IL TRIANGOLO DELLA MORTE
Ermanno
Gorrieri, il partigiano "Claudio": "Chi non tiene
presente la natura rivoluzionaria del PCI di allora e il
duplice obiettivo che si riprometteva (liberazione e 'rivoluzione
proletaria') non riesce a capire la Resistenza in tutta la sua
complessità".
Partigiano "Cateta":
Vede Don Alberto i nostri nemici non sono più i tedeschi, ne i fascisti
che sono alle corde. I nostri nemici sono i ricchi, i proprietari
terrieri. Noi lottiamo e combattiamo contro i signori, contro i preti"
« Molta rabbia si
era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il
25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i
fascisti dopo la Liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia
sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò
che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell'epoca. I
fascisti non hanno titolo per fare le vittime» (E.Gorrieri)
Gli americani paracadutavano le armi per combattere il nazi/fascismo, i partigiani le usavano per la rivoluzione.
Il risultato fu
il
triangolo rosso della
morte
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In questo capitolo non vengono trattati gli eccidi
del periodo bellico (post 8 settembre al nord) commessi da Tedeschi e
Fascisti nei confronti di tutti, e le esecuzioni sommarie di partigiani
nei confronti di civili accusati di fascismo. Qui si elencano
solo alcune, le più eclatanti, di quelle azioni di rappresaglia che furono chiamate,
"del triangolo...." (delimitante
un piccolo territorio delle
province di Bologna, Modena e Reggio Emilia) rivolte nei
confronti di ecclesiastici (ma non solo) dal marzo-aprile '45 (alla
vigilia della fine del conflitto) al '51. Per prassi consolidata un
elenco di ecclesiastici uccisi in tutta Italia (ma non solo), in
dipendenza dell'intero conflitto e comprendete anche questa zona circola
e viene duplicato da molti siti che si definiscono in maggioranza di
destra. Poiché più di una volta mi sono trovato, con questi dati in
mano, cappellani uccisi al fronte, sotto bombardamenti, in prigionia, ho
dovuto incrociare diversi dati per giungere alla lista purgata
(riguardante il triangolo rosso) che trovate nella colonna di sinistra
divisa per province. Episodi più diradati, misteriosi e confusi
continuarono comunque fino alla fine degli anni '50 !!!, poi si passò
alle minacce che restarono però confinate a se stesse. Per alcune delle figure, si da
un breve resoconto anagrafico-storico. Recenti e non recenti "storiografi" hanno alzato polveroni sui quali non esprimo alcun
giudizio. Mi limito a riportarne pochi passi di interviste,
dichiarazioni e fatti oltre l'inoppugnabile. Depositi di armi
clandestine verranno trovate nel tempo fino agli inizi del nuovo secolo.
L'ultimo a poca distanza da casa mia. Per quanto riguarda
l'Amnistia Togliatti del '46 Si trattò, com’era
logico e corretto, d'un provvedimento di clemenza omnicomprensivo(per
chiunque) e per tutti i reati -
eccetto quelli di particolare efferatezza - commessi fino al 30 luglio
1945, quindi anche dopo la fine della guerra. Tale
termine ultimo fa comprendere che scopo non secondario dell’amnistia fu
per Togliatti impedire il perseguimento giudiziario dei delitti "politici"
commessi dai partigiani comunisti anche dopo il 25 aprile, a spese non
solo di fascisti ormai inermi, ma anche di partigiani “bianchi”
(cattolici) o “badogliani”, ufficiali del Regio Esercito (che nel
dopoguerra verranno "affratellati nell'universo resistenziale),
di sacerdoti e a volte di semplici
“nemici di classe” (padroni). Su molti di questi crimini aveva cominciato a
indagare una magistratura ordinaria molto diversa da quella attuale e da
quella scalfariana (vedi sotto),
creando non solo problemi ai “compagni” inquisiti - in molti casi
già fuori dai confini precauzionalmente espatriati nei paesi comunisti
dell'Est oltre la cortina di ferro (Cecoslovacchia), - ma esumando scheletri che il Pci faticava a tenere nascosti nei suoi
pur capienti e ben custoditi armadi. Basti pensare a casi come
quello di Francesco Moranino, senatore comunista e per qualche tempo
sottosegretario alla Difesa, condannato nel 1956 all’ergastolo,
commutato poi in dieci anni di reclusione, per un reato che neppure
l’amnistia sarebbe bastata a cassare: l’assassinio di cinque
partigiani “bianchi” quelli poi che diventeranno amici.
Per le altre e per molte,
non dettagliate storie, si rimanda al sito
http://www.mascellaro.info/abes/pnt/pnt_08.php
per l'amnistia vedasi
http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri25.htm |
PROVINCIA DI BOLOGNA |
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LA VICENDA ROLANDO
RIVI
ROMA, domenica, 8
gennaio 2006 (ZENIT.org).- Il 7 gennaio a Modena nella Chiesa di Sant’Agostino,
l’Arcivescovo Benito Cocchi ha dato inizio al processo diocesano per la
causa di Beatificazione di Rolando Rivi, un giovane seminarista di
quattordici anni, barbaramente ucciso il 13 aprile del 1945 da alcuni
militanti comunisti. |
TAROZZI Don Giuseppe,
parroco di Riolo (Bologna),
prelevato la notte sul 26 maggio 1945 e fatto sparire. Alberto
Fornaciari: «Per evitare che si cercasse il corpo, si mise in giro la
voce che era stato bruciato in un forno da pane. Non è vero, ho saputo
dov'è stato sepolto: sotto un albero in un fondo adiacente alla chiesa.
Lo sanno tutti. Ho chiesto anche all'arcivescovo di Bologna se era
possibile recuperare la salma, ma tutti mi rispondono che non è il
momento, che si rischia di creare tensioni. Tremano come foglie, a
sentir parlare di quella storia. Recentemente il parroco ha chiesto di
poter aggiungere il nome di don Tarozzi su una lapide che commemorava
tutti i caduti della guerra, senza specificare - beninteso - che era
stato ucciso dai partigiani. Il paese è insorto, il parroco è stato
minacciato». Don Tarozzi non figura nemmeno tra i preti per cui la
diocesi (quella di Bologna) ha avviato il processo di beatificazione. Il
processo giudiziario vero e proprio, invece, si è svolto nel 1951 e si è
concluso - i giornali comunisti s'inalberarono: «La sentenza ha
suscitato viva indignazione fra i combattenti...» - con la condanna a 22
anni di tre imputati e a 18 anni e 6 mesi di altri tre, tra cui Dante
Bottazzi. Dell'omicidio venne quindi
accusato Dante Bottazzi condannato poi in contumacia all’ergastolo nel
gennaio 1952 per questo e per altri omicidi (il maresciallo dei
Carabinieri Attilio Vannelli, il partigiano comunista Renato Seghedoni).
Dante Bottazzi scomparve in Jugoslavia dove divenne professore
universitario col nome di Aldo Luppi. Protetto da Tito in un primo
momento, poi lo condannò a 12 anni carcere perché spia del
COMINFORM. Alla ripresa dei
rapporti Kruschev-Tito, ottenne la cittadinanza e si stabilì a Fiume.
Al funerale del compagno, i suoi
assassini si presentarono alla famiglia per fare le condoglianze e si
offrirono di portare a spalla la bara. Bottazzi si rifece vivo 60 anni
dopo per iscriversi ai Ds. La vicenda (in calce), finì per
scatenare un putiferio contro Pansa che l'aveva raccontata.
DONATI Don Enrico, arciprete di Lorenzatico (Bologna),
massacrato il 28 maggio 1945 sulla strada di Zenerigolo
BARTOLINI Don Corrado, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato dai partigiani il 1° marzo 1945 e fatto
sparire.
BARTOLINI Don Raffaele, canonico della Pieve di
Cento, ucciso dai partigiani la sera del 20 giugno 1945.
DAPPORTO Don Teobaldo, arciprete di Casalfiumanese
(Diocesi di Imola), ucciso da un comunista nel settembre 1945.
FERRUZZI Don Giovanni, arciprete di Campanile,
Diocesi di Imola, ucciso dai partigiani il 3 aprile 1945.
FILIPPI Don Achille, parroco di Maiola (Bologna),
ucciso la sera del 25 luglio 1945 perché accusato di filofascismo.
FORNASARI Don Mauro, Nato il 22 aprile 1922 a Longara (Calderara di Reno); entrato in Semina rio nel 1934, è ordinato
diacono il 18 giugno 1944, nella Basilica di S. Luca. Ucciso il 5
ottobre 1944 presso Gesso (Zola Predona) dai partigiani ?
