Unsafe

Parte III

Tempesta elettrica

 

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Il fuoco crepitava. Si sistemò sulle spalle la coperta, ma non sfilò la mano dalla camicia sbottanata. Le dita scivolarono ancora sulla pelle più delicata e le sfuggì un sospiro nel pensare allo stesso gesto compiuto da lui. Un ceppo nel camino si spezzò e la distrasse. Rimase ferma e si diede della stupida. Dell’idiota.

Era passato troppo tempo per sopportare che non accadesse ancora. Troppo tempo per sperare che tutto non passasse sotto silenzio. Era passato il tempo necessario perché tutto fosse più difficile.

Guardò il vino nel calice intatto e s’interrogò per l’ennesima volta su come succedono le cose. Sulle loro cause. E si chiese per l’ennesima volta cosa rendesse naturale una sequenza di atti sconosciuti e temuti e quale fosse l’elemento che impedisce alla sequenza di interrompersi. La ragione, tanto decantata in quegli anni, non illuminava nessuna via però: la luce le sembrava venire solo dal bruciare del fuoco nella notte, dall’avvinghiarsi delle sue spire, dal fluire del calore con lo stesso ritmo… Chiuse gli occhi per non vedere le fiamme dibattersi fino alla morte nel camino e tentò di non pensare, di fare il vuoto nella mente.

“Potresti mettere direttamente la poltrona nel camino se riesci a sopportare un caldo del genere!” disse una voce e la face sobbalzare. André pensò che fosse per i ceppi che aveva smosso con forza nel camino per ravvivare il fuoco che si spegneva.

“Te l’ho detto tante volte che se ti siedi così vicina al fuoco poi ti raffreddi”.

“Dio! Mi sembri tua nonna a volte!” commentò senza molta voglia di parlare, stringendosi nella coperta, sperando che non si fosse accorto di quello che la camicia aperta lasciava intravedere. “Che rompiscatole! Ci manca solo che, come al solito, mi trascini sulla sedia lontano dal fuoco…” mormorò indispettita.

“Non ne ho nessuna voglia… non credo di riuscirci” disse lui. Si piegò stanco sulle ginocchia, davanti al fuoco. Le sembrò che riprendesse fiato. Le sembrò stanco e sottosopra.

“André, dove sei stato stanotte?!” gli chiese con la voce più gelida che poté. La pendola indicava che erano passate le tre. Non le rispondeva, rimaneva lì, di profilo ad osservare il fuoco.

“Dove sei stato?” chiese più dolce, accorgendosi che le stava montando nel cuore una strana gelosia.

“Nel solito posto. Ci ho messo un po’ di più a tornare a casa” le disse, voltandosi con la voce stanca.

Lei pensò di non aver visto bene, ma il cuore mancò un colpo e gli strinse il viso fra le mani.

“Che ti sei fatto? Chi è stato?” chiese terrorizzata, mentre la luce della fiamma svelava dalla penombra un taglio orizzontale, sporco di sangue, sullo zigomo. Lei non riusciva più a dire niente e vide le sue pupille dilatarsi leggermente alla luce della fiamma, in uno sguardo stupito e spaventato. Si toccò il viso e sulla mano c’era una macchia scura di sangue che lo fece sussultare.

Lei continuava a non parlare. Sul viso di André si dipinse una strana smorfia, la sintesi di mille sentimenti contrastanti nello stesso mentre. Negli occhi la luce di chi apprende di essere stato vicino alla morte più di quanto credesse.

 

Allungò la mano per prendere la salviettina, ma lei l’allontanò. “Lascia. Faccio io” disse, non avrebbe saputo con quale tono della voce. Gli inclinò delicatamente il viso in modo che la luce lo illuminasse ed iniziò a pulire la ferita coperta dal sangue che si raggrumava e sporca. Le stava venendo da piangere e così era impossibile nasconderlo. “Un attimo dopo… se non ti fossi voltato, una frazione di secondo e ti avrebbe colpito alla testa” pensò. Scelse di rimanere in silenzio, ma avrebbe voluto dirgli tante cose. Nemmeno lui parlava, seduto come se non avesse più forza, e distolse lo sguardo dal suo, poi si accorse che le stava tremando la mano.

“In fondo non è che un graffio” disse lui per rompere il silenzio e dissipare l’imbarazzo.

Era vero, era passato troppo tempo.

