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CARLO RAVNICH COMANDANTE DELLA DIVISIONE "GARIBALDI" dell'EPLJ (Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia) |
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Nato ad Albona (1903), antico centro della Repubblica Veneta in Istria (oggi Labin Croazia), non volle mai accettare il passaggio della sua terra madre alla repubblica jugoslava. Ha dedicato tutta la sua esistenza alla nazione ed alla vita militare. Nel corso della sua intensa carriera fu un ufficiale artigliere-alpino, un partigiano e un generale di corpo d'armata. Bellunese di adozione, decise di trasferirsi a Bordighera per gli ultimi anni della sua vita dove morì nel 1996. |
.................. DA UNA INTERVISTA RILASCIATA NEL 1980 ALLA
RIVISTA "STORIA ILLUSTRATA" N. 274
RAVNICH. All’annunzio dell’armistizio non avevamo nessuna intenzione di
attaccare gli amici del giorno prima. Sono stati loro a vessarci in ogni modo
possibile. Hanno lanciato manifestini invitando le popolazioni a distruggerci,
attribuendoci crimini che non avevamo commesso, comprimendoci in ogni modo
possibile per costringerci alla resa pur essendo noi alpini nel Montenegro in
grandissima superiorità di forze rispetto a loro.
STORIA. Che cosa vi ha deciso ad andare con i partigiani
di Tito?
R- Devo dire che non avevamo nessuna intenzione di andare con i
partigiani, che in quel momento erano anche assenti dal Montenegro. Forse
avremmo preferito andare con i cetnizi (cetnici), i nazionalisti serbi, che ci erano più
vicini per sentimenti di religione, di cultura, di educazione, e anche per
motivi politici. Per oltre un mese però abbiamo guerreggiato da soli, i cetnizi
ci aspettavano solo per saltarci addosso quando le avevamo prese dai tedeschi,
mentre quando combattevamo contro i tedeschi se ne stavano lontani a guardare.
S- Allora andare con i «titini»
è stata una scelta
obbligata?
R- Nel Montenegro e dintorni le bande e i partiti tra cui scegliere erano,
si può dire, tanti quante le famiglie. Quando abbiamo cominciato a sparare
speravamo che tutto l’esercito italiano si comportasse come noi, che i comandi
superiori prendessero le redini in mano, non le lasciassero a noi singoli. Dopo
un mese eravamo rimasti soli, sono mancati i comandi, e sono mancati anche i
reparti. Noi dell’Aosta, e degli altri gruppi della «Taurinense», eravamo così
pochi che non potevamo fare la guerra ai tedeschi da soli. Ormai era questione
anche di salvarsi la vita. Avevamo i soli fucili contro carri e aerei. Eravamo
una esigua minoranza tra nemici di tutte le specie e i colori. Dovevamo ben
sceglierci almeno un alleato!
S- Come risolveste il problema del mangiare?
R- Mi consentirono di prelevare nel Montenegro 800 razioni giornaliere
consistenti in mezzo chilo di carne, mezzo di patate, mezzo di farina.
Naturalmente la carne era con l’osso, la farina con pula e paglia, le patate
quelle che poteva dare quel povero paese. Dopo tanti anni di guerra, persino gli
alberi erano spogli. Le foglie erano l’ultimo nutrimento, se poteva esserlo, per
muli e cavalli. Con quelle razioni dovevamo mangiare tutti. Soldi ne avevamo
quasi niente. I primi giunsero dall’Italia solo verso la fine di novembre (43). La
«Venezia», che combatteva in altro settore, nei primi due mesi di guerra
partigiana fu alimentata dai fondi di una certa Gianna di Casalecchio sul Reno.
Erano i soldi di tanti soldatini che lei chiamava «figlioli miei».
S- Chi era questa Gianna?
R- Una donna che mentre molti scappavano rimase con i combattenti. Il 5
dicembre fu promossa crocerossina. Fece servizio all’ospedale di Pljevlja, fu
catturata dai tedeschi e deportata in campo di concentramento. Era la direttrice
di una «scuderia», chiamiamola così, di belle ragazze, vicentine la maggior
parte, al seguito delle truppe.
S- Come vi finanziavate la guerra?
