa. La donna invece scomparve. Al lavoro non si ripresento` e nessuno l'ha piu` rivista a casa sua.
L'avete mai raccontato?
Moreno non ne ha avuto il tempo, perche' fu assassinato due giorni dopo sul ponte Vrbanja. Io lo raccontai a Giancarlo Bocchi durante l'unica intervista filmata che mi fece, ma lui non ha pubblicato queste notizie
Molte cose non sono state scritte...
Troppe. Nessuno ha scritto, ad esempio, del fiorente commercio di droga organizzato a Sarajevo dai soldati francesi della Legione straniera. I bambini e i ragazzini si avvicinavano al filo spinato di recinzione dell'Unprofor, allungavano le mani con i marchi e ricevevano in cambio tavolette di cioccolata. Sotto pero` c'era la droga. A un soldato cadde la roba sotto il reticolato: ebbi tutto il tempo di vedere di cosa si trattava. Lo rimproverai e lui mi rispose: "Ma guarda che li trattiamo bene, gli diamo una percentuale alta".
La mattina del 3 ottobre chi trovaste vicino al ponte Vrbanja?
Nessuno, nessuno che ci impedisse di proseguire. Non un soldato ONU. Un silenzio irreale. Entrammo sul ponte dalla sponda vicina al palazzo del Parlamento, in fila indiana, a passi lenti. Quando io e Angelo Cavagna arrivammo a meta` del ponte dal casotto antistante parti` una lunga raffica di mitra. I proiettili colpivano l'asfalto e ci rimbalzavano tra le gambe. Ci fermammo e come avevamo stabilito prima, facemmo dietro front. Moreno, che era l'ultimo della fila si trovo` ad essere il primo, e mentre si girava per raggiungere le linee bosniache fu raggiunto da un'altra raffica precisa e mortale. Un attimo prima, da quello stesso casotto in cui si trovavano gli uomini di Caco vidi uscire un soldato con una mitragliatrice pesante. Si riapposto` dietro la spalletta e da li` probabilmente ha fatto fuoco, era l'unico punto dal quale avrebbe potuto colpire Moreno che era gia` oltre la barricata che chiudeva il ponte.
Cosa avete fatto allora?
Luca, Angelo e Luigi furono bravissimi. Rispettarono le consegne che ci eravamo dati: rimasero composti, in silenzio, e rientrarono dietro le linee con calma, senza fuggire. Nessuno si chino` su Moreno nell'immediato.
Perche'?
Perche' a Sarajevo tutti sapevamo che i cecchini non aspettavano altro: ammazzavano i soccorritori che si chinavano sui feriti. Era la loro tecnica. Prima di aiutare un caduto bisognava lasciar passare almeno un minuto. Ma quando Luigi ed io facemmo il primo passo per tornare da Moreno, che era immobile a terra, i soldati ci bloccarono fisicamente e ci trascinarono nelle cantine del palazzo.
Chi raccolse Locatelli?
Furono i soldati. Moreno fu portato all'Ospedale francese e operato. Mori` nel tardo pomeriggio, circa cinque ore dopo. Fui io a chiudergli gli occhi.
Quale fu la versione ufficiale sulla sua morte?
Il medico che opero` Moreno, intervistato il giorno dopo da due giornalisti del Manifesto, dichiaro` che i proiettili erano stati sparati da non piu` di 40 metri. Poi la versione fu corretta: gli spari venivano da piu` lontano, almeno 300 metri, da dove avrebbero potuto sparare ai serbi. Anche a noi chiesero di firmare una dichiarazione che incolpava i serbi. Ci rifiutammo.
Caco fu assassinato circa un mese dopo la tragedia di Vrbanja. Cosa si aspetta dalla giustizia italiana?
La verita`. Caco e` morto, i suoi mandanti sono vivi. Sul ponte non vollero solo frenare una marcia di pace, come il giorno prima a Mostar: avevano deciso di assassinare uno di noi. Moreno fu scelto come vittima forse solo per la posizione che aveva in quel momento sul ponte, perche' con quella angolazione di tiro potevano far credere che a sparare fossero stati i serbi.
Lei e` stato minacciato?
Si`, ho avuto per due volte di recente chiare minacce di morte. Forse pensano che io abbia notizie e prove che potrebbero far emergere i responsabili dei crimini. Ma i servizi segreti italiani, e la stessa 'intelligence' vaticana, ne sanno molto piu` di me. Sarebbe ora che collaborassero con la giustizia.
Cosa le resta dentro a 5 anni da quella tragedia?