Non ebbe risposta e volse lo sguardo verso la legna che scoppiettava nel camino. Sentì una goccia sulla pelle – forse una lacrima? - e rimase senza fiato quando sentì le sue labbra sulla fronte. All’improvviso si rese conto che, la mano affondata fra i capelli, gli stringeva il viso contro il seno. Ne riconobbe i contorni. Le cinse i fianchi col cuore impazzito e rimasero così senza parole. La sentì tremare come quella notte. Tremare tanto che temé si sentisse male. Si alzò dalla sedia, ma lei ne approfittò per sciogliersi dall’abbraccio e dirigersi verso il camino.

Inutile farsi illusioni se il tempo è passato per cancellare tutto, come il mare sulla battigia. E rimase lì in piedi, deluso, con una cicatrice in più. Tutte le volte che credeva nella felicità, un minimo gesto, una frazione di secondo, cambiava tutto e lui rimaneva a gustare un sapore che ormai non era nemmeno più amaro: sapeva di vuoto e privazione. Sapeva di nulla. Ma c’erano cose che aveva sempre saputo ad impedirgli di allontanarsi da lei e cose che sapeva da poco e che lo consumavano.

Oscar si avvicinò al fuoco, sperando che asciugasse le lacrime e quello che si stava sentendo esplodere dentro. Posò le mani sulla mensola del caminetto e col capo chino fissò le fiamme. Sapeva bene quello che aveva appena fatto. Una lacrima cadde ancora ma, rapida, l’asciugò col palmo della mano. Schiuse le labbra per parlare ed attese di pronunciare le prime sillabe.

Le notti di Parigi stavano facendo a pezzi tutto: spezzavano vite a colpi di pugnale, a colpi di pistola, con quanto c’era di acuminato; disfacevano certezze, annodavano nel buio legami più stretti, impossibili da gestire per i cuori non abituati all’amore; era come se tutti i peccati inconfessabili sedimentati nel buio, le passioni fuggite dai propri recessi, spingessero ogni persona che camminava nella notte verso il proprio destino (1). Dalla notte in cui per sfida, per superbia, si era aggirata per quelle strade con la maschera sul viso, mille demoni avevano frantumato il vaso che li arginava.

“Allora… voleva proprio te. È qualcuno che hai già visto…? Se puoi ricordarlo… bisogna prenderlo…”. Ecco che riprendeva a parlare il soldato, ma solo le parole erano da soldato.

“Lo voglio prendere e avere la sua misera vita fra le mie dita, l’uomo che stava per togliermi un pezzo di cuore” pensava.

“Cosa vuoi che me ne importi ora” disse una voce vicina al suo orecchio. Sentì il respiro sul viso, il calore della sua presenza alle spalle. La mano scivolò lungo il braccio sulla sua mano appoggiata alla mensola e scoprì a piccole carezze il polso sottile sotto lo svolazzo della manica. Le sue labbra sulla pelle dietro l’orecchio e il contorni del corpo di lui aderenti al suo. Si sentì in trappola, ma non si mosse, lasciò andare un sospiro quando la strinse di più e il calore della sua bocca sul collo le  fece piegare le gambe.

“Avevamo detto che dovevamo parlarne… di cose come questa, ricordi?” le disse di nuovo a bassa voce nell’orecchio.

“Sì… sì… me ne ricordo…“ gli rispose, gettando indietro il capo ed offrendogli il collo e sentì dalla pressione del suo corpo contro il suo che la voleva.

“Perché me le lasci fare? Non devi parlare se non vuoi, ma dimmi solo questo” le sussurrò ancora e  con una mano lasciò una delle mani di lei intrappolate sulla mensola e iniziò ad accarezzarle lentamente un fianco. “Un tempo non me le lasciavi fare… quella notte in quel vicolo non sarei andato così oltre se non mi avessi toccato… mi hai toccato e non ho capito più nulla e tu non mi hai fermato… Oscar…” continuò a sussurrarle, ricevendo in risposta solo dei gemiti soffocati.

Il fuoco continuava ad ardere e le sembrava di impazzire fra il rumore sempre più assordante delle fiamme e il sussurrare delle voce di André. Il calore era più intenso. Sentì una goccia di sudore correrle lungo la pelle, fra i seni, sul ventre. “Oscar…” continuava a dirle e lei non riusciva a dargli una risposta. “Io ormai so come ti muovi, conosco le tue mani…” le disse ancora, a voce più bassa, ancora più vicino. Le sfuggì un sospiro che era un grido sommesso quando sentì la mano sotto la camicia che si era affrettata a chiudere, che prima la sfiorava piano e poi le si chiudeva decisa sul seno.

