LA SECONDA 

GUERRA MONDIALE  

 

L'ORO DEGLI EBREI, VIA RASELLA, LE FOSSE ARDEATINE ..

  

Kaltenbrunner  dal 1939 sino alla fine della guerra fu deputato al Parlamento. La sua carriera ebbe una insperata svolta grazie all'uccisione di Heydrich ad opera di partigiani cecoslovacchi. Quando Heydrich morì il 4 maggio 1942 Himmler decise di affidare a K. la direzione dell'Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA). Grazie a questo incarico K. divenne l'uomo più potente del Reich dopo Himmler. Come capo dell'RSHA era anche sottosegretario al Ministero degli Interni. Caratterialmente K. era un nazista fanatico ed estremista ma assai meno intelligente di Heydrich e perciò considerato decisamente meno pericoloso da Himmler. Il ruolo di K. nella politica genocida nazista fu enorme. Egli era il capo supremo della macchina di distruzione e ai suoi ordini operavano Eichmann e i suoi uomini le cui azioni ricevevano il suo consenso. L'intero sistema dei campi di concentramento era dipendente da lui e se l'idea dello sterminio totale dell'Ebraismo europeo venne da Heydrich fu K. a realizzarla. Conosceva perfettamente le condizioni dei campi che visitò più volte. Ordinò personalmente la deportazione degli Ebrei dalla Danimarca. Dopo l'attentato a Hitler del 20 luglio 1944 fu l'organizzatore della repressione che condusse alla morte di 8.909 persone sospettate di congiura. Fu lui ad insediare a capo del tribunale speciale il giudice-boia Roland Freisler. Alla sconfitta della Germania fuggì in Tirolo ma venne catturato dagli americani il 15 maggio 1945. Venne impiccato il 16 ottobre 1946.

  Il mattino del 26 settembre 1943 i vertici della comunità ebraica erano stati invitati nell’ufficio di Herbert Kappler, Comandante la polizia tedesca di Roma (a differenza di Kaltenbrunner Kappler non verrà impiccato) ............  L’armistizio era stato firmato da pochi giorni, ma già la sovranità “repubblicana” scricchiolava. Gli Ebrei che fino a quel momento, pur non vivendo una vita facile, non rischiavano i campi di sterminio tedeschi, ora avevano di che temere. E non era questa convocazione a presagirlo, anzi questa sembrava una negoziazione oro contro libertà, pesante ma non la prima che gli ebrei avevano affrontato nella loro storia. Il mattino del 26 i vertici della comunità romana erano quindi stati invitati e Kappler senza mezzi termini se ne usciva con una dichiarazione di guerra: " Noi tedeschi consideriamo voi ebrei come nemici e come tali vi trattiamo. Non abbiamo bisogno delle vostre vite, né di quelle dei vostri figli, abbiamo bisogno invece del vostro oro. Entro 36 ore voi dovete versare 50 chili d'oro altrimenti 200 ebrei saranno presi e deportati in Germania".

Di intavolare una discussione visti i precedenti noti nessuna voglia. A Roma in quei giorni non si sapeva ancora ma sul lago maggiore a Meina all'omonimo Albergo si era già compiuta la prima strage di Ebrei ad opera di un reparto delle SS guidato dal comandante Krassler. La famiglia Behar, Turca (paese neutrale e quindi intoccabile) ma di religione Ebrea, ospitava anche diversi ebrei greci e orientali. Alberto Behar, proprietario dell'Hotel Meina, riuscì in seguito a guadagnare il vicino confine svizzero attraverso un passaggio segreto e sfuggire alla strage, ma vide morire, tra il 22 e il 23 settembre, 16 suoi correligionari, gettati nel lago con una pietra al collo. Poiché la Turchia avrebbe potuto schierarsi con gli Alleati facendo perdere loro anche quel minimo di garanzie. «Fuggimmo senza soldi né documenti attraverso il lago, grazie a dei pescatori. Fu solo a fine novembre che raggiungemmo la Svizzera - e la salvezza» dice Becky Behar l'ultima sopravvissuta. Sull'argomento Libro di Marco Nozza "Hotel Meina" al quale si e' ispirato anche Carlo Lizzani per la sceneggiatura del film omonimo di fantasia. Al centro delle proteste di Becky le discrepanze tra la sua storia e quella di Lizzani  liberamente tratta dal libro: Becky, ora morta, ha sottolineato come l’averle “alzato l’età” (da 9 anni ad adolescente innamorata) è la cosa che “più mi ha dato fastidio”, inserita solo “per consentire di farmi vivere una storia d'amore del tutto inventata”.  Intervistata poi dal Corriere della Sera, ha trovato assurda la scelta di mostrare gli ebrei liberi di girare per l’albergo (o addirittura di uscire a passeggiare!). “Se così fosse stato se la sarebbero dati a gambe senza esitare. E noi con loro. (…) Mio padre non volle abbandonare i suoi ospiti. Finché l'ultimo di loro rimase lì, restammo anche noi”. Gli ebrei del suo film non erano “ingenui”, ma solo ignari dice Lizzani. Sui “suoi” tedeschi buoni, ha invece risposto: “Nel film i nazisti non hanno sfumature. Esistevano poi tedeschi “buoni”, come quella protagonista del mio film. Credo sia più giusto che proprio una voce tedesca dica “carnefici, cretini” agli stessi tedeschi”. La tedesca “buona”, di Lizzani,  era invece la colpevole delatrice degli ebrei presenti nell’albergo !!!.