R- Dal novembre 1943 arrivarono finalmente i soldi dall’Italia. I milioni,
perché di milioni si trattava (in lire), andavano alla «Venezia» che in un certo
senso aveva inquadrato tutti i reparti combattenti in Balcania. Il comando della
«Garibaldi» e quello della «Venezia» hanno elargito ai comandi partigiani, a
titolo di prestito, 23 milioni di lire, mai restituiti. La lira italiana, voglio
ricordarlo, ha avuto corso legale in Montenegro, Bocche di Cattaro e Albania per
tutto il conflitto (incredibile ma vero, la lira valeva ancora qualcosa, ma
fuori d’Italia).
S- Quali erano i rapporti tra i combattenti italiani
e i partigiani di Tito?
R- Improntati alla massima stima e alla reciproca fiducia. Piu difficili
erano i rapporti con i quadri politici. Diffidenti da parte nostra, e diffidentissimi da parte loro. Abbiamo iniziato a stimarci molto, ma molto
lentamente. Si può dire che a guerra finita c’erano delle zone d’ombra, e
qualcosa di più. Tant’è vero che alcuni di quelli che avevano disimpegnato le
funzioni di commissario politico presso di me sono stati, appena fui
rimpatriato, innocentemente colpiti per non essere riusciti a «convertirmi» alla
loro ideologia. Non solo, ma furono accusati di essersi fatti corrompere da me.
S- come si sarebbero fatti corrompere? E chi erano?
R- Le faccio due nomi: Milan Bukori, commissario politico della
I
Brigata, uno studente delle Bocche di Cattaro, perfetto conoscitore della lingua
italiana. Era incorruttibile. Quando venne trasferito alI’OZNA, la polizia
politica comunista, g1i regalai una motocicletta perchè ne aveva bisogno per il
suo nuovo servizio, il giorno che rimpatriai, gli diedi la mia coniax, che gli
avevo promesso. Tentò di rifiutarla, ma gliela misi in mano sottobordo e mi
imbarcai rapidamente. Pochi giorni dopo risultò assassinato in quel di Ragusa.
Un altro, commissario politico al Gruppo «Aosta», Milos Bakocevic, pure lui
studente e di Cattaro, lo hanno condannato a 4 anni di lavori forzati.
S- Il momento più critico ?
R- Uno dei momenti più critici fu nell’agosto 1944, durante una grande
offensiva. Dopo giorni di continui ripiegamenti e combattimenti, giungemmo sul
Durmitor. Nei pressi di una casera notai una linea telefonica. Chiamai il mio
ufficiale interprete, il tenente Ernesto Sabalich di Zara, e lo pregai di
allacciarsi alla linea per intercettare chiunque comunicasse, tedesco o slavo
che fosse. A notte inoltrata, Sabalich venne da me e mi disse: «Ho sentito un
discorso tra Foca», il comando supremo di Tito, «e il comando del II Korpus».
1l II Korpus era alle nostre spalle e sul fianco destro. Il
discorso consisteva in questo: «Tutti i commissari politici siano lasciati
liberi, devono salvarsi da questa offensiva. I reparti che sono prossimi ai
rispettivi centri territoriali rientrino a casa. Gli italiani lasciamoli sul Durmitor. Speriamo che i tedeschi si accontentino di quella grossa unità e ci
lascino in pace».
S- I partigiani si sganciavano senza avvisarvi e
lasciavano la «Garibaldi» a fare da testa di turco?
R- Questa era la loro intenzione. Ma io disposi subito per un nostro
sganciamento. Il Gruppo «Aosta» si portò alla base del Durmitor, si nascose
negli anfratti e nelle vallette. Chiusi con la II Brigata il passaggio in
direzione dei tedeschi, ordinai alla IV di evacuare i feriti. Ultimo partii
io, raccolsi per strada gli uomini e sfilammo ai piedi della montagna (più alta
del Montenegro) sotto il naso dei tedeschi.
S- E i partigiani dove erano finiti?