“Che vuoi fare?” disse a fatica, flettendosi indietro e cercando il suo viso, ma trovò le sue labbra. Il contatto leggero e caldo fu breve. “Tu… tu che vuoi fare?” le chiese.

“Quello che vuoi fare tu…” gli rispose, voltandosi per baciarlo e ad André sembrò di venire meno quando sentì, decisa e languida, la lingua di lei accarezzare la propria. Chiuse gli occhi e lasciò scorrere le mani tremanti sulla pelle umida.

 

Era stata l’alba con la sua luce debole dietro le tende ed il risveglio era sembrato irreale. Mai così caldo e tenero.

L’ingresso in caserma era sembrato un ingresso in gabbia, ma si respirava meglio: come se un'altra parte nascosta di sé avesse imparato a farlo e se ne riempisse i polmoni; e l’aria era piacevole, era piacevole anche se sapeva di gelata.

La osservò mentre si allontanava a passi decisi lungo i corridoi. Gli uomini si facevano da parte. La rispettavano e, in fondo, avevano imparato a temerla per il tono della voce, la decisione e le occhiate taglienti. Solo lui aveva sempre saputo che era diversa.  Ma forse prima di quella notte di sangue in giro per Parigi non aveva immaginato quanto. Sorrise nel vederla scomparire nel buio, con la massa luminosa dei capelli che oscillava sul mantello blu. Sorrise anche se tutto non era chiaro, era sfocato. Prese la strada delle camerate senza vederla. La percorse a memoria. Vedeva solo lei a pochi centimetri dal suo viso, lei che lo stringeva forte e gli sussurrava parole tenere nell’orecchio. Aveva detto quelle parole a lui. Proprio a lui.  Quando la sua mano lo aveva guidato si era lasciato sfuggire un grido. Ricordava che le sue gambe lo avevano circondato si era sentito al sicuro da tutto quello che lo aveva inseguito là fuori, tutta la notte, tutta la vita. Brividi e dolcezza. Poi calore ed elettricità gli avevano tolto il senso della ragione, mentre lei si inarcava contro il suo corpo trattenendo i gemiti, lo spingeva sul letto sfatto e una pioggia di capelli gli accarezzava la pelle. Forse la ragione lo stava abbandonando anche ora. Lo abbandonava ogni volta che ci ripensava.

“Ehi amico… André mi ascolti?”

Immaginare Oscar mentre lo amava e trovarsi di fronte la faccia sconvolta di Alain non era esattamente la stessa cosa, ma tornò alla realtà. Rimase disorientato per un attimo, poi capì a cosa si riferisse lo sgomento di Alain. Aveva sul viso un segno ancora rosso che la felicità gli aveva fatto dimenticare.

 

Oscar da dietro i vetri dell’ufficio lo spiava. Sempre tutto solo. Al massimo in compagnia di Alain. Sarebbe rimasta lì ancora un po’ prima di leggere i dispacci. Se nel suo studio vuoto arrossiva e tremava nel seguirlo con lo sguardo non aveva di che preoccuparsi. E poi chi avrebbe potuto dire che tremava al ricordo della sua bocca che le percorreva il corpo? Al ricordo di carezze che si confondevano con la pelle? Avrebbe potuto essere colpa del freddo. Erano un loro segreto parole e gesti. Sentì il sangue invaderle le guance ripensando al momento in cui, senza più riuscire a trattenere la voce, su di lui, tremando, aveva creduto di non poter più andare avanti; le aveva chiesto di non fermarsi, poi aveva sentito le sua braccia che la circondavano e il suo peso addosso, contro le lenzuola umide e ondate di calore ancora più intenso e poi scosse violente l’avevano percorsa mentre la stringeva. Ebbe un leggero giramento di testa a quel ricordo. Si impose di non pensare più, né al vicolo, né alla locanda, né a quello che era successo la notte precedente.

Lo vide parlare con Alain. Si capiva che parlavano della ferita. Sentì il cuore indurirsi e rinnovò un muto proposito di vendetta.

Guardò i dispacci. Pensò che un buon argomento cui pensare per riprendere servizio era sicuramente l’assenza del guardiano, negli ultimi tempi troppo solerte e sempre più fastidioso. La mattina entrando in caserma quell’assenza le aveva risparmiato la solita sensazione di disgusto. Non fece in tempo a sciogliere i lacci delle pergamene che il trambusto nel corridoio la distrasse.