Impossibile coinvolgere una qualche autorità italiana, al momento non ne esistevano. La raccolta iniziò spedita mettendo assieme ricordi di famiglia, denaro per acquistare oro e oro stesso offerto da cattolici amici. La Santa Sede si offriva di coprire eventuali mancanze. Poco prima della scadenza delle 36 ore venivano raccolti 50 chili di oro e 2.021.540 di lire. Fiducia si ma non eccessiva consigliava di procurarsi una scorta di polizia e di avere un funzionario, il commissario Cappa alla pesatura. Il commissario però preferiva comparire anziché nella sua veste ufficiale in quella di uomo di fatica !!!. Al peso i 50 erano abbondanti nel caso fossero sorte contestazioni sul titolo. Il vice di Kappler, Schultz procedeva alla pesatura a 5 kg alla volta e alla fine dopo la decima pesata tentava il colpo gobbo asserendo di aver pesato 9 volte (5x9=45). I due presidenti pregavano vivamente l'ufficiale tedesco perché venissero ripetute le pesate e, dopo molte insistenze e minacce ricevute, riuscivano a fare ripesare l'oro, che risultava corretto. L’oro veniva recapitato a Berlino al dott. Kaltenbrunner che lo detenne a titolo personale.
Da quel giorno iniziava una sistematica persecuzione nei confronti delle strutture ebraiche, tempio biblioteca etc. In una delle lettere indirizzate al detto Ministero della P.I. gli ebrei fra l'altro, scrivevano: "Trattasi di pregevolissimo materiale archivistico (manoscritti, incunaboli, soncinati, stampe orientali del 500, interessanti esemplari di libri ebraici, ecc.) che furono anche oggetto, alcuni anni or sono, di scelta e catalogazione fatta da un esperto in materia e che costituiscono un complesso di notevole importanza culturale, del quale, ove le disposizioni delle autorità tedesche, che evidentemente intendono asportare tutto il prezioso materiale archivistico in Germania, fossero attuate, l'Italia verrebbe ad essere privata (vol. I, pag. 87)".

Il culmine delle azioni si aveva il 16 ottobre quando le SS attuarono un rastrellamento con tutti i nominativi degli Ebrei romani.  

Albert Kesselring (1881-1960)

