Guerra Etiopica

La chiesa di Roma all'assalto

Borello don Mario dei padri missionari della Consolata
Tenente Cappellano
Nato a S. Ambrogio (TO)
motivazione Medaglia d'oro al valor militare
"Unico superstite, prodigiosamente scampato all'eccidio, di un manipolo di prodi eroi caduti nell'adempimento di un sacro e volontario dovere, trovava temporaneo e malsicuro rifugio presso una tribù amica. Noncurante del pericolo imminente e con Io spirito costantemente votato all'estremo sacrificio, iniziava e portava a termine, attraverso difficoltà e disagi eccezionali col costante pericolo della vita, per tre mesi consecutivi, una mirabile ed intelligente opera di penetrazione politica che contribuiva a darci, senza colpo ferire, il valido e sicuro possesso di una importante e ricca regione. Fulgido esempio di eccelse virtù militari e di sublime patriottismo. Lekempti, giugno-settembre 1936".

  Con gli accordi economici col Governo etiopico del ‘28 era proseguita la missione evangelizzatrice delle congregazioni italiane nel corno d’Africa, Etiopia compresa (che aveva già una sua religione di origine cristiana). L’evangelizzazione era stata volutamente tenuta in sottordine privilegiando sotto la guida di Mons. Gaudenzio Barlassina le opere pie, sanitarie ed umanitarie con la costruzione di 36 scuole, 10 orfanotrofi, 6 scuole professionali, 4 “Villaggi di libertà” (luoghi in cui risiedevano gli schiavi affrancati dai religiosi), 3 ospedali, 3 ricoveri per anziani, 2 lebbrosari, nonché, già dal 1922, un seminario per la formazione del clero indigeno. Alla vigilia della guerra a gestire questo insieme di opere vi erano 33 religiosi e 53 suore della Consolata. Dopo il 1932 venne fatta pressione sui missionari di aderire ai piani futuri del fascismo che comprendevano una capillare infiltrazione nel variegato mondo dei ras, da sempre in lotta fra loro, in preparazione di un possibile conflitto. I vertici religiosi locali all’inizio si dichiararono contrari. Mons. Santa aveva infatti manifestato a Barlassina la propria contrarietà nei riguardi di un’eccessiva contiguità tra missionari e fascisti, giudicando negativamente ogni commistione col partito, specie in Etiopia dove erano già presenti Italiani. Quindi assoluta contrarietà a “immischiarsi” nei “pasticci” orditi dalle autorità italiane, per non mettere in difficoltà chi già stava svolgendo una attività commerciale o industriale. Rodolfo GrazianiUno di questi "imbrogli" far lasciare il paese ai missionari a riprova di una persecuzione illiberale, il cui obiettivo era quello di rafforzare l’immagine di un governo abissino aggressivo e minaccioso (cosa non vera). Agli inizi del 1935 dopo gli incidenti di Ual Ual (dicembre 1934), cinque padri della missione si erano però già arruolati come cappellani nella Milizia. Nello stesso periodo Mons. Barlassina presentava a Graziani padre Mario Borello…. buon conoscitore delle lingue, dei paesi e delle genti nella zona sud est dell’Abissinia” (Harar), e che portava con sé, in omaggio al generale, rilievi, carte topografiche e un’abbondante raccolta inedita di note e osservazioni relative a quella  zona dell’Etiopia, di quel fronte che spetterà a Graziani.

Me ne stavo […] in Harar benedicendo l’impresa che portava in paese libertà, lavoro e benedizione, quando un ordine mi trasferiva nella capitale dell’Impero. Cappellano militare, perciò doppiamente soldato, ubbidii come mio dovere. Una vaga speranza mi dava le ali ai piedi: la speranza, cioè, che da Addis Abeba avrei potuto raggiungere più facilmente le terre della mia Missione del Kaffa, verso le quali il nostro glorioso esercito, dopo il suo primo balzo felino sulla Scioa, non avrebbe tardato a puntare”. (questo quando le armi già fumavano)  Mario Borello, Appello per la ricostruzione delle Missioni del Kaffa nel nostro Impero d’Etiopia, “Missioni Consolata”, 1936, n. 10, pp. 150-154.