GALASSI Don Giuseppe, arciprete di S. Lorenzo in
Selva (Imola), ucciso il 1° maggio 1945 perché sospettato di filofascismo.
GALLETTI Don Tiso, parroco di Spazzate Sassatelli
(Imola), ucciso il 9 maggio 1945 perché aveva criticato il comunismo.
RASORI Don Giuseppe, parroco di San Martino in Casola (Bologna), ucciso la notte sul 2 luglio 1945 nella sua canonica,
sotto accusa di filo-fascismo.
REGGIANI Don Alfonso, parroco di Amola di Piano
(Bologna), ucciso da marxisti la sera del 5 dicembre 1945.
DOMENICO Don Gianni, Di anni 36; oriundo della
Diocesi di San Sepolcro; ordinato sacerdote a Bologna dal Card. Nasalli
Rocca nel 1938, fu inviato quale sostituto a S. Vitale di Reno di cui
divenne Parroco il 30 novembre 1938. Cappellano Militare durante la
guerra in Jugoslavia, fu ucciso a S. Vitale di Reno il 24 aprile 1945
dai partigiani in presenza di militari della Div. Legnano
Gazzetta di Modena Ven. 12/2/2009
«Rolando Rivi
- ha spiegato la Bertoni Presidente
dell’Anpi Sassolese - fu una delle vittime delle violenze commesse nel
periodo di transizione tra guerra e dopoguerra, violenze i cui
moventi sono di caso in caso diversi per natura. Per quell’omicidio
furono condannati i responsabili, che pur avendo avuto un ruolo nelle
formazioni partigiane della zona, commisero un reato di delinquenza
(quale?)
comune e non furono spinti da ragioni ideologiche come si vorrebbe far
intendere !!. Proprio questa premessa distorta del documento ha compromesso
il voto unanime sulla proposta di intitolazione della via cittadina al
sacerdote, scelta che è invece assolutamente da condividere». E prosegue
.. Perché non ricordare anche il sangue dei vincitori, cioè dei nostri
ragazzi partigiani sassolesi uccisi a Manno, ai quali nessuno ha mai
intitolato una strada e nessun sassolese si è mosso per chiederla? Per
la morte di quei ragazzi partigiani neppure i collaborazionisti
sassolesi si sa se furono corresponsabili e nessuna ha pagato in
tribunale.
Ndr. - Rivi muore il 13 aprile 1945 la
guerra finisce il 25 quindi siamo prima della fine della guerra. La definizione periodo di transizione tra guerra e
dopoguerra storicamente non significa nulla, nessuno ha mai classificato
un siffatto periodo storico che sarebbe sospeso in un limbo tutto Bertoniano: Che la rappresentante dell’Anpi (non partigiana
non avendone l'età), insegnante
di Storia, sia così ignorante.
* Tale il resoconto della
vicenda. Il
commissario politico della brigata, Natalino Corghi, ammise
freddamente, davanti al padre del ragazzo, di essere stato l’esecutore
materiale della sentenza con due colpi di pistola al cuore e alla nuca
dopo averlo denudato e fatto inginocchiare vicino a una fossa da lui
stesso scavata. “Il ragazzo tremava, piangeva e pregava” - raccontò con
sadico compiacimento il partigiano “ma sono tranquillo – aggiunse -
perché era una spia. È stata una azione di guerra” -
Centinaia di strade
sono state intitolate a Lenin, Marx che con la resistenza non
c’entravano nulla (e nemmeno con la sinistra a sentire le ultime "versioni"
politiche). Se la Bertoni delle cui amministrazioni ha fatto
parte hanno fatto questa scelta e non l’altra deve solo chiederne conto a
se stessa. Aspettiamo risposta |
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Rolando Rivi, era nato a San Valentino
di Castellarano, (paese di 4 anime in provincia e diocesi di Reggio
Emilia) il 7 gennaio 1931 terzo di quattro figli di una famiglia di
mezzadri, ed era entrato nel Seminario di Marola nell'autunno del 1942.
Nell'estate del 1944, partiti i seminaristi per le vacanze, il Seminario
venne occupato dai tedeschi. Rolando, come i compagni, dovette tornare a
casa, portando con sé i libri per poter continuare a studiare. Nonostante
gli inviti dei familiari e l'esempio di altri seminaristi, Rolando non
volle abbandonare la veste talare; a tutti rispondeva: “lo studio da prete
e la veste è il segno che io sono di Gesù”. Ai bambini, anche solo di
cinque sei anni, insegnava a servire la messa e giocava con i più piccoli,
per diffondere serenità in quei giorni così tristi. Li invitava in chiesa
a pregare davanti al tabernacolo e insegnava loro a cantare le lodi del
Signore. Don Olinto, suo parroco, lo guardava compiaciuto. In quei mesi,
lontano dal seminario poteva essere
facile per un ragazzo perdere, quasi senza accorgersene, lo stile
fervoroso del seminarista.
Rolando, invece, continuo a manifestarsi a
tutti sempre più convinto della sua vocazione, buono e sereno anche nelle
difficoltà. La vita a San Valentino e sulla montagna dopo la violenta
estate del '44, si fece pericolosa. Si ebbero ruberie, razzie, fatti
spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti. Diventava sempre più forte
l'odio contro i preti. A San Valentino fu preso di mira il parroco don Olinto Marzocchini. Una mattina si venne a sapere che durante la notte
precedente, alcuni l'avevano aggredito e umiliato. Qualche giorno dopo,
don Marzocchini riparò in un luogo più sicuro. Questo fatto impressiono
tutti e Rolando soffri per il suo parroco maltrattato, ma non
disse parole di odio verso quei partigiani. Le simpatie di Rolando
andavano agli uomini delle "Fiamme Verdi" della brigata "Italia", di
ispirazione cattolica, organizzati nell'autunno del 1944 da don Domenico Orlandini (detto "Carlo"). Dopo la partenza del parroco, venne a San
Valentino un giovane prete,
don Alberto Camellini, assai preparato e molto
attivo, verso il quale Rolando dimostrò subito grande simpatia. I primi
due giorni di novembre del ‘44, festa dei santi e commemorazione dei
defunti, c'era grande mestizia in casa Rivi, per il ricordo struggente dei
familiari perduti: Rino, Adolfo, Lina. «Quando sarò prete - diceva - partirò,
andrò in terre lontane a far conoscere Gesù. Voglio che Lui sia conosciuto
e amato». Il progetto che più lo affascinava era quello di diventare prete
per andare missionario. Nell'inverno del 1944 la neve cadde in abbondanza
ma dopo quasi sei anni di guerra, qualche spiraglio di pace sembrava
intravedersi.
Il 7 gennaio, tra l'affetto dei suoi, Rolando compì 14 anni. «La guerra
finirà presto - pensavano e speravano papa e mamma - e il nostro ragazzo potrà tornare
in seminario e diventare prete». Nonna Anna lo guardava, piena di
speranza: «Chissà se ti vedrò salire l'altare?». Pregava ogni giorno
affinché Gesù affrettasse il fortunato giorno del suo rientro in
seminario. Aveva solo 14 anni ed era poco più di un bambino, ma non si era
mai mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità di aspirante
appassionato al sacerdozio. Continuava ad indossare la veste nera e spesso
il cappello da prete. Il primo aprile di quell'anno, Pasqua di resurrezíone, don Olinto è già rientrato e al
suo fianco è rimasto il giovane curato Don Alberto Camellini. Durante la settimana santa Rolando
ha partecipato alle celebrazioni liturgiche con grande entusiasmo. Il
giorno di Pasqua, durante le messe, Rolando suona l'organo accompagnando i
canti. Nei giorni successivi, Rolando non manca mai alla messa e alla
comunione. Poi, tornato a casa, esce con un libro sotto braccio e va a
studiare presso un boschetto non lontano dalla sua abitazione. Il 10
aprile, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto, è già in
chiesa: si celebra la messa cantata in onore di San Víncenzo Ferreri, che
non si è potuta celebrare il 5 aprile. Suona e accompagna all'organo i cantori, tra i quali
c'è anche il papà. Si accosta alla comunione e si raccoglie in preghiera a
ringraziare il Signore. Prima di uscire, prende accordi con i cantori, per
"cantare messa" anche l'indomani. Torna a casa. I suoi genitori vanno a
lavorare nel campi. Rolando, con i libri sottobraccio, si reca come al
solito a studiare nel boschetto a pochi passi da casa. Indossa, come
sempre, la sua veste nera. A mezzogiorno, non vedendolo ritornare, i
genitori lo vanno a cercare.
Tra i libri, sull'erba, trovano un biglietto:
«Non cercatelo. Viene un momento con noi,
i partigiani».