He was born in Marktstedt near Bayreuth, Bavaria, Germany. He joined the German Army in 1904 and became an officer cadet in the 2nd Bavarian Foot Artillery Regiment at Metz (ora Francia). He served on various divisional and corps staffs in World War I. After his service in the First World War, Kesselring joined the Reichswehr for regimental service with the artillery and was promoted to Brigadier in 1932. After the Nazi take-over in 1933, he was formally discharged from the army and put in charge of the administration office of the incipient and still undercover air force under the command of his old comradein-arms Hermann Göring. He was now assigned as administrative chief to the Reich Air Ministry. Kesselring remained in this position until June 1936 when he was assigned as Göring's chief of staff and a one year later he commanded Air Region III (southeastern Germany). In the Polish campaign he commanded First Air Force and later in 1940 Second Air Force in France. Following his success in Poland and Belgium, he was made General Field Marshal in July 1940 with the fall of France. His strategic bombing attacks in Rotterdam and Dunkirk were considered brilliant by strategists and his success during the Battle of Britain may have been complete had it not been for Goering's meddling. In December 1941 Kesselring was appointed as Commander in Chief South with command of all German Air Force units in the Mediterranean and North African theaters. He worked closely with Rommel in North Africa and devised strategic retreats in Tunisia and the Italian peninsula that delayed Allied advances by almost a year. His noteworthy military and strategist career was marred by his involvement in the Ardeantine cave massacre of March 1944 in which 335 Italian civilians were shot. In the fall of 1943 he was redesignated as Commander in Chief Southwest with nominal command of the German armed forces in Italy, here he led a hugely successful twenty month campaign of defence up the peninsular, making Churchill's claims of Italy being a "soft underbelly" unfounded. Kesselring was transferred to Germany as Commander in Chief West in March 1945 and later designated as Commander in Chief South. He was taken prisoner at Saalfelden on 6 May 1945. After the war, in 1947 the British tried him for the shootings of partisans by troops under his command. A British military court in Venice sentenced Kesselring to death in 1947 for killing Italian hostages, but his sentence was commuted to life imprisonment. He was released due to ill health in October of 1952 and died on July 16, 1960, in Bad Nauheim.

  Quell'alba tragica nel ghetto di Roma di Fausto Coen Repubblica 15/10/2003

Per lungo tempo della sorte dei 1022 ebrei razziati da oltre trecento SS armate di tuttopunto, la mattina del 16 ottobre del 1943, in parte a Portico d'Ottavia, il vecchio «ghetto», in parte nelle ventisei zone della città selezionate dal Comando tedesco, non si seppe nulla. Tutti gli sforzi fatti dalla Comunità ebraica, dalla Croce Rossa e da varie parti non sortirono nessun risultato. Quando il vecchio generale dei Bersaglieri Giuseppe Boriani allora Presidente della Croce Rossa chiese udienza a Kappler e non riuscì a nascondere la sua emozione per un evento - disse che aveva colpito drammaticamente l'intera cittadinanza - Kappler lo lasciò parlare e freddamente e sbrigativamente concluse che la deportazione era stata una operazione politica e militare dei tedeschi i quali non dovevano renderne conto a nessuno. Quel tragico lacrimante convoglio di diciotto vagoni piombati in cui erano ammassati in modo inumano i 1022 ebrei, partito alle ore 14.05 del 18 ottobre dalla Stazione Tiburtina, sarebbe giunto ad Auschwitz dopo sei giorni e sei notti. Di quel viaggio orrendo c'è una toccante testimonianza. Il lungo convoglio aveva fatto una sosta imprevista alla stazione di Padova. La signora Lucia De Marchi, volontaria della Croce Rossa, era quella mattina di servizio per l'assistenza alle eventuali truppe italiane in transito. Sconvolta dall'arrivo di quei diciotto doloranti vagoni piombati ha lasciato scritto: «Mai spettacolo più raccapricciante s'è offerto ai nostri occhi. Ci sentiamo disarmati e insufficienti per aiutare i deportati, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime personale ferroviario, spettatori, popolo». I militi ferroviari italiani però quella mattina indignati dopo una contestazione a muso duro con le SS ottennero finalmente che i deportati potessero almeno dissetarsi. Le SS per giustificare i loro dinieghi, dicevano «Sono ebrei». E i militi replicavano «Sì, ma hanno sete». Dopo 6 giorni dell'allucinante viaggio ignari della loro sorte, sabato 23 ottobre i 1022 ebrei giunsero ad Auschwitz. Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. La selezione degli ebrei romani fu rapida: donne, bambini, anziani (o anche validi ma coi capelli bianchi), furono subito avviati alle camere a gas. Era una percentuale altissima: l´82 per cento dei deportati. La minoranza di coloro giudicati validi, adatti al lavoro fu avviata ai campi di quarantena. Auschwitz era allora un nome sconosciuto. Dei 1022 ebrei romani deportati il 16 ottobre, ne sono tornati solo sedici: quindici uomini e una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno dei duecento bambini è tornato. Per i pochi che dovremmo considerare fortunati, l'inserimento non fu facile. Il fatto di essere sopravvissuti attirò su di loro una pietà mista a un diffidente stupore; i loro racconti strazianti sembrava superassero il limite della credibilità. Non fu facile per loro reinserirsi nella società, nell'ambito familiare riconquistare i pensieri, i progetti, le speranze, le gioie, i piccoli svaghi degli uomini semplici. ..... Kappler ai ferriNon possiamo dimenticare anche coloro che sotto l'incubo dell'arresto, si tolsero la vita. E quelli che sorprendentemente lo fecero dopo, quando il mondo tornò libero, e avrebbero potuto continuare a vivere, a lavorare, a sperare. Perché? Forse perché avevano vissuto troppo a lungo nel buio della persecuzione e ora investiti dalla abbagliante luce della libertà si sentirono sgomenti.