R- I quadri politici e i commissari erano volati a Lissa (dall'aeroporto,
di fortuna, di Zlatina). Durante la guerra Tito si è sempre preoccupato di
salvare i suoi quadri politici. Amici, alleati, nemici scomparivano e quelli
sopravvivevano. A guerra finita loro gli avrebbero garantito il potere. Era
cinico, tutto ciò, ma era da buon politico e rivoluzionario. Gli altri
combattenti erano stati mandati a casa, una piccola parte si era dispersa e
nascosta nei boschi. Dopo alcune ore di ricerca, trovai il comandante
territoriale del Montenegro e delle Bocche di Cattaro. Fu molto meravigliato
quando mi vide. «Come mai tu qui» mi chiese. Risposi ”Mi aspetto sempre delle
sorprese, non sono così scemo da non vigilare! “.
S- Tra la «Garibaldi» e l’Esercito di Liberazione
jugoslavo, come erano i rapporti «gerarchici»?
R- Le operazioni erano condotte di comune accordo. Non era possibile
combattere un unico nemico separatamente. Per la parte morale e per quella
disciplinare, la nostra dipendenza era dal governo italiano. E su questo non
potevamo transigere perché lì, in quelle tristi condizioni, combattenti con i
partigiani ma anche ex occupanti, noi rappresentavamo l’Italia. Io personalmente
su questo non ho mai mollato. Quando il sottosegretario alla guerra,*Mario
Palermo del Pci, alla fine del 1944 venne a visitarci, c’era in previsione una mia
promozione. Chiese agli jugoslavi il loro gradimento, che diedero entusiasti. Ma
quando Palermo mi telegrafò comunicandomi la nomina e rallegrandosi, risposi che
non potevo accettare una promozione che era stata discussa in sede di riunione
tra il partito comunista iugoslavo e il partito comunista italiano. Questa era la dipendenza, reale, ufficiale, leale
(Il grado e
l'incarico di Ravnich non viene riconosciuto al ritorno in Italia).
S- Rimane il fatto che voi eravate ex occupanti. E
due anni di occupazione aveva no lasciato il segno. Che cosa ricorda di quel
periodo?
R- Io non ho vissuto la prima parte dell’occupazione italiana in
Jugoslavia, perché arrivai in Croazia nel novembre 1941. Noi della «Taurinense»
siamo arrivati nel Sangiaccato quando la «Pusteria» era rientrata in Italia.
Abbiamo, in un certo senso, evitato il periodo più triste della storia
dell’occupazione italiana in Montenegro (estate '41)e altrove. Ma per quanto riguarda la «Taurinense»
non abbiamo nulla da rimproverarci. Posso dire che abbiamo partecipato a
numerosi rastrellamenti, ma nessuno può dire che un solo militare italiano abbia
assassinato un partigiano o un civile.
S-
Con un attacco
dall’aria ci fu un momento, a Orvar, nel 1944, che i tedeschi andarono vicino a
catturare Tito. Gli italiani ebbero una parte in
quello scontro?
R- Vi parteciparono i due battaglioni autonomi, il «Garibaldi» e il
«Matteotti». Gli italiani si distinsero in modo particolare, e il loro eroismo
salvò Tito dalla cattura. Purtroppo, nessuno riuscì a salvargli l’uniforme di
maresciallo che era appena arrivata dalla Russia, un regalo di Stalin. Ricordo
questo fatto perché quando Tito andò in Italia per incontrare Churchill, era
privo di uniforme. Eppure Churchill si stupì dell’eleganza sua e del suo
«secondo» Rankovi. La ragione è semplicissima. Praticamente, a finanziare quel
viaggio, e probabilmente il guardaroba della missione jugoslava, sono stato io.
Diedi agli jugoslavi due milioni (di lire) sottobanco.
S- Cosa intende dire con «sottobanco»?
R- Gli jugoslavi mi chiesero i soldi, ma non volevano rilasciarmi
ricevuta. Allora ci accordammo così. Loro mi avrebbero mandato un cavallino
bianco con due bisacce dove io avrei messo il denaro. Così avvenne: il cavallino
arrivò, ma intanto sul luogo del «prelievo» avevo disposto degli ufficiali a
distanza utile perché vedessero. Presi dalla mia cassa due pacchi da un milione
ciascuno, cioè duemila biglietti da mille lire, per un peso complessivo di un chilo
ciascuno, e li misi nelle bisacce, un pacco per bisaccia. Poi chiesi ai
presenti, uno alla volta, di confermare (per iscritto) il fatto.
