Ovest

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La nave avanza verso ovest, forse l’alba già sta nascendo lungo orizzonte che si lascia dietro sull’oceano. Davanti alla sua prua l’oscurità è ancora fonda, impenetrabile. Le onde spumose, il rumore del vento coprono ogni altro possibile suono, distolgono da ogni possibile segno. Ma lui tende lo sguardo nel buio, in quella notte che dura da ore ed è un tormento per chi non riesce a dormire. Sta per finire, sta per vedere.

Si stringe il mantello pesante sulle spalle. Le sue labbra si serrano trattenendo un lento sospiro di fatica, di emozione ancora inesausta. Ha la bocca dritta, decisa, gli occhi cupi, febbrili. Li copre, con un gesto improvviso della mano, fasciata in un guanto di pelle chiara. Si sente stanco da giorni, ogni giorno si sente malato; ma aspetta. Sta là e aspetta di vedere a occidente.

Dormire gli è impossibile, gli è stato impossibile da quando ha lasciato l’Inghilterra. Perché lei è ancora là, da sola, lui l’ha lasciata, è scappato per evitare che le facessero ancora più male. Perché lui sa cosa fare adesso, può permettersi tutto, non ha paura di niente, e gli viene da ridere pensando a quando le collere di suo padre ancora avevano un piccolo potere sulle sue proprie decisioni.

E gli viene da piangere pensando invece alla voce tenera e lenta di sua madre, al timbro trattenuto delle sue parole, alle parole con cui l’ha accolto chiedendo il suo perdono, prima di abbracciarlo e singhiozzare contro di lui. Toccarla di nuovo, perdonarla come ottenendo invece lui stesso il perdono di lei, sentirsi di nuovo un bambino innamorato dei suoi capelli biondi, dei suoi gioielli e delle sue dita, e insieme sentirsi l’uomo che continuerà il suo destino, che saprà farlo. Torna in America per questo : per essere attore.

Candy: le deve in fondo tutto. Deve al suo coraggio immenso, profondamente nascosto dietro il suo sguardo lucente, tutto quello a cui lui si aggrappa in questo momento infinito che non vuole passare, questo momento che la notte gelida corrode, mentre con le onde senza numero l’oceano sembra assediare la nave. Candy l’ha riportato da sua madre, gli ha ricordato che vuole anche lui essere attore e nient’altro. Lei stessa gli ha reso il gusto delle parole pronunciate nei panni di un altro: lei che sempre gioca e si arrabbia per finta.

Per lei, sulla collina che nascondeva la scuola e li lasciava soli con Londra, lui ha recitato testi che aveva già letto mille volte: per farla ridere, per farla stupire, per piacerle. E piacendole, per ridere di nuovo anche lui, guardarla nella luce fresca di maggio. Sentire inavvertitamente la sua spalla contro al propria, immaginare di accarezzare il suo viso, di baciarla. Poi un giorno baciarla veramente: come Romeo nella notte che regala a Giulietta. Non resistere e baciarla, un attimo prima che lei si ribelli, un attimo prima che lei capisca. Baciarla davvero, per le altre cento volte in cui non ne ha avuto il coraggio. Sembra ieri, sembra adesso.

 

La porta si è spalancata. Albert lascia la frase a metà, parlavano di qualcosa di molto divertente; non si ricorda più cosa, mai più se ne ricorderà. La vede prima di lui, che è di schiena. Candy è sulla soglia con quell’animaletto ridicolo in braccio. Sorrideva forse, stava per fare una sorpresa: poi anche lei si è fermata, l’ha visto. Guarda fisso per un attimo oltre la spalla di Albert. Non si aspettava, non sapeva di trovarlo là, e che loro due si conoscessero.

«Candy! Che bellezza che sei venuta ».

Albert non si accorge di niente.

Lei si riscuote, e lui anche prima di lei : recupera in un attimo un piccolo sguardo di sfida, ma si sente improvvisamente commosso, più felice. Forse lei se ne accorge? Lo vede trattenere il respiro? Lei sorride con un po’ di resistenza.