I partigiani lo spogliano della veste talare, lo insultano, lo percuotono
con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un
ragazzino coperto di lividi, piangente. Al parroco e ai genitori qualcuno
consigliò di recarsi in località Farneta dove c’era una formazione
garibaldina ma in quella sede dissero di non avere notizie del
seminarista. Raggiunsero allora il comando delle Fiamme Verdi, al comando
di Ermanno Gorrieri e lì vennero a sapere che Rolando era stato ucciso dai
comunisti alle Piane di Monchio. La conferma venne data dal partigiano
delle Brigate Garibaldi Narciso Rioli: il giovane seminarista era stato
processato e giustiziato, a suo dire, perché sospettato di essere una spia
dei tedeschi. Una vera assurdità. * Nella
brigata c’erano alcuni uomini di San Valentino che conoscevano bene la
famiglia di Rolando Rivi e sapevano benissimo che quell’accusa era un
ignobile pretesto, ma nessuno osò alzare un dito né pronunciare una
parola. Uno scarafaggio in meno. Lo coprono con poche palate di terra e di
foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare; poi sarà
appesa, come trofeo di guerra, sotto il porticato di una casa vicina. Era
il 13 aprile 1945, Rolando aveva 14 anni e tre mesi. Il cadavere riposa
adesso sotto il piano della chiesa della Consolata a San Valentino.
Nel 1951 Natalino Corghi e Narciso Rioli, diventati nel frattempo pezzi
grossi nel partito, furono processati e condannati in Cassazione a 22 anni di galera.
La sentenza del tribunale emessa dalla corte di Appello di Firenze nel
1952, afferma che il seminarista fu ucciso perché rappresentava “un
ostacolo all’espansione locale del comunismo”. Il Pubblico ministero al
processo ha raccontato che la “veste talare” e “la manifesta intenzione
del fanciullo di darsi al sacerdozio” furono tra i principali moventi del
delitto. Ne scontarono 6 di anni e tornarono liberi senza che fosse mai
noto il mandante, il regista dell'opera.
Oltre che nel libro
di Beretta la vita e la storia del Servo di Dio è raccontata nel libro
di Paolo Risso, intitolato “Rolando Rivi, un ragazzo per Gesù” (Edizioni
Del Noce, 2004). e ROLANDO RIVI Servo di Dio Seminarista Martire di
Emilio Bonicelli
http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri69.htm
http://www.rolandorivi.com/Storia/La%20persecuzione%20comunista.htm |
PROVINCIA DI MODENA |
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LENZINI Don Luigi, parroco sessantenne di Crocette di
Pavullo, viene svegliato la notte del 20 luglio 1945 da un gruppo di
"garibaldini" che lo sequestrano per torturarlo. Strappato dalla
chiesa, torturato, seviziato (gli cavarono gli occhi), fu ucciso dopo
lunghissime ore di indescrivibile agonia. Il suo cadavere viene
seminascosto nella vigna, e dovranno passare alcuni giorni prima che
qualcuno abbia il coraggio di seppellirlo. Il processo, celebrato in una
atmosfera di terrore e di omertà, non seppe assicurare alla giustizia
umana i colpevoli, mandanti ed esecutori, i quali, con tale orribile
delitto, non unico, purtroppo, hanno gettato fango, umiliazione e
discredito sul nome della Resistenza Italiana. PAVULLO.
Partirà l’8 giugno 2011 il processo di beatificazione di don Luigi
Lenzini, martirizzato il 21 luglio 1945. L’8 giugno infatti si insedierà
il Tribunale ecclesiastico diocesano, organo al quale spetta a livello
locale la decisione della beatificazione, prima che la causa venga
postulata anche in Vaticano, dove sarà al vaglio delle Congregazioni dei
Santi. Il Tribunale sarà composto da Mons. Angelo Cocca, nelle vesti di
vicario del vescovo Lanfranchi, da Mons. Ettore Pini (che svolgerà la
funzione di cancelliere) e da don Frigieri Gaetano (che svolgerà la
funzione di notaio).
Il 27 luglio 1945
l'impiegato democristiano di Nonantola Bruno Lazzari**
è colpito da raffiche di mitra insieme a Giovanni Zoboli mentre sta
andando a Bologna a denunciare gravi irregolarità commesse dal Partito
Comunista. Il 19 maggio 1946
viene assassinato a pistolettate, mentre sta andando a messa, il dottor
Umberto Montanari, medico condotto a Piumazzo ed ex-partigiano cattolico;
la sera del 17 novembre 1948 un uomo fa irruzione nella canonica della
parrocchia di Freto e uccide Angelo Casolari e Anna Ducati, membri del
consiglio parrocchiale. Gli omicidi continuano
anche gli anni successivi:
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il nome
di Bruno Lazzari compare nella vicenda dei ragazzi Ebrei di Villa Emma
cosi la regione Emilia Romagna a Pag 13 del notiziario "Assemblea
Legislativa Emilia Romagna" maggio-giugno 2008 ... Il religioso (Don
Beccari), assieme al dottor Moreali, fu anche di stimolo per la fuga in
Svizzera (ottobre 43), portata a termine con successo grazie al sacrificio
del bidello di Villa Emma, Goffredo Pacifici, catturato e deportato in uno
dei suoi viaggi attraverso il confine. Dopo la fuga don Beccari non rimase
ad attendere che la guerra finisse, ma lavorò alacremente per salvare
altre persone: in seminario organizzò, con la collaborazione di don
Tardini, un laboratorio per la fabbricazione di documenti falsi. Ne
ottenne qualcuno “in bianco” da Bruno Lazzari, impiegato del Comune, e si
fece fare dall’artigiano Apparuti un fantasioso punzone a secco del Comune
di Larino, provincia di Campobasso.
Ermanno Gorrieri partigiano (Claudio) e democristiano:
«Io so che molte
federazioni provinciali (comuniste) erano divise. Però spesso hanno tollerato e
coperto i delitti, aiutando magari i colpevoli a fuggire all’Est
(principalmente in Cecoslovacchia) e tacendo
su chi era in carcere innocente (come si vuol far credere nel caso
Nicolini). Tutti, anche chi non era d’accordo,
hanno tenuto un atteggiamento per lo meno ambiguo».
Indro Montanelli, a suo tempo "sconsigliato"
di indagare sulle stragi rosse, così commentava quei fatti: «Se il
partito ordina di uccidere, si uccide. E se il partito ordina di mandare
in galera un altro, ce lo si lascia andare. Tutto questo, c’è chi lo trova
"eroico" e "sublime". Io lo trovo semplicemente infame». (R.Be) |
DONINI Don Giuseppe, parroco di Castagneto (Modena).
Trovato ucciso sulla soglia della sua casa la mattina del 20 aprile
1945. La colpa dell'uccisione fu attribuita in un primo momento ai
tedeschi, ma alcune circostanze, emerse in seguito, misero in dubbio
questa versione.
GUICCIARDI Don Giovanni, parroco di Mocogno
(Modena), ucciso il 10 giugno 1945 nella sua canonica dopo sevizie
atroci da chi, col pretesto della lotta di liberazione, aveva compiuto
nella zona una lunga serie di rapine e delitti, con totale disprezzo di
ogni legge umana e divina. Individuato venne freddato dai carabinieri in
un conflitto a fuoco.
TALE' Don Ernesto, parroco di Castellino delle
Formiche (Modena), ucciso insieme alla sorella l'l 1 dicembre 1944.
Morte lenta «quella carogna non voleva morire ... », dirà al bar uno dei
torturatori del prete. Gli dovette dare con la zappa in testa.
VENTURELLI Don Francesco, parroco di Fossoli
(Modena). Don Francesco – oro al valor civile alla memoria nel 2006 -
Sacerdote di elevate qualità umane e civili, nel corso dell'ultimo
conflitto mondiale, si prodigò con eroico coraggio e preclara virtù
civica in favore dei cittadini ebrei, dei prigionieri politici e degli
internati civili nel Campo di Fossoli, procurando loro medicine, cibo e
capi di vestiario.
Fulgido esempio di coerenza, di senso di abnegazione e di rigore morale
fondato sui più alti valori cristiani e di solidarietà umana. 1943 -
1946 Fossoli (MO).(unico dei 130 sacerdoti uccisi
dai "partigiani" ad avere ricevuto la medaglia ma non per il martirio
bensì per la sua "attività caritativa" al Lager di Fossoli). Dopo la
Liberazione continuava la sua opera di assistenza in aiuto di
appartenenti alla ex RSI e di tedescchi sbandati, fino alla barbara
uccisione da parte di uno sconosciuto nel gennaio del 1946 dopo che
la Voce del partigiano, organo dell'Anpi, lo aveva accusato di aiutare i
fascisti.