Negus

   Padre Borello veniva quindi assegnato alla segreteria particolare del Vicerè e “capo ufficio censura”. Le note, i giudizi negativi non mancarono (padre Giovanni Ciravegna, direttore del periodico “Missioni Consolata) ed ebbero come risultato quello di evitare l’arruolamento dei padri che si trovavano in Italia, ma di impegnare come cappellani militari i missionari che erano già in Etiopia, nel caso !!! le circostanze lo avessero richiesto.
Il 6 dicembre 1935, due mesi dopo l’inizio dell’invasione fascista, l’espulsione di tutti i religiosi dall'Etiopia, a scanso di equivoci. All’inizio del mese di febbraio i missionari della Consolata che operavano nel Kaffa vennero così mobilitati come cappellani militari e dislocati secondo le indicazioni fornite dal prefetto apostolico. I padri mobilitati come cappellani militari furono alla fine 19: Enrico Arneodo, Felice Bertone, Mario Borello, Pietro Borello, Michele Bruno, Cristoforo Colombo, Luigi Creola, Basilio Cominardi, Giovan Battista Farina, Quinto Gardetto, Antonio Garello, Lorenzo Gaudissard, Ernesto Gilardino, Giuseppe Goletto, Mario Monegat, Luigi Olivero, Enrico Piva, Antonio Ricci, Domenico Viola.
Un motivo ricorrente, oltre quello religioso, era la liberazione dalla schiavitù, bandiera per farsi accettare in Europa e nel mondo democratico (a tanto gli altri non erano mai giunti). Ma Padre Borello aveva detto in precedenza del Negus
“Chi sul trono d’Etiopia, nella lotta contro il commercio degli schiavi, fu veramente fattivo, veramente regale, fu l’allora Principe Reggente Ras Tafari, l’attuale Imperatore Hàile-Selàssie [sic]. La sua educazione sinceramente cristiana, la sua intelligenza non comune, la saggezza del suo governo, le promesse fatte a Ginevra per ottenere l’ammissione del suo Impero nella società tutrice dei diritti delle Nazioni, l’influenza subita nei suoi viaggi di studio attraverso l’Europa: tutto lo indusse ad assumersi la seria responsabilità di un passo rischioso, ma doveroso di un’azione sinceramente antischiavistica nel suo paese”.
http://en.ismico.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=167 in inglese centenario missioni consolata

Padre Massaia: il primo esploratore evangelizzatore

 
Nel giugno del 1936, a guerra conclusa, il tenente cappellano Mario Borello venne assegnato da Graziani a un corpo di spedizione formato da altri quattro ufficiali e inviato verso Lechemti, ove aveva fondato la stazione missionaria di S. Teresa del Bambino Gesù 15 anni prima (era stato anche l’insegnante del degiac Hapte Mariam capo Galla). I Galla (di cui Padre Borello aveva curato una grammatica e vari testi per tratuzione) erano alleati e col loro appoggio si pensava di controllare il paese. Si trattava di un’impresa rischiosa, tra popolazioni non sottomesse, che si concluse con il massacro dei militari italiani. Unico sopravvissuto fu padre Borello, che riuscì a salvarsi perché si era allontanato temporaneamente dal campo (Sulle ragioni dell’assenza di padre Borello al momento dell’attacco esistono due distinte versioni. In un promemoria inviato al ministero delle Colonie, all’attenzione del capo del Governo, il religioso sostenne di essersi allontanato momentaneamente per la recita del breviario pochi minuti prima che avvenisse l’assalto (cfr. Pro-memoria a S.E. il Capo del Governo, sd., in ASMAE, MAI, Gabinetto, Archivio Segreto, b. 27, fasc. IV/4). Secondo la ricostruzione che ne fece il giornalista del “Corriere della sera” Ciro Poggiali, padre Borello si sarebbe allontanato dal campo diverse ore prima, per recarsi a verificare le condizioni della stazione missionaria della Consolata, lasciata dai religiosi allo scoppio del conflitto. (Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. III, La caduta dell’Impero, cit., pp. 30-31). Di seguito una versione in inglese
 