«Ciao, Albert. Ciao…».

«La signorina-tutte-lentiggini!... Come va? Sei venuta allo zoo per rubare le banane alle scimmie?»

« Eh ? Ma cosa… ! Sei un maledetto… »

« Basta così, ragazzi ! Non sapevo che vi conosceste… »

« Ma come ! Non ti ha raccontato questa signorina che entra in camera mia di notte… Dalla finestra ? Volando tra gli alberi come Tarzan? »

« Candy, non mi dire che è vero? »

Albert ride. Lei invece per un attimo l’ha guardato seria. Era forse un segreto ? L’ha offesa ? Si pente di aver parlato così. Le parla sempre cosÌ. Ma è soltanto un attimo.

« Non è colpa mia se la finestra era aperta!»

Gli ha fatto una boccaccia finendo di parlare ; ora sorride. Come se avesse deciso di far andare bene quella mattina, quella giornata. Allora decide anche lui.

« Dai, siediti ».

« Sì, Candy, facci compagnia : c’è una bottiglia intera di sidro da finire!... Ah, ma come sta il mio amico Clean? »

Albert tende una mano e l’orsetto ridicolo balza a terra, gli si struscia sugli stivali. Albert si chiana ridendo. Candy lo guarda: guarda lui Terence, con animazione sospesa, come se stesse per chiedergli qualcosa.

Poi gli sorride: sorride solo a lui, Albert non può vedere. Sorride tranquillamente, con quella sua piccola aria edificante che lui trova comica. Sorride e sembra tante cose insieme : divertita dal suo stesso stupore di poco prima, adesso incoraggiata come se avesse appena scoperto qualcosa. Sorride perché forse è l’inizio, forse anche lei lo sa senza saperlo dire o capire. E lui ha voglia di baciarla, di parlarle, raccontarle, sentire con la mano i suoi capelli e le sue guance, la fronte e le braccia. Per questo la guarda, la guarda.

 

È disteso nell’erba alta. Sente la diverse campane della città richiamarsi nell’aria umida ; la funzione deve essere finita. Tiene l’armonica in una mano, tiene il braccio abbandonato lungo il corpo. La funzione deve essere finita ormai e quella massa di idioti vestiti di scuro starà lentamente ritornando alla scuola, per poi disporsi affrettatamente in tavolate un po’ lugubri, nella sala austera dei banchetti, sotto l’occhio sempre inferocito di Suor Grey.

Forse pioverà. Non ha voglia di niente. C’è un vento leggero ma freddo. Davanti a lui, sotto di lui, Londra è scomparsa in una nebbia senza luce. Lo scontenta sentirsi così : inutile, un rabbioso buono a nulla. Dovrebbe muoversi, andarsene : da lì, da Londra, dall’Inghilterra. Tornare nel paese di sua madre e avere coraggio : per una volta avere coraggio e provare davvero, la vita.

« Ciao ».

Lei si lascia cadere vicino a lui.

Rumore di stoffa e di riccioli biondi, di collo e lentiggini, di foglie e fili d’erba. Non si è girato a guardarla. Chiude gli occhi anzi : come per nascondersi.

« Ehi, ho detto… »

« Ciao ».

La piccola parola sembra rabbonirla; da un po’ di tempo hanno smesso le schermaglie continue. Forse tutti e due hanno voglia di andare d’accordo e forse tutti e due si sentono soli.

« Sono scappata, ho detto che non mi sentivo bene… Però adesso ho una fame!... »

Lui apre gli occhi, ma non la guarda e non dice niente. Vede le nuvole bianche, opache, che si muovono ma allo stesso tempo sembrano immobili.

Allora è lei che chiude gli occhi ; forse ha rinunciato all’idea di mangiare o di dire che ha fame, o soltanto di scherzarci. Si rilassa, pare abbandonarsi di più all’erba. Lui si gira e la guarda. Ha l’impressione di sentire la solitudine di lei, la sua tristezza, la paura di una cresciuta senza una famiglia, la paura rimangiata ogni giorno per anni. E lui, che si sente solo e triste, e inutile e ha paura, lui sente che però può servirle : che le fa compagnia di questa sua solitudine e tristezza, e paura.