PRECI Don Giuseppe, parroco di Montalto di Zocca
(Modena). Chiamato di notte col solito tranello, fu ucciso sul sagrato
della chiesa il 24/5/45.
PROVINCIA DI REGGIO EMILIA |
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IL DIAVOLO E DON PESSINA:
IL CHI SA PARLI
di Danilo Morini da l’”informazione”
Cronaca di Reggio 18 giugno 2006
Alle ore 22.30 del 18
Giugno di sessant’anni fa Don Umberto Pessina, Parroco di San Martino di
Correggio, veniva aggredito da tre persone a pochi metri dalla sua
Canonica in cui stava rientrando. Vennero esplosi due colpi di
rivoltella, uno dei quali mortale,e Don Pessina riuscì a giungere al
portone per accasciarsi nell’ingresso ove spirò pronunciando solo:“O
Dio, o Dio”.
Chi era Don Pessina?
:“Un uomo ed un sacerdote di grande
fede che faceva il suo dovere e che si batteva con opere concrete e non
con chiacchiere. È certamente un martire per le sue idee.”. Così scrive
Germano Nicolini, il partigiano Diavolo,
neoeletto Sindaco di Correggio (del
partito comunista, al quale lui, cattolico, aveva aderito perché credeva
che quella fosse la vera strada per mettere in pratica il Vangelo (una
specie di vangelo fai da te, self service)) che venne condannato
come mandante dell’omicidio a seguito di un complesso iter giudiziario
che vide una prima sentenza di condanna nel Febbraio 1949 da parte della
Corte d’Assise di Perugia e l’ultima di conferma della condanna nel
Giugno 1955 della Corte di Cassazione. Ma Nicolini non era il mandante
dell'omicidio, e neanche gli altri due condannati
(Elio Ferretti e Antonio Prodi),
pur essendo uno di questi reo confesso, erano i veri colpevoli; il vero
omicida era ben noto alla dirigenza comunista di Correggio. Erano ben
noti al PCI anche gli altri due veri partecipanti alla spedizione
punitiva contro don Pessina, spedizione organizzata dallo stesso PCI.
Mentre l'omicida - sia nell'immediato che per i decenni successivi -
venne protetto in modo omertoso dal PCI di Correggio, ma anche dalla
Federazione Reggiana del PCI, gli altri due veri partecipanti furono
indotti a rassegnare la loro confessione di colpevolezza ad un notaio di
Milano e poi vennero sottratti alla giustizia facendoli emigrare
nell'allora ospitale Jugoslavia di Tito. I due perō non furono creduti
dalla giustizia, che anzi li condannō per calunnia. L’omicidio di Don
Pessina ebbe una vasta eco nella stampa su tutti i più importanti
quotidiani nazionali;anche perché se si poteva non certo giustificarsi,
ma comunque comprendersi che la guerra civile che aveva insanguinato
tutto il Nord per quasi due anni non si concludesse automaticamente con
la resa in Italia delle truppe tedesche della fine d’aprile 1945, non
era più accettabile che si continuasse ad uccidere a distanza di un anno
dalla fine della guerra stessa. Purtroppo gran parte della dirigenza
comunista reggiana non riusciva ad accettare le regole di una compiuta
democrazia pluripartitica e pertanto chi non era comunista era
necessariamente, e perciò stesso, un nemico da controllare o un
fascista, anche se spesso si trattava di persone che con il fascismo non
aveva avuto niente da spartire. E Don Pessina non fu purtroppo l’ultimo
a soccombere in questo clima d’odio e di violenza. Il 24 Agosto di
quell’anno a San Michele dei Mucchietti, frazione di Sassuolo sita nella
destra del Secchia proprio di fronte a Castellarano (Morini è stato per
anni sindaco di questo paese), venne ucciso nella sua residenza di
campagna l’Avv. Ferdinando Ferioli, appartenente ad una nota famiglia
reggiana di professionisti liberali ed antifascisti. E due giorni dopo,
sempre nella sua casa tra Boglioni di Casalgrande e Salvaterra venne
ucciso Umberto Farri, socialista prampoliniano (socialista e
antifascista), da due mesi rieletto a stragrande maggioranza Sindaco di
Casalgrande in una lista unitaria socialcomunista. Anche per questi due
delitti,il cui mandante era il Sindaco comunista del vicino comune di
Castellarano, Domenico Braglia (“Il piccolo padre” comandante
partigiano) la verità era ben nota alla dirigenza comunista reggiana ma
ivi rimase in omertà per quasi cinquant’anni sino a quando Aldo Magnani
nel 1991 non ha reso noto che allora aveva convocato a Reggio in
Federazione il Braglia per intimargli “Basta!”. |
BOLOGNESI Don Sperindio, parroco di Nismozza (Reggio
Emilia), fatto saltare con una mina mascherata e camuffata a guisa di
pacchetto postale. L’aveva confezionata in quella maniera un ex
prigioniero sovietico che faceva parte di una banda di stranieri
comandata da un altro russo. Aveva escogitato questa scatoletta con
nastrino azzurro e l’aveva seminata lungo la strada dove passava il
giovane parroco. Don Sperindio vide quell’oggettino per terra, si chinò
a raccoglierlo. Un’esplosione violenta, e di lui non rimasero che membra
infrante. Quando comunicarono la disgrazia al russo rispose: «Lui
prete, lui paradiso». 25 ottobre 1944.
DONADELLI don GIUSEPPE - parroco di Vallisnera (Reggio
Emilia). Ucciso il 2 luglio 1944.
CORSI Don Aldemiro, parroco di Grassano (Reggio
Emilia), assassinato nella sua canonica, con la domestica Zeffirina
Corbelli, da partigiani comunisti, la notte del 21 settembre 1944.
JEMMI Don Giuseppe (Montecchio Emilia, Reggio Emilia, 26 dicembre
1919 - Felina, Castelnovo Monti, Reggio Emilia, 19 aprile 1945) nel
1943, è ordinato sacerdote dal Vescovo Mons. Eduardo Brettoni, e mandato
viceparroco a Felina. Don Giuseppe, ogni giorno in preghiera davanti al
Tabernacolo, poi sulla bici o a piedi a visitare i parrocchiani. Nel
settembre 1943, si avvia la lotta per la resistenza ai nazifascisti: lui
dà una mano affinché l'Italia ritrovi la libertà perduta. Aiuta i
braccati dai violenti di ogni colore. Dà sepoltura agli uccisi
insepolti, si reca a trattare perché nessuno finisca in Germania o in
carcere, spesso preludio della morte. Non si arrende neppure quando
rischia la pelle. Pretende che si evitino violenze "Amate i vostri
nemici". Dilaga un clima di odio, in primo luogo contro i preti, da
parte di molti. Nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1945, vengono uccisi
due padri di famiglia. Il 10 aprile 1945, è Pasqua: per le benedizioni
pasquali viene accompagnato da due ragazzi, Raimondo e Meo, che spesso
lo sentono ripetere: "Devo avvisare il tale che si metta in salvo perché
lo vogliono uccidere". La domenica in Albis, 8 aprile 1945, alla Messa
delle 11, la più frequentata, don Giuseppe lancia una focosa predica
contro la violenza. E’ la sua fine. Subito dopo la Messa, qualcuno lo
ferma sul sagrato e gli dice: "Per carità, che cosa le faranno adesso?".
Risponde: "Uccideranno anche me? Ebbene, sconterò il mio purgatorio e
andrò diritto in Paradiso, suonando il violino!". Il 19 aprile 1945, don
Giuseppe va a celebrar Messa a Poiago per un funerale. Quando
rientra a Felina, verso le 13, gli viene detto che sono venuti in due a
cercarlo perché c'è bisogno di lui. Don Giuseppe non indugia neppure a
pranzare e, in bici, va al luogo dell'appuntamento: è prete e come può
astenersi dal servire i fratelli? Ma quando li vede, comprende bene che
cosa vogliono. Per tutto il pomeriggio, tra Monchio e il monte Fosola,
dove viene trascinato, da Astro e Briano, è trattato come Gesù
tra il pretorio di Pilato e il Calvario, soprattutto dopo che, riuscito
a scappare per qualche momento, è di nuovo catturato e condotto a
morte. All'imbrunire, sul monte Fosola, una raffica lo abbatte sul
ciocco d'un albero: cade con il cranio trapassato e la
mascella spezzata, nel suo sangue. Ha 25 anni appena. All'indomani, 20
aprile 1945, i due chierichetti, Raimondo e Meo, mandati dal parroco,
scoprono sul Fosola il loro "don Pepo", immolato come il
Cristo Crocifisso. Si inginocchiano e giurano: "Noi ora prenderemo il
tuo posto... Noi saremo sacerdoti di Gesù, come te!". Lo diventeranno
entrambi, nel 1954 e nel 1956.
