A proposito di Decima Mas


Certo è davvero disarmante il revisionismo che sul piano storico si cela sotto il dibattito riguardante il libro di Roberto Vivarelli, “La fine della stagione”. L’intento revisionista, che non può che avere come obiettivo ultimo la Resistenza, non è nel libro in sé, così come del resto mi pare abbia confermato anche l’autore, uno storico di sinistra, che narra la sua avventura personale di quattordicenne nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese. Si può disquisire sulla coerenza dell’autore, sulla sua tardiva confessione, rilevare contraddizioni, etc. ma sono tutti discorsi soggettivi, non di rilievo, che lasciano il tempo che trovano e che non interessano e del resto oggettivamente sul piano storico un libro di memorie non può essere accusato di revisionismo. Sulla stessa falsariga del resto si era già espresso il fratello Piero Vivarelli, anche lui e prima ancora, militante della Decima, registra e documentarista che aveva ricordato e pubblicamente difeso, pur essendo lui oggi addirittura un militante del Partito Comunista Cubano!, i suoi trascorsi repubblichini in un articolo sull’Unità del 29 maggio 1996. Ma le sue memorie e la sua posizione, pur già conosciuta, non avevano sollevato il polverone che ha suscitato il fratello con il suo libro. A me interessa, in effetti, soprattutto ciò che partendo dal libro, ed al di là della sua valenza, è scaturito sui mass-media ad iniziare da organi di stampa di assoluto rilievo come il Corriere della Sera di Paolo Mieli. E’ indubbio che in atto da tempo, e questa vicenda ne è un tassello, un tentativo di appiattimento e annebbiamento della storia della nostra Repubblica che tende a spargere una cortina, un velo, sui fatti, col fine di giustificare anche le posizioni fasciste, che da tempo erano state invece, con l’accordo di tutti, riconosciute storicamente come sbagliate ed ingiuste, ed a rappresentare, secondo gli antichi insegnamenti di Renzo De Felice, la guerra civile che si attuò nella Resistenza come una guerra di due minoranze, i partigiani e i fascisti repubblichini, mentre il popolo era assente e non partecipe. Calcando la mano sulle vicende private e personali, appunto sulle memorie, si tende a rappresentare gli uomini ed a parificarli. Perché è indubbio che è più difficile condannare singolarmente un giovanissimo, esaltato, ma convinto ed onesto, aderente alla RSI, per motivi d’orgoglio, d’onore e d’amor di patria, etc. che non la posizione storico-politica che lo stesso finì, purtroppo per lui, per rappresentare. C’è il pericolo in tutto questo, come ha già evidenziato con allarme Gaetano Arfè, di vedere finire messi sullo stesso piano il giovane deputato socialista Matteotti, ed il giovane fascista Dumini che lo assassinò.

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