Dopo tutto questo silenzio rimane ancora un'interrogativo che spacca in due il mondo del volontariato e del pacifismo: Gabriele Moreno Locatelli, come qualsiasi altro cittadino del mondo, aveva il diritto di salire su quel ponte per dire basta alla guerra?
E lei che risposta da`?
Io dico di si`. Le istituzioni di guerra non risolvono i conflitti. Ho il diritto di non delegare a nessuno, e tanto meno alle armi, il mio dovere di far tacere le armi. Uso solo la mia persona fisica, la mia intelligenza, la mia spiritualita`.
Si ma si trova di fronte gente che spara...
E' un problema loro e di chi li comanda. Non il mio. La morte e` un falso problema. Spesso aver paura di morire significa aver paura di vivere.
Leonardo Sturiale
L'articolo che segue e' tratto da "il manifesto" del 27 Dicembre 1998
BOSNIA/VERITA' LETTERA APERTA AL MINISTRO DILIBERTO SUL "CASO LOCATELLI"
- GIANCARLO BOCCHI * -
I l caso giudiziario del dittatore Augusto Pinochet ha riproposto il problema di scottante attualità della cosiddetta "giustizia internazionale", delle difficoltà operative e politiche del costituendo Tribunale Internazionale sui crimini contro l'umanità, e dei poteri degli organi giudiziari nazionali sul tema dei delitti commessi in altri paesi.
Gli organi giudiziari di varie nazioni si sono giustamente mossi per chiedere l'incriminazione del dittatore cileno e così facendo si sono dovuti necessariamente occupare di altri casi giudiziari rimasti sepolti per anni. Proprio nei giorni scorsi, Oliviero Diliberto, tra i suoi primi atti come neo-Ministro di Grazia e Giustizia, dopo anni di silenzio delle Istituzioni, ha concesso l'autorizzazione a procedere ai sensi dell'art. 8 c.p. (delitto politico all'estero) contro Prijic Hanefija detto "Paraga", per l'omicidio di Sergio Lana, Guido Puletti e Fabio Moreni, i tre volontari italiani assassinati a Gornji Vakuf (Bosnia) nel maggio 1993. Purtroppo nulla è stato ancora deciso per l'omicidio di Gabriele Moreno Locatelli, colpito a morte a Sarajevo il 3 ottobre 1993 sulla prima linea del ponte di Vrbanja.
La procura di Brescia ha atteso per anni, dai predecessori di Diliberto, l'autorizzazione a procedere per "delitto politico dell'estero". In relazione alle modalità stesse dell'omicidio, avvenuto durante una manifestazione pacifista in zona di guerra, si sarebbe potuto accertare immediatamente il carattere "politico" del delitto.
Perché, a distanza di cinque anni dall'omicidio, questa decisione non è stata ancora presa?
Già la notte stessa della morte di Locatelli, don Albino Bizzotto, il "leader" dei Beati I Costruttori di Pace, confessò al giornalista Claudio Olivato, che erano stati "i musulmani", per poi chiudersi in un inspiegabile silenzio. Un silenzio rotto solo da polemiche contro chi ricercava la verità sul caso Locatelli o contro chi avanzava legittime perplessità sull'iniziativa intraprese dal suo gruppo.
Il 2 ottobre 1993 sul ponte di Mostar i musulmani-bosniaci spararono sopra la testa di Bizzotto e del suo gruppo: per poco non ci scappò il "morto". Malgrado queste "premesse", il leader dei Beati autorizzò il giorno dopo la marcia a Sarajevo, in un luogo assai più pericoloso - se così si può dire - del ponte di Mostar.
La zona del ponte di Vrbanja, dove erano morte centinaia di persone colpite dai cecchini, era una prima linea di grande importanza strategica, contesa da diverse fazioni: avventurarsi su quel ponte era un sicuro "suicidio". Ma c'erano anche altre ragioni che avrebbero dovuto sconsigliare don Albino Bizzotto dal promuovere ed autorizzare simili "avventure".
I bosniaci-musulmani avevano soprannominato Albino Bizzotto "don serbo" e guardavano con crescente sospetto le azioni del suo gruppo.
Sulla Marcia della pace dei 500 (Sarajevo 1992) si erano addensati pesanti sospetti per la presenza, con compiti organizzativi di alto livello, di due oscuri personaggi: l'americano Curtis Dobbler ed il siriano Atris Sadallah : dopo alcuni contatti tra don Albino e R. Karadzic, il criminale serbo-bosniaco, era arrivato un avvertimento ai Beati presenti a Sarajevo: "state attenti che ve la facciamo pagare".