Corse alla porta e l’aprì come una furia, temendo che stesse accadendo qualcosa di grave. Si trovò di fronte un ufficiale col pugno teso a mezz’aria nell’atto di bussare. “Che succede?” gli chiese.

“Il prigioniero, quello che avete preso a St. Antoine, sta agonizzando, dicono che abbia le convulsioni, comandante”.

“E per la miseria… chiamate il medico no?” gli urlò in faccia inviperita.

“Chiedevo permesso…”.

“Permesso! Temporeggiate con la vita di un uomo!” rincarò dirigendosi verso le celle ad ampi passi. Aveva fatto bene a non farlo rilasciare in quelle condizioni come aveva chiesto il generale Bouillé che immaginava sempre più livido dalla rabbia.

L’ufficiale con aria spaurita salutò e sparì nel corridoio.

“Il colonnello Daugoût. Svelto!” intimò a uno dei soldati che si trovavano nell’androne.

“Deve rientrare ancora da stanotte comandante” le rispose il ragazzino lentigginoso, sbarrando gli occhi e temendo una sfuriata.

“Che vuol dire?” chiese stupita.

“Hanno ucciso un'altra di quelle donne ed è andato a vedere con un manipolo di uomini. Dicono poi che siano scoppiati dei disordini… gente che parlava di libertà, diritti civili… o cose così”.

“E perché non ne sono stata informata?!” rispose, avvertendo una strana debolezza, il senso di malessere infinito che provava di fronte al sangue e a quel che le evocava. Il ragazzo si stupì del tono che gli sembrò benevolo.

“Era fra i resoconti sulla vostra scrivania comandante” le rispose.

 

Seguirono le notti in bianco.

Non quelle che avrebbero desiderato ogni volta che gli sguardi si incrociavano, ma notti trascorse all’addiaccio, in uniforme, sotto il cielo parigino. Trasalire al minimo rumore, ripetere lo stesso tragitto della ronda all’infinito fino all’alba, accompagnati da una nuvoletta di fumo. Lei avrebbe potuto risparmiarsi quel supplizio, ma preferì non farlo. Ma ogni notte sembrava uguale alla precedente: liti da bettola, percosse, furti… se andava bene. Cominciava a covare il timore di non spaventarsi più, di abituarsi a tutto quel luridume. Iniziò a temere il giorno in cui non avrebbe più sentito quella repulsione.

Il prigioniero era morto e loro brancolavano nel buio.

Oscar, stretta nel suo mantello, senza neanche più sentire il sonno che le pesava sugli occhi, in un’alba tetra come un antro immenso sotto la volta del cielo, doveva ancora capire se cercare due persone a cui farla pagare. O una sola.

André le porse una fiaschetta con del liquore. “Riscaldati un po’” le disse sottovoce. Prese i due cavalli per le briglie e guardò verso due compagni che, di spalle, chiacchieravano. Lei bevve qualche sorso e si asciugò le labbra arrossate dal freddo. Sentì gli occhi che le bruciavano e un po’ di calore in corpo. “Va meglio?” le chiese, stringendole la mano intrappolata nel guanto. “Sì, va meglio” gli sorrise e ricambiò la stretta. Guardò il taglio ancora evidente sul viso anche se meno arrossato.

“Se lo troverò promettimi che non mi chiederai un’altra volta di risparmiarlo” gli chiese a bruciapelo.

Lui rimase un po’ a pensare e la mano inguantata insinuò delicatamente un dito sotto la manica dell’uniforme, a sfiorare una piccola parte del polso. Lei vi posò sopra l’altra mano in attesa di una risposta. André volse uno sguardo ai compagni che si erano voltati ma continuavano a chiacchierare e l’intreccio di dita, per prudenza, si sciolse facendo finta di nulla.