http://www.mascellaro.info/aps/node/51 |
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ILARIUCCI Don Luigi, parroco di Garfagnolo (Reggio
Emilia), ucciso il 19 agosto 1944. Dal memoriale di Don “Carlo”
Orlandini. …Altri sbandati arrivavano intanto a Poiano (sua parrocchia),
informati del mio ritorno. Costituii tre distaccamenti, cui diedi il
nome di «Battaglione della Montagna»; al comando furono prescelti Dante
Zobbi «Rinaldo», Dino Ferri «Ferro» e Giuseppe Morelli «Burocchi». Mi
preoccupai subito di ottenere armi e generi di prima necessità,
mettendomi in contatto con il magg. Johnston, che si era portato in
Garfagnana: potei fissare un primo incontro alle pendici del monte Caval
Bianco. Mi diede assicurazioni circa i rifornimenti e promise di tornare
al più presto fra noi (Don «Carlo» inizia la riorganizzazione dei suoi
per suo conto, non fidandosi più delle vecchie strutture di Comando. I
comunisti sparsero la voce che non voleva più combattere). Un primo
lancio servì infatti a metterci in pieno assetto. Intanto nuovi
distaccamenti andavano formandosi. Dal marasma che aveva preceduto il
rastrellamento e dalla assoluta inettitudine al comando dimostrata da
molti comandanti di formazione e dallo stesso «Miro», avevo tratto le
mie conclusioni pienamente condivise dai partigiani della mia zona, da «Zago»
e da tutti coloro che mi erano rimasti al fianco: o si riorganizzava il
Movimento su basi di disciplina, si vietavano i saccheggi ed i
prelevamenti indiscriminati, si bandiva la politica di parte in seno
alle formazioni e si creava un Comando con persone dotate di coraggio e
di capacità, oppure avrei dato vita ad una brigata indipendente, sotto
il mio diretto comando. Queste furono le condizioni che posi chiaramente
ad «Eros», in occasione di una visita che egli mi fece, accompagnato
dalla staffetta «Resina» (Rosa Becchi) e da altri due partigiani.
Per indurmi a recedere dai miei propositi mi offrì la carica di Vice
Comandante generale; gli risposi che non aspiravo a quello e restai
fermo sui miei punti, Dopo l'infruttuoso colloquio «Eros» inviò i due
partigiani del suo seguito da «Sintoni» con una lettera.
L’indomani i due andavano ad
ammazzare il Parroco di Garfagnolo, don Luigi Ilariucci,
Prima di decidere definitivamente volli incontrarmi con «Miro» che
sapevo essere a Dèusi. Vi andai con una squadra di uomini, che però mi
sconsigliarono, anzi mi impedirono, di entrare a Dèusi, perché circolava
insistentemente la voce che attribuiva ai comunisti l’intenzione di
uccidermi
3) L'uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, avvenne il
19 agosto, mentre dalla sua parrocchia si portava a Costa dè Grassi per
un servizio religioso. Dopo la guerra don Orlandini (Carlo) denunciò i
due esecutori del fatto: «Rufo» «Stella». «Sintoni» = Pattacini Fausto:
era stato comandante della Brig. G.A.P. di Reggio. Nel maggio deve
salire in montagna con un gruppo di suoi uomini: si reca nella Val
d'Enza, ancora sguarnita di gruppi partigiani. Sarà il Comandante del
Distaccamento F.lli Cervi. Dal «diario» di Eros sembra che nella lettera
egli chiedesse informazioni sulla situazione nella zona, ricevendone
riscontro proprio il 19/8.
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MANFREDINI Don Luigi, parroco di Budrio (Reggio Emilia), ucciso il 14
dicembre 1944.
dal memoriale di Don Carlo Orlandini
Ed. Del
Noce Padova 2009. … In questo frattempo a Villaminozzo erano scesi anche
«Eros» e «Miro», i quali unitisi al Comando modenese avevano dato vita
ad un Comando unico di tutte le formazioni delle due province con a capo
«Armando» (Mario Ricci) commissario Osvaldo Poppi "Davide" ed avevano
proclamato la cosiddetta «Repubblica di Montefiorino". Fui chiamato
anch'io con l'incarico di intendente generale; quindi il settore di
Ligonchio passò sotto il comando di Remo Torlai (Tito). Arrivato a
Villaminozzo vi trovai una grossa confusione di partigiani fra reggiani
e modenesi. Alla loro entrata in paese i
modenesi avevano arrestato varie persone, tra le quali il parroco, ma
non le avevano fucilate perché volevano fossi io a giustiziarle: era
infatti soprattutto contro di me che essi intendevano in tal modo
sfogare il loro livore. Il parroco Don Manfredini era incolpato di aver
fatto arrestare don Pasquino Borghi: toccava quindi a me di vendicare il
mio carissimo confratello ucciso. Riuscii a salvare la vita di tutti.
Siccome il parroco, causa la sua imprudenza, rischiava di venir fatto
fuori contro il mio volere, scrissi al Vescovo di toglierlo da quel
posto. Fu trasferito in pianura, ma anche laggiù lo raggiunse la
vendetta dei partigiani. Don Luigi Manfredini fu trasferito a
Budrio di Correggio ma venne ucciso la notte del 14 dicembre 1944 da due
partigiani comunisti. |
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Ma dovette scomodarsi da Roma
Palmiro Togliatti (era anche Ministro di Grazia e Giustizia sotto la
Presidenza del Consiglio affidata a De Gasperi) che convocò a Reggio
Emilia nel Settembre del 1946 i massimi dirigenti delle Federazioni
comuniste emiliane per dire loro che questi delitti politici e le
violenze in genere dovevano cessare, e questo anche nell’interesse
dell’immagine dello stesso partito. E in questa veste fece
adottare il Decreto Presidenziale n. 4 del 22 Giugno 1946, pubblicato
nella G.U. del successivo 23 Giugno con efficacia (retroattiva) dal 18
!!!!, che recava amnistia ed indulto per reati comuni politici e
militari. Nella relazione introduttiva scriveva:
“Per i reati politici ci si è trovati di fronte a esigenze in parte e
talora contrastanti, di cui si è dovuto tener conto nel determinare il
contenuto e i limiti dell’atto di clemenza. Giusta e profondamente
sentita, da un lato, la necessità di un rapido avviamento del Paese a
condizioni di pace politica e sociale. La Repubblica, sorta dalla
aspirazione al rinnovamento della nostra vita nazionale, non può non
dare soddisfazione a questa necessità, presentandosi così sin dai primi
suoi passi come il regime della pacificazione e riconciliazione. Un atto
di clemenza è per essa in pari tempo atto di forza e di fiducia nei
destini del Paese. La
coincidenza con l’omicidio di Don Pessina è un fatto meramente casuale
oppure ben voluto da Togliatti?. Dobbiamo inoltre ricordare che nella
notte del 26 Marzo 1947 l’Assemblea Costituente votò con 350 SÌ e 149 NO
l’art.7 della tuttora vigente Costituzione che prevede che lo Stato e la
Chiesa Cattolica,sono, ciascuno, nel proprio ordine indipendenti e
sovrani e che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi
dell’11.02.1929. Togliatti portò tutto il PCI al voto a favore di questo
testo unitamente alla DC (Don Rossetti) che lo aveva proposto. Votarono
invece contro sia socialisti di Nenni che altri Deputati appartenenti ai
partiti laici minori. Il voto favorevole del PCI era tutt’altro che
scontato e la scelta sicuramente giusta di Togliatti è tuttora fonte di
diverse interpretazioni. Ne diede una con una sua vignetta Giovanni
Guareschi nel suo settimanale “Candido”, allora di grande successo, nel
numero 14 dell’Aprile immediatamente successivo sia al voto favorevole
del PCI all’art. 7 che all’arresto di Nicolini avvenuto il 13 dello
stesso Marzo 1947. Ripresentiamo la vignetta il cui commento alla luce
dei fatti, oggi noti nella loro interezza, lasciamo ai nostri lettori.
Resta il fatto che Togliatti, dotato di grande intuito,votò l’art.7 per
non riaprire un dissidio tra Stato e Chiesa Cattolica;resta il fatto
della responsabilità del PCI reggiano e correggese nell’omicidio di Don
Pessina; resta il fatto che Mons. Socche non è il responsabile
dell’errore della Giustizia penale ai danni di Germano Nicolini. In
questo clima politico di prepotenza settaria, che oggi è difficile
credere che abbia caratterizzato la ora paciosa e sazia provincia
reggiana,maturò il sacrificio di una nobile figura di sacerdote qual’era
Don Umberto Pessina, zelante nel suo ministero parrocchiale e nello
stesso tempo, attento alla giustizia sociale a favore del gregge
affidatogli. In questi ultimi anni più che dell’omicidio di Don Pessina
si è parlato e scritto della revisione della condanna a suo tempo
inflitta a Nicolini che si è sempre dichiarato innocente dello stesso.