"In spite of lack of men and war material, Graziani capitalized on the pro-Italian attitude of Dejaz. Hapte Mariam of Lekempt and the Catholic Oromo. The viceroy used the Consolata missionary A. Borello, who had worked among the Oromo of that region, to help him acquire southwestern Ethiopia peacefully. It seems that the missionary suggested an air-raid to the viceroy, even though the leaders of the mission discouraged Borello's participation. Without informing Rome, Graziani sent three airplanes to Lekempt on 26 June 1936, with thirteen Italian officers and 3,000 Maria Theresa thalers to organize a local army and occupy southwestern Ethiopia. On the night of June 26, the Italian expedition was massacred. The airplanes were burned by the Holetta graduates and the Eritrean deserters at Bonaya, the airport near Lekempt. Twelve men were left dead. There was only one survivor, Borello, who acted as guide for the expedition. -- The massacre at Lekempt was a setback for Italian prestige; furthermore, it delayed the conquests of southwestern Ethiopia by three months, from June to 27 September 1936." [Sbacchi 1997 p 167-168] The cadets of the Holeta Military Academy gathered a fighting force of 350 armed men. This included 50 Eritreans who had defected from the Italian side. The force moved westwards, guided by cadets like Mathias Gamada and Bahru Kaba who were originally from the Nekemte area. They arrived at Bonaya on 11 June 1936.
Dejazmach Habte Mariam, governor in Nekemte, had heard about the movements of the cadets and sent Fitawrari Mersha Gurre to meet them. When the cadets reached Nekemte after 4-5 hours' walk from Bonaya, Habte Mariam gave them a great feast at his palace because he was also determined to defend the territory under any circum-stance against the invaders. He provided the cadets with three large rooms in the government school as accommodation. The three Italian aircraft which flew to Bonaya on 26 June passed near Dejazmach Habte Mariam's palace and dropped a letter proposing negotiations. Of the two Ethiopians on board, Dejazmach Dereje had grown up as the son of the governor in Arjo, and Ato Adera was a messenger of Ras Hailu of Gojjam. As soon as the planes landed at Bonaya, Padre Borello sent a letter to his friend Fitawrari Mosaa who sent Fitawrari Wolde Bajeena and Ato (later Fitawrari) Mekonnen Jambare to Bonaya as his delegates. They were escorted by people carrying provisions to offer reception to the Italians. The delegates spent the night with the local balabat, Fitawrari Muleta. The two Ethiopians who had arrived by air passed the night with a local telephone operator Mogossie. The Black Lion force disconnected the telephone line and asked permission from Dejazmach Habte Mariam to attack the Italians. Habte Mariam was afraid of serious consequences of such attack, and his advisers were generally against it, so permission was refused.
Nevertheless, the Black Lion patriots moved at night to Bonaya. Reconnaissance discovered that the Italians were sleeping. The Black Lion commander, Colonel Belay Haile Ab, ordered his force to break into the aeroplanes and capture the enemy alive. The Italians began to fire and there was hand-to-hand combat. Eleven Italian officers were killed on the spot and the three aeroplanes were burnt down. Alberto Agostino was afterwards found in a maize field, wounded with spears by the villagers. On the Black Lion side only two men were wounded and none was killed. Padre Borello reported by letter to Marshal Graziani in Addis Abeba what had happened and even sent a sketch map of the Black Lion camp.
The Italians delayed the occupation of Nekemte for three months in order to calm down the situation. When they began to arrive in large numbers, 600 Italian soldiers also arrived by air to Bonaya in September 1936. [Tesema Ta'a in 13th Int. Conf. of Ethiopian Studies, vol I 1997 p 263-276]

L’ordinario militare monsignor Angelo Bartolomasi aveva benedetto i cappellani militari in partenza per l’Africa Orientale, affermando che essi, insieme ai soldati e agli operai, portavano “il nome grande e la civiltà cristiana ed italiana in una nazione — se nazione può chiamarsi un aggregato di razze, di lingue, di costumi e di religioni — la quale è in arretrato di secoli dalla civiltà che affratella e sublima gli uomini nella fede e nella libertà di figli di Dio”

  I Galla lo tennero nascosto cambiandogli nascondiglio ogni giorno, per tre mesi. Nel frattempo compilava rapporti militari che spediva al capo con informazioni oggi considerate di puro spionaggio. A fine luglio Borello, che era stato nominato capo dell’ufficio politico di Lechemti dal viceré e da questi dotato di una radio per rendere più rapida la comunicazione, riuscì a far firmare l’atto di sottomissione ai principali capi della regione e a consentire la successiva avanzata militare italiana. L’opportunità politica di un riconoscimento ufficiale a Borello era stata segnalata dal ministro delle Colonie Lessona, cui non sfuggì la possibilità di utilizzare il motivo della partecipazione “volontaria” del missionario alle operazioni militari italiane per rafforzare il consenso attorno alla conquista dell’Etiopia. Scrivendo al duce il viceré mise in risalto “abilità, spirito votato al sacrificio et intelligente opera politica svolta da questo sacerdote alla cui opera stessa si debbono in gran parte risultati oggi conseguiti aderenti alle direttive man mano dategli da questo governo”. A riconoscimento del valore militare dimostrato nell’impresa, in ottobre al missionario venne assegnata da Graziani una delle due medaglie d’oro (l’altra a Padre Reginaldo Giuliani) conferite al clero castrense impegnato in Africa Orientale

 

 

PADRE 
REGINALDO GIULIANI
1887-1936

Giuliani, “ferito gravemente si gettò contro i nemici, croce alla mano, per cercare di evitare che questi “seviziassero” i corpi dei moribondi”. Morì così lui a passo Uarieu in Etiopia il 21 Gennaio. Il corpo fu ritrovato solo 3 giorni dopo dall’amico medico Alberto Lixia che disse.  “…ha ancora indosso la camicia nera bagnata dal suo sangue, la clavicola sinistra spezzata da una sciabolata ..”