…II 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta, in Via Rasella all'altezza del palazzo Tittoni, mentre passava una compagnia di polizia tedesca del Battaglione "Bozen", che da quindici giorni era solita percorrere quella strada, scoppiava una bomba che uccideva ventisei militari di quelle compagnia ed altri feriva più o meno gravemente… http://www.romacivica.net/novitch/FosseArdeatine/attenta.html

E la chiamano guerra civile di Furio Colombo ex direttore "Unità" organo del P.C.I., del PDS e dei DS fino al 2005

-(ndr margine del testo di Colombo

1a annotazione nessuno in questo conflitto (II) ha mai combattuto per la liberazione degli ebrei perché è questo di cui si parla a fianco, come nessuno combatteva la guerra civile americana per la liberazione dei negri.
2a annotazione gli ebrei è meglio lasciarli fuori trattandosi di persone invise DA SEMPRE sia a destra che a sinistra e alla linea politica generale del partito comunista italiano che faceva capo a Mosca. Il fatto che si cambi nome ai partiti non è l'abito che fa il monaco. Basta vedere la persecuzione attuata da Stalin nel caso noto come il "Complotto dei Medici" del 1947 (ma presente anche durante il conflitto) alla vigilia della proclamazione dello stato d'Israele. - Di questa affermazione. . era ammessa la caccia agli appartenenti a un intero popolo .. si deve presumere sia d'accordo anche Furio Colombo, direttore Editoriale de l'Unità, che non mi risulta sia di destra -

3a annotazione: se non sbaglio i fascisti oggi sono gli americani per Furio Colombo. La simpatia della sinistra (vedi in particolare D'Alema foto a destra) per i terroristi di Hezbollah e per quelli in genere è nota da sempre e se fosse per loro agli ebrei verrebbe riservato lo stesso trattamento dei lager nazisti. LIitalia poi non si smentisce quando nel nome della lotta al terrorismo riconosce nel 2012 Hamas e Hezbollah come veri rappresentanti della Palestina.

L'Unità 25 marzo 2005* di Luana Benini - Fosse Ardeatine
Mario Limentani spiega perché ieri ha contestato il governatore d el Lazio alle Fosse Ardeatine. «Il padre di Storace mi portò alla casa del Fascio e mi picchiò...» «Avvenne nel 1941. Il padre di Storace mi fermò per strada, mi portò alla sede del Fascio e mi picchiò. Mi aveva legato alla sedia...». Mario Limentani, deportato «in quattro campi di sterminio nazisti», tutta la famiglia decimata. Parla con voce flebile, timorosa. Ieri mattina era alla cerimonia commemorativa delle Fosse Ardeatine, al fianco di Aldo Pavia, familiare di deportati nei campi di concentramento, madre partigiana, attuale presidente dell'Aned (Ass. Naz. ex deportati). Pavia, non appena ha visto Francesco Storace fra le autorità, nel piazzale del Sacrario, se n'è andato in segno di protesta. Limentani è rimasto al suo posto, ma solo perché aveva in mano il labaro, il vessillo. Perché anche lui avrebbe preferito scappare via. Il ricordo di quella sera del 1941 non riesce a toglierselo dalla testa. Per lui, oltre alla ragione politica c'è n'è una tutta personale: l'incontro di tanti anni fa con quel picchiatore fascista. Al telefono, nel pomeriggio, spiega: «Sono andato in incandescenza, mi sono sentito venire meno. È vero che le colpe dei padri non ricadono sui figli..Ma...».