Nicolini nel 1993 ha pubblicato un corposo libro dal titolo volutamente
polemico “Nessuno vuole la verità”. - Nicolini (classe 1919, cattolico, comandante
del terzo battaglione Sap della 77ª brigata Manfredi con il nome di
«Diavolo», fu arrestato poco dopo essere stato eletto sindaco
anche con i voti Dc. Dopo la condanna come mandante
dell'omicidio, fu radiato dall'esercito e interdetto dai pubblici
uffici. Assolto 45 anni
dopo il delitto ( ha ottenuto la medaglia d'argento al valore militare,
una pensione e un sostanzioso assegno)
imputa il suo caso ad un complotto ordito ai suoi danni dal Vescovo
Beniamino Socche su istigazione del sacerdote correggese Don Neviani e
dal Capitano dei Carabinieri, Vesce. Di certo non si può dimenticare la
immediata reazione di Mons. Socche all’omicidio di Don Pessina;fu
indomita, suscitò l’interesse di tutta la nazione sul clima di odio e di
violenza che caratterizzava l’egemonia della struttura partitica
comunista sulla provincia reggiana,pretese che venissero individuati e
condannati i colpevoli anche allo scopo di tutelare i suoi parroci nel
loro ministero religioso. Mons.Socche tramite Don Enzo Neviani aveva sì
raccolto la denuncia di una donna di Correggio, denuncia contro Nicolini
che aveva, dato il clima politico del tempo, una sua credibilità, ma la
condanna spettava ai giudici ed i giudici, e non il Vescovo Socche,
condannarono Nicolini. La condanna si è dimostrata ingiusta e sbagliata
e questo solo grazie alla fine dell’omertà del PCI nell’uccisione di Don
Pessina ed i giudici hanno nel 1993 hanno restituito a Germano Nicolini
la sua onorabilità (ndr: e una cifra considerevole, ma non di tasca
dei giudici). Don Pessina invece non può ottenere purtroppo alcuna
revisione giudiziaria;rimane un martire della fede ed un esempio di
testimonianza per i sacerdoti e le generazioni future e deve essere
ricordato oggi, in occasione del sessantennio del suo sacrificio,ma
dovrà essere ricordato anche in futuro come modello di coraggiosa
coerenza nella fede nel Cristo risorto.
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MATTIOLI Don Dante, parroco di Coruzza (Reggio
Emilia), prelevato dai partigiani rossi la notte dell'11 aprile 1945 col
nipote.
PESSINA Don Umberto, parroco di San Martino di Correggio, ucciso il 18
giugno 1946 da partigiani comunisti.
RIVI Rolando, seminarista, vedi a fianco
TERENZIANI Don Carlo, prevosto di Ventoso (Reggio Emilia), fucilato la
sera del 29 aprile 1945 perché ex cappellano della milizia. Veniva
prelevato nei pressi della basilica della Madonna della Ghiara, a fronte
alla Prefettura di Reggio Emilia, da appartenenti formazioni partigiane,
Da una fonte riporto che:
Ufficialmente sono stati 729 i membri del clero italiano - dai vescovi
ai seminaristi, dai religiosi ai “fratelli laici” - morti a causa della
seconda guerra mondiale. 422 morirono prima dell'8 settembre 1943:
cappellani militari uccisi in combattimento, parroci periti sotto i
bombardamenti. 191 invece risultano morti durante la Resistenza, di cui
la maggior parte (158) trucidati dai tedeschi e 33 dai repubblichini.
Infine 108 furono le vittime dei comunisti: 53 caduti durante la
Resistenza, 14 immediatamente prima del 25 aprile e 41 dopo. Analizzando
le stesse cifre da un altro punto di vista, l'impressione di stranezza
non muta: a fronte di 57 sacerdoti morti in combattimento, infatti, di
31 defunti in prigionia e 18 nei campi di concentramento; di contro ai
265 religiosi morti durante i bombardamenti, ai 49 scomparsi in servizio
per malattia e ai 30 dispersi; ben 279 appartenenti al clero italiano
sono rubricati alla voce «assassinati per rappresaglia o per odio di
parte»: come dire che quasi il 40 % delle vittime belliche con la talare
non furono stroncate dai colpi diretti della guerra, bensì per motivi
più ideologici o addirittura «politici», che siano neri oppure rossi.
Per fare un altro paragone significativo, almeno in cifre assolute: i
decessi dei cappellani militari durante tutto il conflitto sono stati
148, mentre i parroci italiani morti violentemente furono 238 (più 41
viceparroci e 129 tra seminaristi, novizi e religiosi laici); quasi che
per i sacerdoti il fronte sia stato meno pericoloso dell'ombra del
campanile (del resto lo fu anche per la popolazione civile).
ALTRI
BARDET (Border) Don Luigi, parroco di Hone (Aosta),
ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani
dalle insidie comuniste.
BEGHE' don Carlo, Parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo
1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale
CALCAGNO Don Tullio - direttore di «Crociata Italica» (già scomunicato
per i suoi eccessi mussoliniani), fucilato dai partigiani comunisti a
Milano il 29 aprile 1945.
CAVIGLIA Don Sebastiano, cappellano della GNR, ucciso il 27 aprile 1945
ad Asti.
DE AMICIS Don Edmondo, cappellano, pluridecorato della prima guerra
mondiale, ucciso dai «gappisti», a Torino, sulla soglia della sua
abitazione nel tardo pomeriggio del 24 aprile 1945.
DOLFI Don Adolfo, canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il
28 maggio 1945 a torture che lo portarono alla morte l'8 ottobre
successivo.
DORFMANN Don Giuseppe, fucilato nel bosco di Posina (Vicenza) il 27
aprile 1945.
FASCE Don Colombo, parroco di Cesino (Genova), ucciso nel maggio del '45
dai partigiani comunisti.
PELLIZZARI Don Francesco, parroco di Tagliolo (Acqui), chiamato nella
notte del 5 maggio 1945 e fatto sparire per sempre.
ROMITI Padre Angelico, o.f.m., cappellano degli allievi ufficiali della
Scuola di Fontanellato, decorato al v.m., ucciso la sera del 7 maggio
1945 da partigiani comunisti.
SANGIORGI Don Leandro, salesiano, cappellano militare decorato al v.m.,
fucilato a Sordevolo Biellese il 30 aprile 1945.
SOLARO Don Luigi, di Torino, ucciso il 4 aprile 1945 perché congiunto
del federale di Torino Giuseppe Solaro anch'egli soppresso.
VIOLI Don Giuseppe, parroco di Santa Lucia di Medesano (Parma), ucciso
il 31 novembre 1945 da partigiani comunisti.
Nell'autunno del 1946 Enzo
Biagi parlava di "piccola Russia nella piana del Po", e aggiungeva:
"Qui
non vi è certezza di vivere, la tranquillità manca. I carabinieri fanno
il possibile e l'impossibile, ma la gente, gli osservatori, i testimoni,
si chiudono nel mutismo assoluto. Nessuno ha visto, nessuno ha udito".
II clima di quei giorni fu
sintetizzato nell'intervento alla assemblea costituente, almeno come
riferiscono i giornali, del deputato comunista Francesco Scotti,
commissario politico in Spagna: "Quei 300.000 li abbiamo
ammazzati noi, ed abbiamo fatto benissimo". Poi smentirà, accusando
i giornalisti di aver travisato le sue parole. Non smentirà invece
Pietro Nenni (Ma Pisanò, li fissò tra i 95 e 100mila) |
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IL CASO SCALFARO
Alla vigilia della liberazione, per contrastare quello
che ormai sembrava essere diventato il mattatoio Italia, il CLN decise di
costituire un tribunale speciale sulla falsariga di quello Fascista del
1926 (riepiloghiamo da Anpi Ass.Naz. Partigiani:
Il
Tribunale speciale fascista fu istituito nel 1926, con la legge n. 2008
[26 novembre], recante "Provvedimenti per la Difesa dello Stato". Esso
reintroduceva la pena di morte per gli attentati contro la persona del Re
e del capo del fascismo e puniva con sanzioni severissime ogni attività
politica contraria al regime. Tutti i partiti politici erano già stati
sciolti e messi fuori legge. Tale attività dunque, era bollata come
"sovversiva". Altra specialità di quel tribunale consisteva nel fatto che
il collegio giudicante non era costituito da magistrati, ma da ufficiali
della milizia fascista. Ciò non lasciava adito ad alcun dubbio sulla loro
imparzialità. Per il modo stesso della sua origine e della sua
costituzione, era un tribunale per il quale non valeva la norma generale
che "la legge è uguale per tutti").