“Posso garantirti che quella sera gli è andata già abbastanza male” le rispose cedendole le redini, con un mezzo sorriso e chiedendole di seguirlo un po’ più in là. Era abituato a fronteggiare la sua testardaggine. “Mi chiedo se c’entri niente con quest’altra storia…” accennò lei. “Non lo so, ma non può essere la stessa persona. Non so per quanto non potrà prendere un coltello in mano” le rispose. Poi continuò “Non voleva soldi secondo me e non era uno abituato ad ammazzare. Era spaventato quasi quanto me, ma non aveva nessuna intenzione di lasciarmi andare. Non me lo spiego”. “Non te lo ricordi neanche un po’?” chiese lei, seguendolo a passi lenti verso la strada per tornare in caserma. “No… no… non saprei dire, era quasi buio, io…”.  Io non vedo bene stava per dire, ma si trattenne. “Aveva un mantello nero… non saprei, ma aveva qualcosa di familiare forse nel modo di muoversi… Forse a furia di pensarci mi sto suggestionando. Non ne parliamo per ora”. “Va bene” annuì lei, procedendo e continuando a guardarsi la punta degli stivali. “Dopo la caserma torniamo a casa” aggiunse, sollevando leggermente lo sguardo e chinandolo di nuovo imbarazzata per i pensieri che le stavano venendo in mente. Lui le sorrise. “Intendo… Non ho rinunciato a capire cosa c’è scritto in quei fogli che hai trovato. Potremmo cercare fra i vari codici per cifrare i messaggi… questo insomma” si affrettò a precisare in modo piuttosto maldestro. “Certo” le rispose lui con lo stesso sorriso di prima. I due soldati erano ancora distanti. Alain se la prende comoda pensò. Voltato l’angolo di una strada laterale, quando fu certo che non potevano vedere, le prese la mano, le sfilò delicatamente il guanto e si portò il palmo alle labbra. Lei rimase senza parole per quel gesto, ma lo guardò con gli occhi che le brillavano. Chiuse la mano nuda fra le sue per riscaldarla e fissandola le disse: “Tu lo sai bene che ti amo… ed ogni giorno spero che quello che succede non sia un sogno, che non sia uno scherzo… ma se ti conosco bene, Oscar, tu non stai scherzando”.

 

Fuori nevicava e nel silenzio della notte si udiva ogni tanto una folata di vento che sferzava i rami degli alberi. La camicia le aderiva alla pelle sudata. Si rinfrescò lavandosi il viso e passandosi un panno bagnato sulla pelle. Dalla porta socchiusa riusciva a vedere André a torso nudo sul letto. I contorni del corpo rischiarati dalla luce delle candele. Si sistemò i capelli in fretta per tornare da lui al più presto. Ma, nel guardare quell’immagine che le era parsa bellissima, ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di triste e scoraggiato. Esitò con la mano sulla maniglia. Le era parso che, assillato da pensieri spiacevoli, il suo sguardo si fosse fatto più cupo. Le sembrò che non fosse felice. E questa sensazione la disorientò.

Lo raggiunse e lo cinse da dietro per le spalle. “Quanto ci hai messo. Mi sei mancata” le disse con un’aria imbronciata, che dissipò una parte dei suoi dubbi. Gli lasciò un bacio sulla guancia e gli chiese: “A cosa pensavi? Stavi pensando a qualcosa di brutto?”.

“No, perché?” rispose evasivo.

“Avevi un’aria triste…”.

“Macché…” protestò. “Vieni qui” le disse facendola sedere di fronte in modo che le gambe gli circondassero i fianchi. “André è un interrogatorio… confessa” insisté rispondendo all’abbraccio e poi sollevandogli il viso in modo che la guardasse negli occhi.

“Nulla di importante… a volte… ti tornano in mente certe cose che non ti saresti aspettato” rispose a voce bassa, cedendo. Oscar aspettava con le mani posate sulle sue spalle. In parte provava una sensazione di paura. Forse l’insicurezza messa da parte l’aveva fatta aprire tanto da esporla di nuovo al dolore. Fu un pensiero di un attimo e basta, perché lo sguardo che André aveva per lei era quello che aveva sempre conosciuto. “Raccontami tutto” gli disse, lasciandogli scivolare le mani sul torace.

“Ti ricordi che quando eravamo ragazzini tuo padre fece ristrutturare le scuderie?”.

André si chiese per quale motivo avesse iniziato a parlare. Ma ormai non poteva fare a meno di continuare.

 “Sì, mi ricordo” annuì, rivedendo scene sfocate in brandelli di memoria. Il verde del parco e la grande struttura sorretta da impalcature, baciata dal sole, che appariva dopo una corsa a perdifiato alla fine del viale.

“Non stavamo più nella pelle ed ogni giorno prolungavamo l’intervallo della lezione del precettore per andare a spiare come andavano i lavori. Ci eravamo messi in testa che nelle nuove scuderie avremmo potuto ospitare un’intera mandria di cavalli arabi…” si interruppe un attimo al sorriso di Oscar e poi continuò “Ti ricordi che bacchettate sulle mani per quelle fughe? Andavamo lì e perdevamo la nozione del tempo, immaginavamo quel che ci sarebbe stato dove c’era il vuoto… però… a volte ritornavamo a casa di corsa… senza che nessuno dovesse venire a cercarci minacciandoci con lo scudiscio… Ricordi il motivo?”.