I Beati avevano anche organizzato la marcia di Aviano contro i bombardamenti Nato del luglio '93 (invocati dai musulmano-bosniaci) e successivamente 66 persone dei Beati erano entrate a Sarajevo attraverso le linee serbe, aumentando i sospetti dei musulmano-bosniaci. Per questo i musulmano-bosniaci avevano infiltrato a Sarajevo il gruppo dei Beati con diversi informatori della polizia e del controspionaggio.
Anche i successivi avvertimenti che ricevette don Angelo Cavagna (responsabile dei Beati a Sarajevo) non servirono a nulla. Anzi Cavagna provò a sminuirli: "Con Veselinovic (capoccia serbo di Ilidza) non ci siamo intesi perchè mancava il traduttore". La manifestazione si doveva tenere a tutti i costi: molti dei Beati a Sarajevo erano contrari, ma nessuno si sentì in dovere di chiedere all'Unprofor (le forze Onu) un intervento risolutivo per fermarla. I Beati, per di più, imposero anche una regola "suicida": "Chi viene ferito deve essere abbandonato sul posto". Proprio per questa "regola militare", assurdamente applicata in campo aperto, probabilmente morì Locatelli: pur contrario alla manifestazione, vi partecipò spinto dalla volontà etica ed umanitaria di aiutare gli eventuali feriti.
E fu proprio lui ad essere colpito a morte.
Ma nessuno lo trascinò via, nessuno si fermò a soccorrerlo. Neanche don Cavagna che, con un certo realismo, fu l'unico dei cinque Beati sul ponte ad indossare il "giubbotto antiproiettile". I Beati ne avevano a sufficienza per tutti: c'erano 10 giubbotti antiproiettili che avevano ricevuto "in uso" dai Carabinieri del Veneto.
I musulmano-bosniaci avrebbero potuto fermare i Beati prima del ponte (come gli era stato ordinato dall'Onu) e rispedirli a casa. Ma preferirono lasciarli passare presumibilmente per dare loro una agghiacciante lezione.
Permettere l'attraversamento del ponte Vrbanja significava lasciar dimostrare, agli occhi della distratta opinione pubblica internazionale, che si poteva rompere "simbolicamente" l'assedio di Sarajevo, che si poteva entrare e uscire da una città assediata.
Una cosa intollerabile per il potere musulmano-bosniaco: così scattò la trappola.
Il famigerato e terribile comandante musulmano-bosniaco Musan Topalovic (Caco) convinse i Beati a rimandare la manifestazione di un giorno: "Ora è troppo tardi, si sta facendo scuro. E' meglio che andiate domani mattina. tanto se volessi uccidervi lo potrei fare anche ora".
Così gli ingenui ragazzi di don Bizzotto cascarono nel tranello il giorno dopo, il 3 ottobre alle ore 13,30.
I miliziani del comandante Caco spararono tra le gambe dei manifestanti nei dintorni della via Ljubljanska. Dietro le linee un "presunto" giornalista bosniaco - presumibilmente uno della polizia segreta (sparito dalla circolazione subito dopo il fatto) - tenne a bada la stampa estera presente (ma di tanto in tanto si allontanava per avere notizie dalle postazioni militari). Haris Lukovac, capo delle guardie del corpo di Izetbegovic, (che si vantò l'anno dopo di aver incendiato la sede dei Beati di Sarajevo), controllò la situazione da una postazione nelle vicinanze del ponte. Il caso di Bosko ed Admira (i Giulietta e Romeo di Sarajevo) aveva insegnato qualcosa: non si potevano lasciare cadaveri ingombranti troppo a lungo sotto gli occhi della stampa internazionale.
Il sicario sparò a Locatelli con la micidiale mitragliatrice Sijac smrti "la seminatrice di morte" (un'arma con proiettili ad alta velocità cal. 7,62, che non lasciano scampo). Colpì Locatelli perchè era il più distante dalla postazione di fuoco (per evitare imbarazzanti spiegazioni in caso di indagini minuziose, con autopsia del corpo della vittima).
Il giorno dopo dell'assasinio, il quotidiano di Sarajevo Oslobodenje, prudentemente titolò "Incidente a Vrbanja", mentre i giornali italiani titolarono: "Pacifista italiano ucciso dai cecchini serbi".
Di recente Emir "Nane" Topalovic, il fratello del comandante Caco ci ha rivelato, a conferma di numerosi indizi e riscontri raccolti durante la nostra lunga inchiesta: "Siamo stati noi, nessuno 'straniero' si poteva infiltrare nelle nostre linee. Abbiamo avuto un ordine dall'alto". Una ulteriore conferma dei già forti sospetti sui personaggi vicini al potere bosniaco nell'agguato omicida. Ma cosa intendeva dire Topalovic con il termine "straniero"? Si riferiva ai serbo-bosniaci o a sicari estranei al gruppo Caco?