Lei si muove come ci si muove nel sonno, un piccolo movimento lieve di tutto il corpo. Lui gira la testa, guarda di nuovo il cielo. Con dolcezza solleva il braccio, come per fare una carezza, come farebbe se potesse proprio in quel momento farle una carezza. Tiene l’armonica, la avvicina alla bocca. E con dolcezza prende fiato: come se respirasse contro i suoi capelli. E con dolcezza sospira contro il ferro dello strumento: come farà il giorno in cui le rivelerà un ultimo segreto.

E così comincia a suonare. Suona per lei. E crede che lei lo sa. E pensa ai pensieri di lei, per disperderli nell’aria già fredda. E suona poche note lievi contro la paura e la tristezza. E suona vicino a lei per dirle che non c’è più solitudine. Che c’è invece questo amore. Che è nuovo, che è per loro. E mentre suona, mentre ormai anche lui ha chiuso di nuovo gli occhi: lui ha perfettamente voglia di baciarla.

 

La nave spezza con fatica le onde. Le immagini, lui se le stringe contro nel mantello. Sente gli occhi brucianti, per il gelo battente, per lo sforzo di guardare il nero dell’oceano che sfugge lontano la prua. Ma lui sa che sta per finire, che sta per vedere. Sa che finirà, che vedrà. Perché dietro di lui, dietro alla nave, da qualche parte a est, la luce ribolle e sta per rinascere.

E mentre i suoi occhi sembrano rigarsi e cadere, le mani stringere il bavero nel gesto di un moribondo ; mentre nella testa si confondono i suoni, i ricordi, le parole a cui si aggrappa senza riuscire a pensarle. Mentre in uno stesso momento ha paura di addormentarsi e di svegliarsi lontano da là, imprigionato di nuovo da qualche parte. Mentre il nome di lei si scioglie nel fondo del suo cuore, del suo corpo, e non saprebbe dire se questo avvenga perché si mischia al suo sangue o se invece scompare per sempre. Intanto succede.

Un’ombra di luce più chiara schiaccia da qualche parte la notte. Investe da poppa il piroscafo che arranca sulle miglia previste. Con insistenza invisibile, l’alba screpola la forza del vento. Il suono violento dell’oceano si allevia. Le onde sembrano disporsi al nuovo spettacolo. E assopito contro una balaustra, lui improvvisamente lo sente, sente tutto questo. Improvvisamente sa che sta per finire: l’inferno del viaggio e dell’attesa. La pazienza di chi ha obbedito, di chi si è annoiato e si è disperato. Improvvisamente sa che sta per vedere. E vede.

Una riga persistente rimasta nera nel nuovo chiarore. Davanti a lui. Tende lo sguardo con dolore, con speranza. Una riga nera che trema impercettibilmente nel remoto incavo dell’ovest. Una riga nera che rimane e anzi sembra avvicinarsi.

Terra. La terra.

Lui si sporge, apre la bocca nell’aria irrespirabile e salata. Lascia andare i lembi del mantello e si aggrappa al ferro davanti a lui. Sente, sente come un suono: che quella riga nera è l’America. La sua terra. Che tra un’ora sarà il porto fumante  di New York City, mosso in tutte le parti dal suo grande meccanismo invisibile e potente. Che quella terra, quel paese, quel porto lo accoglieranno, e che appena il suo piede si poserà contro la loro pietra che lo ha aspettato, inizierà la vita. La sua. Quella in cui sa che vuole fare quello che voglia di fare. Quella in cui sa cosa dirà, come parlerà, che suono esatto avrà la sua voce. Quella che sarà il suo rimedio, il suo richiamo. E di cui Candy sarà la festa, il ritorno, il tesoro unico.

 

Grace88, 19 settembre 2006. (già pubblicato su EFP e su candycandy.forumfree.net)

Pubblicazione sul sito Little Corner/Vetrina del dicembre 2006

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Fine

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