Oscar rimase interdetta. Sperò di ricordare male.

“Tornavamo a casa per lo spavento, per non stare più lì…”. Oscar tentava di non perdere una sillaba e continuava a fissarlo. Le sembrava che guardandolo negli occhi le immagini scorressero più nitide; aveva paura di capire dove fosse, fra quei ricordi, il dolore che aveva intravisto.

“Tutte le volte che fuggivamo via era perché avevamo incontrato un uomo, uno degli artigiani. Aveva sul viso una lunga cicatrice… fuggivamo via e dicevamo che era un assassino, che mangiava carne umana…”.

“André… André” intervenne allarmata, stringendoselo contro. Aveva capito. “Da bambini eravamo due pesti crudeli, che vuoi che importi…”.

“Importa Oscar. Importa. Perché ormai mi guardo allo specchio e non mi riconosco, non sono più io… So che un’altra persona avrebbe paura… ma non puoi fare nulla… ed è anche abbastanza sciocco che te ne abbia parlato. A volte vedo gli sguardi e le reazioni degli altri… Non è una questione di apparenze… non credo… però a volte mi succede quando mi vedo…”. Si bloccò in tempo prima di accennare alla vista.

Non sapeva con quali parole, ma doveva trovare un modo per dirgli che per lei non era così. Era sempre lui e poi quel taglio si sarebbe assottigliato fino a diventare una cicatrice bianca. E poi lui sarebbe stato sempre André. Gli scostò i capelli dal viso, guardandolo negli occhi. I tratti del viso erano cambiati con gli anni, eppure erano rimasti sempre gli stessi. La cicatrice lasciata dal proiettile sullo zigomo destro le sembrò un po’ meno evidente. Gli accarezzò il viso e si sentì strana quando pensò che lo aveva conosciuto quando non aveva neanche un po’ di barba. Forse lo sguardo durante gli anni era diventato più triste di come se lo ricordava da ragazzo, ma la luce era sempre la stessa. Però, si sentiva colpevole, le si stringeva ancora il cuore, alla vista del segno spietato che gli attraversava l’occhio e l’iride opaca.

“Quello l’ho scelto io e non me ne pento” le disse, capendo a cosa pensava. Lei strinse le labbra come per dire ho capito, non parlo. Posò delicatamente le labbra sull’occhio ferito, poi su quello sano e sulla bocca. “Io dico che vedo sempre André” gli disse sottovoce, allontanandosi impercettibilmente. “Dico che, da egoista, sono felice di questa cicatrice sullo zigomo, perché, se non ci fosse, saresti morto e mi avresti lasciata sola in questo inverno e…” poi si morse un labbro perché le sfuggì una lacrima.

“Sono proprio stupido vero?” fece lui con aria affranta, spingendole, con la mano affondata fra i capelli, il capo sulla sua spalla. “Non voglio farti piangere” le disse nell’orecchio, mentre la cullava. “Lo so che anche tu hai delle gran belle cicatrici, ma ce le hai quasi tutte in testa… de la Motte… Chatelet…” le disse giocando con una ciocca di capelli. A Oscar, fra le lacrime, scappò anche una risata. “Sì, sei scemo” commentò, asciugandosi con un dito una lacrima. “Ne ho anche altrove, se ti va ancora di controllare…” aggiunse allusiva sfilandosi la camicia e spingendo le sue mani ad accarezzarla. La fece stendere e iniziò a percorrerle le pelle con piccoli baci, che diventavano più caldi quando la sentiva tremare più forte. A un certo punto si fermò come se avesse visto qualcosa che prima non aveva notato: le prese la mano e le girò il braccio in modo da vederne la parte interna. Sull’omero, nella parte interna, c’era un lungo segno bianco e lucido. Rimase fermo a fissare quella cicatrice. C’era veramente.

La ferita al braccio che sanguinava e lei che offriva la propria vita in cambio della sua gli tornarono vivi davanti agli occhi. Il giorno in cui aveva sperato per la prima volta che lo potesse amare era esistito veramente.