Dalla
Conferenza tenuta dal dr. Leo Taddia per il Centro di Studi Storico Militari di
Bologna 22 ottobre 1999
Il comando iugoslavo aveva raggruppato diversi ufficiali in un reparto, che era
designato degli “ufficiali a disposizione”. Ne facevano parte colonnelli anziani
ed altri giudicati non idonei ad affrontare i disagi dei combattimenti o per
altri motivi, come l'aver avuto contrasti con i commissari jugoslavi.
Ad un
tratto si apprese che undici di questi erano inquisiti per reati, mai
specificati. Per intercedere a loro favore, fu delegato
il sottosegretario Palermo del Pci *
Palermo non ottenne nulla. Dopo la proposta a Ravnich, parlò ai
soldati che avrebbero ascoltato una parola gradita, come “ rimpatrio”. Il
sottosegretario alla guerra nel suo discorso, dopo lodi e riconoscimenti
verbali, promise un incremento degli aiuti materiali, ma perorò e sostenne la
necessità di continuare a combattere in Jugoslavia fino al termine delle
ostilità. Ciò mentre il governo, di cui faceva parte, si adoperava per via
diplomatica, sempre tramite gli Alleati, affinché fosse concesso agli italiani
ancora inquadrati nella Garibaldi di fare ritorno in Patria (ora che l’adriatico
meridionale era libero). Mario Palermo seguiva le direttive del suo partito e non
quelle concordate col Ministero.
La visita del sottosegretario Mario Palermo si protrasse dal 9 al 21 ottobre
1944. Egli si era fatto precedere da tre propagandisti del suo partito, che,
dopo la sua partenza furono immessi nelle tre brigate quali aiutanti dei
commissari politici jugoslavi, quasi dei vicecommissari. Questi iniziarono una
frenetica attività di proselitismo politico, utilizzando le solite armi:
promesse e minacce. Promesse di favorevoli sistemazioni e di avanzamenti. I
commissari in dicembre promossero un corso politico militare, al quale presero
parte duecento militari. Dal corso i promotori si attendevano di inserire i
licenziati nei reparti, quali commissari di battaglione e di compagnia. Il
reticolo politico per il controllo della divisione sarebbe stato in tal modo
completato. Ciò avvenne, ma fuori tempo massimo, poiché il colonnello Ravnich
(incaricato del grado di comando di divisione) anche in una
situazione tanto precaria non perse il controllo degli avvenimenti. Alcuni
giornali ne avevano già parlato e la discussione sull'argomento in Jugoslavia
era già incominciata. Allora il comandante della divisione aprì un canale di
informazioni con il Luogotenente del Regno, la massima autorità istituzionale
del momento, al quale illustrò realisticamente l'evoluzione della politica
jugoslava, ponendo in rilievo la posizione anomala della divisione Garibaldi,
destinata a peggiorare nell'immediato futuro (causa disagi invernali: ricordiamo
che i magazzini militari italiani erano in mano agli anglo-americani che
li gestivano per rifornire i partigiani dei balcani, armatisi con armi tedesche ma anche
italiane, e non gli italiani che usavano praticamente le stesse cose. In più
di una occasione vennero nottetempo forzati e rubati interi magazzini per
garantire almeno un cambio di vestiario. In Italia il soldato italiano ormai
vestiva all’inglese e pertanto quei magazzini ad esclusione del 91 erano
considerati inutili).
Quando venne deciso il rimpatrio a Ragusa (Dubrovnick) si imbarcarono 3547 volontari in tre
scaglioni, lasciando però nelle pietraie jugoslave 3612 caduti. Fra i militari
in attesa d'imbarco si poterono anche conteggiare quanti erano restati
continuativamente nei reparti (1064) e quanti erano stati presenti più di un
anno (439). La disposizione per il rimpatrio giunse improvvisa ed inattesa.