L'assasinio di Locatelli, organizzato con estrema cura, probabilmente non fu gestito solamente dal comandante Caco e dai suoi uomini. Le recenti rivelazioni di alcuni "pentiti" bosniaci sulla struttura segreta "Seva", specializzata in stragi ed assassinii, ci hanno fatto capire molte cose utili al caso Locatelli. Due personaggi legati a Caco, Timor Numic (l'attuale direttore centrale dell'Sda, il partito di Izetbegovic) e Senad Pecar, subito dopo la morte di Caco (avvenuta venti giorni dopo quella di Locatelli) furono promossi. Di recente Sefer Halivovic, ex comandante dell'Armija Bosnia, ha dichiarato: "Si vedeva molto bene la comunione tra Numi, Pecar (ed altri) con Alispahic (del Ministero degli Interni ndr) e la struttura segretissima denominata 'Seva'", accusata di molti fatti oscuri e di vari delitti politici. "Perchè mi accusate?" - ha dichiarato di recente l'ex ministro degli interni Alija Delimustafic. "La 'Seva' era stata organizzata dietro ordine di Alija Izetbegovic ed io ero solo formalmente il Ministro degli Interni. Il vero ministro era Bakir Izetbegovic (il figlio del presidente Alija) con i suoi primi aiutanti Bakir Alispahic e Asim Dautbasic".
C'è da aggiungere che la nostra inchiesta sul caso Locatelli (iniziata nel 1995) era seguita con estrema attenzione a Sarajevo perfino da personaggi come Halid Ganiac (il segretario dell'Sda), che dopo aver inaspettatamente assistito ad una delle prime interviste (quella con il chirurgo che aveva operato Locatelli, il dott. Nakas), la sera stessa fu colto a confabulare davanti alla nostra abitazione con Edo Smajic, l'autista-traduttore responsabile di uno strano avvertimento a Locatelli: "Guarda che domani torni in barella". Un avvertimento che a Locatelli, più o meno nella stessa forma, gli era stato ripetuto da un suo conoscente bosniaco che, come abbiamo scoperto, lavorava all'epoca al centralino di uno dei "servizi" militari.
Come mai i Beati, dopo tutti questi avvertimenti, andarono su quel ponte? Una possibile spiegazione, almeno parziale, può venire da un passo della Bibbia che Luca Berti lesse agli altri prima della marcia "suicida": "Ecco che per te tutto il giorno siamo andati alla morte, stimati come pecore da macello". Ma Locatelli non cercava il martirio: "Ci vado perchè certe cose mi piacciono. Se c'è un ferito me lo carico in spalla e me lo porto via". Un gesto coraggioso che ha pagato con la vita, mentre tutti i responsabili della sua morte (proprio tutti) restano impuniti.
Sappiamo fin da ora che non sarà un'inchiesta (se autorizzata) facile, sia per il lungo tempo passato, sia per i coinvolgenti politici ad alto livello e per i depistaggi che sono avvenuti in passato per legittimare l'attuale potere a Sarajevo. Probabilmente qualcuno cercherà di scaricare tutte le colpe su personaggi defunti, come il comandante Caco, o su fazioni estranee all'agguato omicida.
La famiglia Locatelli, da tempo chiusa in un dignitoso silenzio, confida solo "nella giustizia dei cieli". Ma per chi confida ancora nella Giustizia degli uomini, in attesa del Tribunale Internazionale, sarebbe preferibile che le norme dei codici nazionali, anche se antiquate come l'art. 8 c.p., fossero applicate senza dare tanta pena alle famiglie delle vittime, come è avvenuto in passato nel caso di Lana, Puletti, Moreni e di Ilaria Alpi.
Il Ministro Oliviero Diliberto, che con tempestività, ha concesso l'autorizzazione a procedere contro l'assassinio di Lana, Puletti e Moreni, non può dimenticarsi dell'assassinio "politico" di Moreno Locatelli. La popolazione di Sarajevo, così duramente colpita dalle bande assassine dei serbo-bosniaci di Radovan Karadizic e dalle oscure trame dei suoi stessi governanti, non ha dimenticato il sacrificio del pacifista italiano. Anche noi non possiamo dimenticare. Quando non prevalgono i sentimenti di giustizia e i valori etici, anche l'indifferenza diventa un crimine odioso: una complice convivenza.
*Regista, autore fra l'altro del documentario-inchiesta "Morte di un pacifista" su Moreno Locatelli
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