  Il 25 aprile è la festa della Libertà. Può la libertà essere l’esito d'una guerra civile? Che strana guerra civile sarebbe quella che finisce con la proclamazione della libertà di tutti, la parte giusta e la parte sbagliata? Badate, non ho detto (non ancora) qual è la parte sbagliata. Dal punto di vista di ciascuno di coloro che hanno combattuto, la parte giusta è quella con cui si sono schierati, al punto da offrire, rischiare o dare la vita. Però facciamo un passo indietro, immaginiamo di non sapere, di non esserci stati. Parlo per coloro che c’erano, per coloro che sanno e per coloro che vagamente e magari con noia ne hanno sentito parlare dopo. Dunque, dicono alcuni, c’è stata una guerra civile. L’espressione suggerisce uno scontro estremo e senza regole, senza Croce Rossa, senza trattati di Ginevra. Dobbiamo immaginare che si uccida per le strade, si invadano le case, si coinvolgano innocenti, si impicchino i prigionieri agli alberi, si torturino i sospettati per farli parlare, si uccidano senza esitazione donne e bambini. Vi sembra eccessivo? No, se pensate che nella guerra civile di cui stiamo parlando era ammessa la caccia agli appartenenti a un intero popolo. Chiunque risultasse, per presunta documentazione o delazione, appartenente a quel popolo (ebrei), dai neonati ai vegliardi, dai malati ai morenti, veniva prelevato, stipato su un treno e mandato a morire. Direte che, allora, questa guerra civile certe regole le aveva. Certo che le aveva. Primo, obbedire come schiavi. Secondo, sottostare a una presunta razza superiore. Terzo, tranne questa razza superiore e i suoi servitori, nessuno, mai, ha alcun diritto. Quarto, la pena è sempre la morte. Com’è possibile allora che una simile guerra civile finisca con la libertà di tutti, di una parte e dell’altra? È finita per stanchezza? Il ministro degli esteri per le strade di Beirut a braccetto con Hussein HassanI morti sono tornati? I morti non sono tornati. E noi sappiamo che nessuna guerra civile finisce con la libertà di tutti. A meno che una delle due parti si sia battuta, con la sua forza, il suo coraggio e il suo sangue, per la libertà. Ecco perché, a partire dal 25 aprile 1945, ci siamo ostinati in tanti a chiamarla, quella guerra, non «guerra civile» ma «Guerra di Liberazione». Se cambi il nome, non puoi capire perché finisce in quel modo. Se finisce con la libertà vuol dire che una delle due parti ha rischiato, combattuto e vinto per la libertà e che - per forza (altrimenti il racconto è senza senso)- l’altra parte la negava. La negava al punto da uccidere chiunque chiedeva libertà e in più si riservava il diritto di candidare alla morte persone (anzi popoli) a sua scelta, in base a ossessioni e proclami e a leggi dette «leggi razziali». È andata bene. Pensateci e dite ad altri di pensarci. Se vinceva l'altra parte, adesso alcuni di noi, in questo Paese e in tutta Europa, sarebbero ancora carcerieri e custodi di lager. E molti di noi sarebbero sempre vittime. Dunque oggi è la festa di tutti. Se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, oggi è anche la festa dei fascisti. Perché sono liberi di non essere più fascisti, e portatori di persecuzione, di razzismo e di morte, che era ciò che i fascisti hanno dato all’Italia (e poi all’Europa invasa e distrutta) per oltre vent’anni. Alcuni di loro o dei loro eredi o successori o simpatizzanti a volte ti dicono: non vale. Sono arrivati gli americani. Sono loro che hanno vinto. Quella che continuate a celebrare come la «vittoria dei partigiani» è una vittoria americana. Se fosse vero, non potrebbero spiegare perché quasi tutti loro - i fascisti della tragica repubblica di Salò - invece di combattere contro gli americani, hanno combattuto con tutte le loro forze e risorse contro gli italiani che volevano la libertà In questo senso oggi è un giorno di conciliazione. Oggi infatti non ricordiamo la fine di una brutta guerra civile di cui si devono sotterrare i rancori. Oggi sappiamo che c’è stata una guerra per la libertà. La libertà ha vinto. Il 25 aprile abbiamo vinto tutti. (l'Unità, 25 aprile 2002)
     

Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo Colonnello spe
nato a Roma nel 1901 C.te 11° Raggr. Genio
Motivazione della Medaglia d’Oro al v.m. alla memoria
Ufficiale superiore dotato di eccezionali qualità morali, intellettuali e di carattere, dopo l’armistizio, fedele al Governo del Re ed al proprio dovere di soldato, organizzava, in zona controllata dai tedeschi, un’efficace resistenza armata contro il tradizionale nemico. Per oltre quattro mesi dirigeva, con fede ed entusiasmo inesauribili, la attività informativa e le organizzazioni patriote della zona romana. Con opera assidua e con sagace tempestività, eludendo l’accanita vigilanza avversaria, forniva al Comando Supremo alleato ed italiano numerose e preziose informazioni operative, manteneva viva e fattiva l’agitazione dei patrioti italiani, preparava animi, volontà e mezzi per il giorno della riscossa, con una attività personale senza soste, tra rischi continui. Arrestato dalla sbirraglia nazi-fascista e sottoposto alle più inumane torture, manteneva l’assoluto segreto circa il movimento da lui creato, perfezionato e diretto, salvando così l’organizzazione e la vita ai propri collaboratori. In occasione di una esecuzione sommaria di rappresaglia nemica, veniva allineato con le vittime designate nelle adiacenze delle catacombe romane e barbaramente trucidato. Chiudeva così, nella luce purissima del martirio, una vita eroicamente, interamente e nobilmente spesa al servizio della Patria. Roma, Catacombe di San Calisto, 24/3/44
Note biografiche:
(altre decorazioni: Medaglia Argento (Africa Sett., dicembre 1941-gennaio 1942), Medaglia Bronzo (Tobruk, aprile 1941), Croce di Guerra (La Molatilla, Spagna, marzo 1938), Cavaliere O.M.S. (giugno 1940-gennaio 1943), promosso Ten. Colonnello per meriti di guerra (Spagna, giugno 1939)
Appartenente a nobile famiglia piemontese di antiche tradizioni militari, era studente al Politecnico di Torino allorché, non ancora diciottenne, partecipò volontario alla prima guerra mondiale in un battaglione di marcia del 1° alpini. Ripresi gli studi e conseguita la laurea in ingegneria civile, si dedicò in Genova alla professione. In seguito a concorso venne poi nominato tenente del genio in s.p.e.  e promosso capitano nel 1928: fu insegnante alla Scuola di applicazione. Frequentati i corsi della Scuola di Guerra, fu chiamato nel 1935 allo S.M. e conseguì la promozione a maggiore a scelta l’anno dopo. Comandò in Spagna un battaglione genio telegrafisti  dove fu C.S.M. di una brigata “Frecce Nere”. Rimpatriato e nominato insegnante aggiunto alla Scuola di Guerra, rientrò nello S.M. nel 1939 col grado di T. Colonnello e nel giugno 1940 fu chiamato a far parte del Comando Supremo. Distintosi in diverse missioni in Africa Sett. e promosso colonnello nel giugno 1943, lasciò il Comando Supremo per assumere il comando dell’11° raggruppamento genio motocorazzato. Costituitosi il comando di Roma città aperta, dopo l’armistizio gli venne affidata la direzione dell’Ufficio affari civili. Da questo momento ebbe inizio la sua fervida attività diretta a riunire le forze disperse e ad organizzarle in una compagine risoluta. Fu comandante del Fronte Militare Clandestino Fino al 10 gennaio 1944