Infatti il 20 febbraio 1945 la IIa brigata designata a costituire l'avanguardia
della marcia al mare, diramò ai battaglioni una circolare, annunciando che
l'intera divisione avrebbe usufruito di un mese di riposo a Ragusa. La divisione
rientrava con mostrine e italiane come regolare reparto combattente sia agli
effetti disciplinari che organici (via i commissari). L'imposizione delle
stellette fu un gesto semplice e spontaneo da parte dei soldati e dei
sottufficiali i quali sentivano di dover materializzare il loro convincimento di
identificarsi e di riconoscersi con coloro che 18 mesi prima avevano
sfidato lo strapotere della Wehrmacht. D'altro canto il comando italiano,
cancellando le trascurabili concessioni alle imposizioni jugoslave, rivendicava
la continuità con le originarie divisioni Venezia e Taurinense e riconosceva
come valido il solo regolamento di disciplina. Dopo lo sbarco, invece di essere
disarmati, come normalmente avveniva con gli altri partigiani, la divisione
trasfuse i propri ordinamenti e gli uomini nel Reggimento Garibaldi (battaglioni
- I “Aosta”, II “Venezia” e III “Torino”) che
ebbe vita breve e
controversa. Quando il Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, avvicinò
il Ministro degli Esteri jugoslavo Edward Kardelj per cercare di attenuarne la
dura ostilità insorta dopo il 25 aprile questi gli replicò:
"Ma quelli erano i
partigiani del Re".
Solo il 30% degli alpini divenuti partigiani tornò a casa. Dalla Germania rimpatriarono nella misura del 90 %. A guerra conclusa decine di ufficiali e soldati ottennero medaglie e onorificenze al valore. La Taurinense rinacque come Brigata il 15 aprile 1952 con il 4° alpini (battaglioni Aosta, Saluzzo e Susa) il 1° artiglieria da montagna con i gruppi Aosta, Susa, Pinerolo e contraerei leggero. Nel settembre 1945 il reggimento è assegnato al Gruppo di Combattimento poi Divisione “Folgore” che raggiunge in Alto Adige sostituendo nei ranghi il Reggimento “San Marco” ed affiancandosi al Reggimento Paracadutisti “Nembo”. Circa il 60% della forza del reggimento è costituito da truppe alpine (il 1° comandante fu il Colonnello Carlo Ravnich che comanderà in seguito il 3° rgt. Artigl. Alpina e la Brigata Cadore) e vengono adottate delle specifiche mostrine dove le fiamme verdi alpine sono sovrapposte alla mostrina da paracadutista (ala e gladio oro su azzurro) portata dal Nembo. Le nappine rosse identificano due formazioni di origine Fanteria "di linea". Per un certo periodo viene mantenuto anche in Italia in fazzoletto rosso portato al collo in Jugoslavia, dopo di chè verso il 1948 esso è sostituito dalla cravatta rossa che diventerà tradizionale del reggimento. Il 1° dicembre 1948 il reggimento viene ridenominato 182° Reggimento fanteria “Garibaldi”, perde la fisionomia alpina (adotterà tra l’altro le stesse mostrine del Nembo) rimanendo inserito nella Divisione di fanteria “Folgore”, con sede in Pordenone e dal 1949 in Sacile. Nuova trasformazione dal 1° novembre 1958 quando diventa 182° Reggimento fanteria corazzato “Garibaldi” (sempre nella “Folgore”) con alle dipendenze, inizialmente, i battaglioni I° bersaglieri e III° carri ceduti dal 1° reggimento bersaglieri. Il III° btg. carri diventa subito II° btg. e poi XXI° btg. nel 1959. Da questo momento vengono introdotte nel reggimento le fiamme cremisi e quelle carriste. Nel 1961 il btg. bersaglieri diventa XXIII per poi diventare definitivamente XI btg. bersaglieri dal 1964. La Bandiera del 182° era decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alle unità di fanteria della Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” per le operazioni in Jugoslavia dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. I soldati del Garibaldi portavano la cravatta rossa. Tutt'ora l'XI battaglione Bersaglieri Ariete porta la cravatta rossa (ridefinita come fonte da ex XI ciclisti dell'11° reggimento).
Cercare notizie di Ravnich è stato
come cercare un ago nel pagliaio. L'Anpi lo ignora, come ignora la Garibaldi. Disaffezione politica?. Dopo la
"cassazione" di Stalin e Tito dai ruoli di sinistra, chiunque abbia collaborato o lavorato per loro è
lebbroso. In un recente dibattito Tito viene definito dall'Istituto Gramsci
un comunista-nazionalista. Poiché il sottoscritto ha 60 anni, e proviene
dalla patria della Jotti, conosce purtroppo il passato, la verità e i
revisionisti.
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