 Reginaldo Giuliani di Carlo e Massaia Giuseppina riposa nella Chiesa di San Domenico a Torino
Onorificenze: M.O.V.M. - M.A.V.M.- 2 M.B.V.M.

Cardinale Fossati ordinario militare. “La morte in lui ha spezzato una fibra d’acciaio, ma non la vita. Lui che ripeteva - Non sarò mai costretto a scegliere fra chiesa e patria perché nel bene d’una ho sempre trovato il bene dell’altra.- E’ l’amore che si deve invocare in guerra non l’odio. L’odio è il figlio e padre della barbarie. L’amore, invece, sorge dalla civiltà e genera il bene e la pace. Oggi è la madre patria che si imporpora tutta con il sangue dei suoi figli, dei vostri fratelli il sangue che dice l’affetto ardente con cui si è amata e si ama la più bella di tutte le patrie".

Dal canto del Legionario
I morti che lasciammo a passo Uarieu sono i pilastri del romano Impero. 
Gronda di sangue il gagliardetto nero che contro l'Amba il barbaro inchiodò. 
Sui morti che lasciammo a passo Uarieu la Croce di Giuliani sfolgorò. Duce! 
Per il Duce e per l'Impero eja eja alalà! Alalà! Alalà! 
"Ma la mitragliatrice non la lascio!" gridò ferito il legionario al passo.

 

  Reginaldo Giuliani aveva abbracciato da giovane la vita monastica dell’ordine dei Domenicani (Saio bianco e nero). Nella Grande guerra aveva combattuto in Trincea con gli arditi (III Armata) meritandosi l’argento e il bronzo. Sostituiva spesso gli ufficiali quando il reparto si trovava falciato dal nemico. Attraversò il Piave raggiungendo di isolotto in isolotto l’altra sponda e ritornò per fare altrettanto con un altro reparto. Prima di queste imprese “disperate”, si disse, si confessò da Don Celso Costantini nel caso fosse andata male. Di padre Reginaldo non si seppe più nulla da quei giorni d'ottobre del Piave, ma ricomparve a Trieste al termine del conflitto, un mese dopo. Andò poi a Fiume con D’Annunzio e con gli squadristi cattolici (Fiamme Bianche)Nel '22 fu alla marcia su Roma, non rivestendo in seguito alcun ruolo politico se non quello di predicatore nella Chiesa di S. Domenico a Torino. Ettore Muti “mangiapreti” della prima ora aveva una deferenza unica nei suoi confronti: per scherzo durante una celebrazione gli mise una immagine di Giuseppe Mazzini nel messale per vedere la sua reazione. Mangiapreti si, Muti, ma teneva nel portafoglio il santino della Madonna di Loreto, protettrice degli aviatori, che Giuliani gli aveva regalato: ("Gim", come lo chiamavano dai tempi di Fiume ne aveva veramente bisogno). Se fosse riuscito a tornare dall’Etiopia (definiva Padre Massaia, primo evangelizzatore dell'Etiopia, suo lontano parente, ma da civile costui si chiamava Lorenzo Antonio da Piovà d’Asti), Padre Giuliani si riprometteva di tornare a fare il missionario come nel 1928, sicuramente con lo stesso spirito con cui usava la spada. Inutile dire quanto ormai la sua fede lo accecasse sulla reale condizione degli Italiani, portatori di civiltà e dei nativi che a questa anelavano !?. Sogna di essere come i cavalieri che liberarono la Spagna dall’islam, il soldato che, “con sentimento di fede”, è partito per l’Africa Orientale per “spezzare le catene degli schiavi e preparare la via ai Missionari cattolici, che andranno a liberare milioni di anime dall’eresia monofisita e a ricondurle nell’ovile di Gesù Cristo nel seno della Chiesa cattolica”. Nel gruppo del generale Diamanti, in quel gennaio del 36, trova lui solo la morte su 122 cappellani. La notizia viene riportata dai maggiori organi di stampa e fa il giro del Mondo per la notorietà del personaggio. Un uomo serio, sincero ed eroico caduto al seguito di una causa sbagliata, si dirà. Fra Ginepro da Pompeiana che lo vide per ultimo “ Beato te ardito, che sei morto assolvendo i morenti e con essi sei alle porte del Paradiso”.
 

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