 

Seduta al tavolo dell’anticamera si stiracchiò sulla sedia fino a sentire che la stanchezza si scioglieva e scivolava via per un po’. Si ricompose in tempo per vedere che André finiva di contorcersi in uno sbadiglio. “Sto perdendo le speranze. Ma cosa mi sono messo in testa!” esclamò a mezza voce, posando le mani aperte sui brandelli di carta sudicia che rimanevano incomprensibili. “Poteva conoscere o non conoscere la persona che gli ha passato il biglietto, ma, se è riuscito a leggere questa cosa, sicuramente conosceva chi l’ha scritta e forse è chi l’ha avvelenato” commentò André; poi si passò le mani sugli occhi lacrimanti per lo sbadiglio. “Che c’è?” chiese con un sussulto, vedendola con gli occhi sbarrati e le parole sulle labbra. “André… e se non l’ha letta?” domandò con una manata sul legno del tavolo. “No ti prego!” supplicò chinandosi e posando il capo sulle braccia conserte. Sopraffatta dal sonno e dallo sconforto cercò di cancellare quell’ultima frase. Ci pensò un po’ mentre la pendola marciava rumorosa nel silenzio che aveva sommerso la stanza. “No… se non l’avesse letta non l’avrebbe strappata… dormi tranquillo”. Ma André sembrava già addormentato, fra le scartoffie e i vecchi tomi militari che non avevano svelato nessun metodo valido per decifrare quel codice. Si sarebbe addormentata anche lei pensò, posando il capo sulle braccia conserte.

Gli sembrò di intravedere nel vano della porta l’immagine di suo padre che li osservava. Il sonno lentamente la intorpidiva e pensò che, sicuramente, doveva sentirsi rincuorato dal vedere come avevano trascorso quella serata, che neanche lontanamente si poteva paragonare a quello che di loro si sussurrava nei palazzi.

Ma neanche le notti d’amore lontanamente si potevano paragonare a quello che di loro si sussurrava nei palazzi.

Le ombre lunghe sui muri della stanze le ricordarono il mare della notte là fuori. Un mare senza confini pensò, guardando il capo di André abbandonato dall’altra parte del tavolo. Oltre le tende e le porte. Era bene che la notte rimanesse chiusa fuori. Certe notti.

 

 

Era giovane. Ma aveva quell’età in cui le puttane sono già vecchie. Attendeva con la schiena curva, una mano premuta sul collo e l’aria di faticare a respirare e a socchiudere gli occhi anche per un attimo.

Quando Oscar varcò la soglia di quel luogo a passi decisi, lasciando oscillare il mantello che si portava dietro il freddo della neve, con aria incredula la sconosciuta le domandò : “Ma voi siete una donna?”.

“Sono un militare. Per voi non fa differenza” le rispose, sbrigativa e decisa, mentre con la mano scrollava dal mantello timidi fiocchi di neve. Conservava un’espressione corrucciata e stanca ma il fatto di doversi confrontare con una donna viva e non con un cadavere le avevano restituito un minimo di speranza. Le venne il dubbio, a quella domanda, che il fatto che fosse una donna da qualche tempo si notasse di più e istintivamente incrociò le braccia sul seno. Forse per nascondersi. Poi si chiese perché lo aveva fatto, mentre la squadrava dall’alto in basso preparando le sue domande.

“Qual è il vostro nome?”.

“Danielle la Cuisse au Soie…” rispose la donna (2). Come se il nome che sciorinava fosse un elenco.

Oscar alzò un sopracciglio imbarazzata dall’appellativo con cui la donna si era presentata. Guardò gli occhi sbarrati e la posa stanca di un corpo che non era certo leggiadro: ossa grandi e corporatura squadrata per essere una donna. Aveva un atteggiamento dimesso. Se non fosse stato per l’abbigliamento fuori luogo non si sarebbe detto che era un’adescatrice.

“Siete ferita?”.

La donna scostò la mano dal collo taurino e mostrò un piccolo taglio. Oscar chiuse gli occhi e li riaprì di fretta per paura di vedere, fra le sue paure, quella donna segnata da un taglio più netto sulla gola ampia.

“Danielle… ho bisogno di sapere esattamente cosa è successo. Chi è stato?”.

“Mica li conosco tutti quelli che mi si fanno…”.

Oscar si sentì a disagio per il linguaggio della risposta, ma non le doveva importare.

“Era uno che ha detto quanto vuoi come gli altri, gliel’ho detto, ha detto va bene e che voleva fare cose strane che piacevano a lui, tipo un bel…”.