Io c'ero http://www.larchivio.com/capponi.htm

  In merito alla preparazione ed alle modalità di esecuzione dell'attentato del 23 marzo 1944 si accertava (dich. Bentivegna, Salinari, Franco Calamandrei detto "Cola" figlio di Piero) ciò che ormai era noto per le notizie pubblicate dai giornali dopo la liberazione di Roma, e cioè che in quel giorno una squadra di partigiani comandata da Carlo Salinari  detto "Spartaco"aveva avuto affidato il compito, in base ad ordine del capo della formazione militare di cui faceva parte quella squadra, di attaccare una compagnia tedesca che da diversi giorni era solita fare un uguale percorso attraverso il centro di Roma. Alle ore 14 del detto giorno il partigiano Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, percorreva Via Rasella spingendo una carretta carica di 12 chilogrammi di esplosivo ed attorno a questa altri sei chilogrammi di esplosivo. Giunto a metà circa della strada, all'altezza del palazzo Tittoni, il Bentivegna si fermava, in attesa che giungesse la compagnia tedesca, che soleva passare per quella strada alle ore 14,30 circa. Un po' in giù del posto in cui era stata fermata la carretta, all'angolo di Via Boccaccio, si trovavano altri partigiani compagni di squadra di Bentivegna. Con essi era anche il comandante della squadra Carlo Salinari ed il V. Comandante Franco Calamandrei. Alle ore 15 circa quest'ultimo si toglieva il cappello per indicare al Bentivegna che la compagnia aveva imboccato Via Rasella e che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa. Ouest'ultimo accendeva la miccia, chiudeva il coperchio della carretta e si allontanava verso Via Ouattro Fontane. Appena egli imboccava questa strada avveniva lo scoppio dell'esplosivo contenuto nella carretta. La compagnia veniva investita dallo scoppio dell'esplosivo: molti soldati morivano immediatamente altri rimanevano più o meno gravemente feriti. Intanto i partigiani che si trovavano in Via del Boccaccio attaccavano con lancio di bombe a mano la compagnia quanto mai disordinata e, quindi, si allontanavano. Risultava poi (dich. Amendola, Pertini, Bauer) che l'attentato rientrava in quelle direttive di carattere generale della Giunta Militare tendenti a costringere i tedeschi a rispettare la posizione di città aperta, direttive che ciascun componente della Giunta era chiamato a fare attuare alla formazione da lui dipendente…Vecchia immagine ghetto ebreo di Roma al Portico d'Ottavia mercato del pesce
Mentre si svolgeva la discussione (sulle modalità e responsabilità dell’attentato) il Gen. Maeltzer stava spesso al telefono. In una di queste telefonate egli usava con frequenza le parole misure di rappresaglia. Ad un certo momento il generale tedesco faceva cenno a Kappler di avvicinarsi e quindi passatogli il ricevitore ed informatolo che all'apparecchio c'era il Gen. Mackensen, lo invitava a parlare con quel generale. II Gen. Mackensen, dopo aver chiesto alcuni particolari in merito all'attentato, entrava subito in argomento circa le misure di rappresaglia intorno alle quali, a giudicare dal suo modo di parlare, egli aveva già discusso con il Gen. Maeltzer (dich. Kappler, f. 6 retro vol VIl). Alla domanda di quel generale, intesa a conoscere su quali persone potevano essere eseguite le misure di rappresaglia Kappler rispondeva che, secondo accordi con il Gen. Harste, la scelta avrebbe dovuto cadere su persone condannate a morte o all'ergastolo e su persone arrestate per reati per i quali era prevista la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base alle indagini di polizia. …Giunto in ufficio Kappler dava disposizioni perché fossero accelerate le indagini circa l’'attentato. Poco dopo veniva chiamato al telefono da Magg. Boblem, che lo informava che poco prima, al suo comando, era giunto un ordine in base al quale entro le ventiquattro ore doveva essere fucilato un numero di italiani decuplo di quello dei soldati tedeschi morti. A richiesta di Kappler, il Magg. Boblem precisava che l'ordine proveniva dal comando del Maresciallo Kesselring. La verifica accertava che l’ordine "viene da molto più in alto". Alle ore 21 Kappler aveva una conversazione telefonica con il Generale Harster, capo del BSS con sede in Verona, al quale riferiva in merito all'attentato ed al suo sviluppo. Gli comunicava pure che, in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali però un numero notevole non rientrava nella categoria dei todeswurdige (condannati a morte). Circa cinquantasette, infatti, erano ebrei detenuti solo in base all'ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate e abitanti in Via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate ovvero erano state trovate in possesso di cose (una bandiera rossa, manifestini di propaganda ecc.) che davano possibilità di una denunzia all'autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d'accordo col suo superiore d'includere degli ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia. Nella stessa serata egli chiedeva al Presidente del Feldgericht Rome di autorizzarlo ad includere nell'elenco le persone condannate dal Tribunale Militare alla pena di morte, le persone condannate a pene detentive anziché alla pena di morte per concessione di circostanze attenuanti inerenti alla persona ed, infine, le persone denunziate ma non ancora processate. Intanto si aveva notizia che altri soldati tedeschi, fra quelli gravemente feriti, deceduti. Alle otto del mattino successivo il numero complessivo dei morti ammontava a 32.

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