Il decreto che istituì invece le Corti d'assise straordinarie (22 aprile 1945
n. 142 intitolato"Istituzioni delle Corti straordinarie di assise per i
reati di collaborazione con i tedeschi") aveva vigore per sei mesi e
sostituiva i tribunali partigiani in cui un dibattimento a senso unico
durava in media 2 ore. Furono istituite nei capoluoghi di provincia e nei
centri minori come Sezioni delle Corti. Al Cln, che aveva fatto fuoco e
fiamme per ottenerla, fu assegnata l'esclusiva della nomina dei giudici
popolari, tutta brava gente per la quale la colpevolezza degli imputati
era assolutamente fuori discussione: formazione delle giurie ("Art. 5 -
Entro sette giorni i Comitati di Liberazione Nazionale del capoluogo ...
compilano un elenco di almeno cento cittadini maggiorenni di illibata
(etimologia: Non toccato, intiero cuore incorrotto ed immacolato),
condotta morale e politica e lo presentano al presidente del Tribunale del
capoluogo... Il presidente del Tribunale, entro i successivi sette giorni,
compila l'elenco di cinquanta giudici popolari, scegliendoli tra quelli
designati dai Comitati di Liberazione Nazionale...".) Con le medesime
disposizioni fu previsto che le Corti fossero composte da un Presidente
nominato dal Primo presidente della Corte d'appello tra i magistrati di
grado non inferiore a quello di consigliere di Corte d'appello e da
quattro giudici popolari estratti in sorte dall’elenco. Il funzionamento
delle Corti straordinarie d'assise era previsto (art. 18) per la durata di
sei mesi: successivamente i processi sarebbero stati trasferiti alle
Sezioni speciali di Corte d'assise destinate a rimanere in funzione fino
al 31 marzo 1947. Con il decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio
1944 n. 159 il governo del Sud aveva già emanato una serie di disposizioni
dal titolo "Sanzioni contro il fascismo" che prevedevano da un lato la
punizione di coloro che per le cariche rivestite venivano considerati
responsabili dell'instaurazione e continuità del regime fascista,
dall'altro la punizione di coloro che avevano promosso o diretto il colpo
di Stato del 3 gennaio 1925 o avevano in seguito contribuito con atti
rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista, nonché di chi dopo l'8
settembre 1943 (art. 5) aveva commesso delitti "contro la fedeltà e la
difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o
corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore (...)". La competenza
veniva affidata per la prima delle suddette categorie di reati a un'Alta
Corte di giustizia e per la seconda categoria alla magistratura ordinaria
o militare secondo le norme vigenti. Il 22 aprile 1945, nell'imminenza
della liberazione, con decreto legislativo luogotenenziale n. 142 si
istituiva come detto le Corti straordinarie di assise a esse affidando
l'esclusiva competenza per tutti i reati di collaborazionismo come
definiti dal precedente decreto del 27 luglio 1944. Ai comuni omicidi di
strada si erano aggiunte le condanne a morte delle corti. Dal 25 aprile
1945 al 5 marzo 1947 vi furono 88 esecuzioni di collaborazionisti. Le
ultime tre fucilazioni ebbero luogo nel marzo 1947.
Matteo Dominioni da Intermarx rivista virtuale di analisi e critica
materialista: Le Corti d'Assise straordinarie si pronunciarono per un
numero di casi presumibilmente tra i 20.000 e i 30.000. Non erano veri e
propri tribunali popolari ma la presenza del popolo era significativa nei
processi per più ragioni: i fatti di cui erano chiamati a rispondere gli
imputati erano quelli più efferati e che maggiormente avevano formato
l'antagonismo della gente verso il regime nazifascista; le aule dei
tribunali molto spesso erano colme di persone che "animavano" i processi...
«Ogni proda è cimitero, in Emilia
e dappertutto». Lo
scriveva il prete "di sinistra" don Primo Mazzolari. E per molti anni,
dopo la guerra, tra i comunisti della pianura padana si sentì il sacrilego
motteggio, ogniqualvolta capitasse una scampagnata sul prato con lambrusco
e salame:
«Non mettere la mano per terra, potrebbe morderti!»...
«Se, dopo la
liberazione, ogni compagno avesse ucciso il proprio parroco, ogni
contadino il padrone, a quest'ora avremmo risolto il problema!».
Tanto bastò perché gli alleati dopo mesi di caos
imponessero un ritorno parziale alla giustizia
ordinaria. Per saperne di più "I conti con il fascismo" di Hans Woller
edizioni Mulino.
Dalla "Laudatio" in onore di Oscar Luigi Scalfaro pronunziata dalla
Prof. Elisabetta Galeotti, Professore ordinario di Filosofia politica
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università del Piemonte
orientale "Amedeo Avogadro", in occasione del conferimento della laurea
h.c., da parte della Facoltà di Lettere e Filosofia di tale Università,
avvenuto in Vercelli il 27 ottobre 2003, ... A conclusione del mio
intervento, riportando un episodio dell’esperienza da magistrato del
Presidente Scalfaro nel confuso (confuso per prof. Galeotti) periodo
successivo alla liberazione dei nazifascisti, episodio che sintetizza in
modo esemplare la sua etica pubblica. La vicenda si riferisce a quando
Oscar Luigi Scalfaro, giovane magistrato di 27 anni, si trovò nel 1945 a
far parte delle Corti di Assise speciali della sua città, Novara. Pur non
essendo originariamente nominato Pubblico Ministero, in una certa
occasione, per carenza di magistrati disponibili, si trovò a rivestire
questo ruolo per un processo complicato relativo a uno spietato assassinio
compiuto dalla polizia repubblichina. Si trattava di un crimine efferato,
accertato e ben circostanziato per il quale, seconde il codice penale di
guerra allora in vigore, veniva richiesta la pena capitale.
Il giovane
magistrato, contrario per principio e turbato dall’idea di dover chiedere
la condanna a morte, studiò l’incartamento a lungo e si consigliò anche
con un sacerdote laureato in diritto civile e canonico. Costui cercò di
sollevare dalle sue spalle la terribile responsabilità, ricordandogli che
la Chiesa riconosce allo stato il diritto di comminare la pena di morte in
casi particolarmente gravi. Arrivato il giorno del dibattimento, Scalfaro
presentò prima i fatti e le responsabilità, affermò che su di essi
poggiava la richiesta della pena capitale, ma continuò dichiarando la sua
opposizione ad essa e argomentando il perché. Aggiunse anche che se avesse
trovato un conflitto tra il dettame della sua religione e la pena di
morte, si sarebbe dimesso dalla magistratura, ma poiché la sua religione
l'autorizzava....andò avanti. Le condanne a morte ottenute da Scalfaro nel '45 sono
state 7 (sarebbe interessante conoscere la versione odierna del
laureato). Fra di esse quella dell'avv.Enrico Vezzalini pubblico accusatore
di Ciano al processo di Verona. |
Il Caso Fanin: Giuseppe, (coltivatori diretti originari di Sossano Vicentino: vivevano a Tassinara
di S.Giovanni in Persiceto (BO) dal 1910) secondo di dieci
figli, nacque l'8 gennaio 1924. Non rispose alla chiamata alle armi
della Repubblica Sociale, ma ciò non gli evitò un arresto, dopo il 25
aprile da parte dei partigiani con l’accusa di collaborazione coi
fascisti. Portati lui e il padre Virgilio nella sede del CLN furono poi
prosciolti da ogni sospetto. Giuseppe diplomato nell'Istituto Agrario di
Imola, fondò le ACLI dopo la costituzione della DC a S. Giovanni.