“Ferma! Basta… qui. Non mi devi dire proprio tutto” la bloccò, mostrandole decisa il palmo della mano, mentre notava l’interesse crescente dei soldati alle spalle della donna.

“Voi due” fece indicando i due uomini. “Fuori!” intimò secca. I due si guardarono negli occhi, allargarono le braccia, ma un’altra occhiataccia li spinse ad abbandonare la stanza.

“Allora” chiese di nuovo Oscar, rimasta sola con la donna.

“E allora io gli ho detto che gli potevo fare…”.

“No! Ascoltate…” la interruppe di nuovo. “Siete riuscita a vederlo in viso quest’uomo? Me lo sapreste descrivere?”.

“No. Non l’ho mica visto… aveva una maschera. Una maschera grande, di quelle che coprono anche la bocca. Gli ho visto altro, gli ho visto il…”.

“Sentite… no… scusatemi…” si forzò di dire, capendo che la doveva lasciare parlare.

“Voglio dire che insomma… la faccia non l’ho vista. Ma s’è calato i pantaloni ed era tutto pieno di macchie… rosse… blu… uno schifo…” disse in una smorfia, aumentando il volume della voce.

“Come… macchie?”.

“Ehi… io non sono dottore, comandante, ma quello era un vecchio spelato, e se non era vecchio lo sembrava, zeppo di malattie, ed io sono arrivata fino ad ora senza grandi fastidi e non mi andava proprio di fottermi il futuro che mi sono guadagnato a farmi cessi una sera dopo l’altra! Fra un anno o due posso prendere due ragazzine o tre, riposarmi ed aspettare che facciano loro il lavoro… Non ho faticato per fare questo lavoro di merda a vita!”.

Oscar la guardava e capiva di non poter capire.

“Cos’avete fatto?” chiese, forzandosi a non gridarle contro il disgusto che montava dentro a quelle parole.

“Gli ho detto di fare da sé, se era combinato così. Che non avrei fatto un bel niente anche se mi pagava con monete d’oro e diamanti, allora quella carogna fetente s’è girata allo scagnozzo che faceva la guardia ed ha detto con aria da scemo “Un'altra. Un’altra ancora. Un’altra gemma”.

“Come dite?”.

“Questo ha detto il figlio di troia! Non sto scherzando! E mi ha puntato il pugnale alla gola mentre lo scagnozzo si faceva da parte… sono morta di paura… ma era molto meno forte di me - quando ero ragazza ho picchiato diversi stronzi, m’hanno sempre rispettato qui! - e l’ho spinto via. Gli avrei spaccato il grugno se non fosse scappato, se non fossi ingrassata tanto l’avrei rincorso preso e gli avrei rotto…”.

“Va bene. Ho capito… sono fuggiti quindi. L’altro ve lo ricordate?”.

“Aveva la maschera pure quello”.

Oscar rimase ferma a riflettere. Dall’alto vedeva la donna nerboruta che, nonostante i proclami continuava a tremare e a far ruotare i suoi occhi spalancati. La stanza era squallida e maleodorante. Dell’acqua colava molesta in un catino ed altri rumori sommessi di esseri notturni impedivano un silenzio perfetto, fatto per pensare. Per capire.

Forse erano chiare molte cose, ma la sua mente ne seguiva incredula altre.

La gente in quel buio ammorbante comprava con l’oro qualcosa che lei legava all’amore. Ma cosa c’entravano le pulci sulle lenzuola, l’acqua putrida nel catino, il rumore di denti di topo, lo spiffero di vento gelato, gli orinali maleodoranti sotto il letto, le rughe forzate su un viso ancora giovane? Cosa c’entrava tutto questo dolore fatto materia con l’amore?

“Danielle… siete stata fortunata lo sapete?” disse con una voce inaspettatamente dolce.

La donna curva con la mano sul collo e il suo sguardo fisso e inafferrabile non parlava.

“Vi manderò un medico” le disse spostandole la mano dalla ferita per guardare meglio in quali condizioni fosse.

“Per me quello stronzo, con la sua cappa morbida e il cappello piumato era un nobile!” disse ad un tratto con gli occhi iniettati di sangue che sembrarono ancora più fissi. “Ed è un altro buon motivo per pregare Iddio che muoia al più presto!” ringhiò come una belva.

Continua...

Mail to sydreana@supereva.it

1)      Retaggio dell’ανάγκη di “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo.

2)   Tradotto Danielle la Coscia di Seta.

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