Nel
1946, in rappresentanza della corrente cristiana nella CGIL, partecipò
all'Assemblea preparatoria del Congresso della Federterra. Fu, come
altri, oggetto di incidenti e di tentativi di aggressione (le
cooperative di consumo bianche furono assalite e saccheggiate). Nei mesi
successivi all'attentato a Togliatti da parte di un giovane neofascista
(14 luglio 1948), fu tacciato, in un volantino della Lega braccianti di
S.Giovanni in Persiceto, di essere un "servo" degli agrari. Tanto
bastava per decretare la sua condanna a morte. La sera del 4 novembre,
mentre rientrava a casa in bicicletta, fu abbattuto a colpi di sbarra da
tre braccianti comunisti, su mandato del Segretario della Sezione del
PCI di S.Giovanni in Persiceto
(FONTE: Per Giuseppe Fanin
- Documenti - Nuova Universale Cappelli). |
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Il Caso Bottazzi "Beta"
Dal libro di Giampaolo Pansa "Il sangue dei vinti":
"Anche l'altro capo del gruppo si atteggiava a teorico. Era Beta, 23
anni, già seminarista di Don Tarozzi e poi studente universitario". La
Gazzetta di Modena descrisse Beta così: "Era magro, effeminato nella
voce, nel gestire, nel camminare. A volte aveva sul viso un' espressione
di sadismo e di follia". Dall'intervista di "Beta", indicato come
Dante Bottazzi nel libro di Ermanno Gorrieri “Ritorno a Montefiorino”, rilasciata
a TeleModena: «Non ho niente di cui
vergognarmi. Sono venuto qui in Croazia nel 1946, perché ero ricercato
dalla polizia. Ho cominciato subito a lavorare, poi mi sono laureato
all'università di Zagabria. Ho avuto anche il diploma di partigiano dal
presidente Pertini. E sono iscritto ai Ds e all'Anpi di Castelfranco
Emilia». «Il segretario di Castelfranco è una ragazza di 25
anni, Nadia Manni. Come poteva sapere?» spiegano in federazione (bastava
studiare storia). A dichiararsi è stato proprio Bottazzi, in
un’intervista ad Alessandro Smerieri e Maria Elena Mele, che l'avevano
cercato per una trasmissione rievocativa su Telemodena: «Ho la
coscienza tranquilla. Sono innocente. Sono tornato più volte al paese,
liberamente». «Ho sempre lavorato e tuttora lavoro per la giustizia
sociale. Questo mi ha spinto a reiscrivermi. Sì, sono
iscritto ai Ds».
Scrive ancora Gorrieri: «L’agricoltore Luigi Cavallotti viene spogliato,
derubato e poi strangolato con una fune. L'operaio Dante Schiavoni viene
trovato cadavere, con un biglietto al collo: "Eroicamente mi sono ucciso
per aver fatto la spia". Confusa con la vittima designata, il fattore
Leo Pesci, viene freddato per errore il diciassettenne Giorgio
Veronesi». Bottazzi non fu processato per le vittime di cui scrivono
Pansa e Gorrieri, uccise nel mini sotto-triangolo di 6 chilometri per lato Castelfranco-Manzolino-Piumazzo.
La condanna riguardò solo i tre casi predetti.
Così altri definiscono la banda Bottazzi
Radunavano in piazza Manzolino la gente ed
ammazzava seduta stante tutti quelli che la gente definiva "spie".
Capi temuti ed assoluti della banda (descritta dai giornali dell'epoca
come «un piccolo esercito di malfattori, pronti a battersi con cappi e
cartucce, contro le persone danarose, i benestanti, i padroni di poderi
in nome di alti principi sociali») due individui: Vittorio Bolognini
classe 1921 di Anzola Emilia, capobanda e Dante Bottazzi classe 1922.
Vittorio Bolognini, alto, capelli castani, elegante, istruito, gelido in
tutto, si era messo in testa di imitare Lenin e Stalin nell'instaurare
una Repubblica dei Soviet e considerava la proprietà un furto, i
possidenti reazionari e nemici dell'umanità, era stato comandante GAP ed
avendo causato nella zona di Anzola Emilia la presa e uccisione di molti
partigiani, dal CUMER venne condannato a morte. Si sottrasse
all'esecuzione andandosene in montagna Pavullo, Montefiorino, dove si
trovava la Brigata Garibaldina (cioè comunista) di Marcello e della
Santa Giulia, sotto il comando di Mario Allegretti. Un giorno, a Volta
di S. Martino di Polinago (provincia di Modena) uccise senza motivo e
solo perché gli era "sembrato dall'aspetto una spia" un partigiano.
Scampò alla morte grazie alla protezione del comunista Marcello,
comandante garibaldino che lo proteggeva. A quel tempo si faceva passare
per l'Aiutante Maggiore Generale delle SAP-Montagna incaricato da
Pedrazzi del PCI di Modena. (Nel gennaio 1952 ci fu la condanna di Rino
Covoni, Vittorio Bolognini, Dante Bottazzi, Giuseppe Stopazzini,
Bolognini fuggì dalle carceri di Bologna ed in seguito graziato dal
Presidente della Repubblica!). |
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Dante Bottazzi (1922), ex seminarista ed ex studente universitario
(beneficato da quel don Torrazzi di Riolo che sarà da lui ucciso). Era
magro, effeminato nell'andatura e nella voce, aveva un volto che
esprimeva sadismo e follia. Viaggiava in una Topolino nera detta
"l'auto fantasma". (Bolognini aveva invece una 1100 Fiat) Questa banda,
nel periodo di un anno, fu responsabile di 44 uccisioni, 22 incendi
dolosi, 130 furti di bestiame, innumerevoli estorsioni e saccheggi. Il
PCI di Modena, pur conoscendo tutto, non intervenne mai, al contrario.
Giorgio Morelli nome di battaglia "Solitario" (Albinea,
1926-Arco, 9 agosto 1947)
Il primo partigiano a entrare in Reggio Emilia, alle 16.30 del 24 aprile
1945, fu un cattolico: Giorgio Morelli, nome di battaglia «Il
Solitario». Si era fatto prestare una bicicletta da donna da Ermanno
Dossetti (fratello del più noto futuro deputato-monaco Giuseppe) ed a
cavallo dello scalcagnato mezzo si era spinto nella città ormai quasi
abbandonata dai tedeschi. Issato il tricolore sul balcone del municipio.
Era la tarda serata del 27 gennaio 1947 quando
Morelli, che rientrava presso la sua casa di Borzano, venne raggiunto da
due ciclisti, rimasti per sempre ignoti, che gli scaricarono contro ben
sei colpi di rivoltella. Le ferite inflittegli, che inizialmente
parevano non gravi lo portarono invece a morire nell'agosto successivo,
a soli 21 anni ad Arco di Trento. Le ferite gli avevano, per quei tempi,
irreparabilmente leso un polmone. La Nuova Penna (l'organo di stampa
edito a Costabona da don "Carlo" alla fine della guerra e stampato con
enormi difficoltà fino al 1947, dovevano stamparla dai Benedettini di
Parma, perché in provincia di Reggio nessuna tipografia poteva
permettersi uno sgarro del genere ai comunisti) si caratterizzò nel
denunciare le uccisioni che insanguinavano il territorio reggiano a
guerra finita ed altri omicidi avvenuti prima e che avevano riguardato
partigiani liberi ed indipendenti. Erano questi, per Morelli, atti
incompatibili con i veri valori della Resistenza che non potevano essere
macchiati da azioni criminali, vere e proprie vendette ed esecuzioni
motivate da fanatismo, da inaccettabili furori ideologici, da volontà di
sopraffazione politica. dal discorso del
Presidente del Senato Franco Marini pronunciato ad Albinea (RE) in
occasione della cerimonia di commemorazione dei partigiani don Domenico
Orlandini e Giorgio Morelli 7 gennaio 2008
Morelli, parlando con Eros: «Nel nostro ultimo colloquio hai pronunciato
queste parole: "Preferirei darvi un colpo di pistola che discutere con
voi!"». Auspicio che si realizza una sera di gennaio 1947; i colpi di
pistola del solito agguato però non uccidono l'intrepido cercatore della
verità MORELLI, che fa in tempo a farsi vedere a Reggio con addosso
l'impermeabile sforacchiato, a mo' di sfida e di memento. La morte
arriva il 9 agosto 1947, in un sanatorio del Trentino dove «Il
Solitario» tenta di curare la tubercolosi nata dalla ferita. Sul suo
diario è rimasta questa frase: «L'odio non è mai stato ospite della mia
casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica
forza che mi ha sorretto». |
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In Emilia-Romagna sono avvenute nella nostra regione più
di 500 stragi, con 4.500 civili e partigiani uccisi. Più di un terzo del
totale nazionale! Per quanto riguarda la provincia di Modena, risultano
127 uccisioni singole, 60 eccidi con 175 uccisi, 44 stragi con 580
vittime. I partigiani uccisi in combattimento risultano essere 703, gli
uccisi per rappresaglia 882. Per quanto riguarda i procedimenti presenti
nell’Armadio della vergogna concernenti Modena, risultano 42 fascicoli,
in prevalenza uccisioni singole, ma, in qualche caso, relativi a
rappresaglie collettive: è il caso degli eccidi di S. Matteo, Concordia,
Novi, Saliceto Buzzalino, Migliarina. Ci sono anche stragi: si tratta in
particolare degli episodi di Monchio, San Cesario sul Panaro, Mirandola,
Sant’Anna Pelago, Cibeno di Carpi. Claudio Silingardi - Istituto storico
di Modena |
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