Rumore d'ali

(De insania)

Parte IX

 

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“Questa città annega senza il mare”.

Era la voce di André che parlava a se stesso sotto la pioggia. Era vero, annegava senza il mare, sotto la sferza di una pioggia ormai poco convinta. Sottile e dubbiosa, come certe piogge di marzo che vengono giù dal cielo mentre il sole splende.

Gli amanti del candeliere fra le mie mani mi fissavano come se volessero raccontarmi una storia triste, ma le bocche serrate dal metallo non parlavano. E poi lo sguardo di André, che ogni tanto abbandonava la strada per cercare me, chiedeva di non interrogarli.

 

Ce ne andiamo André. Abbiamo lasciato tutto. Ho lasciato il violino. Tu hai lasciato i pennelli e mi chiedo cosa manchi ancora a quel ritratto. Gli occhi…? Lo sfondo…?Ho paura di non scoprire come mi vedi.

 

Ma ce ne andavamo, mentre Parigi affogava per la millesima volta sotto la pioggia lieve.

Fluiva la pioggia, portandosi dietro l’urina dei vicoli e l’immondizia degli angoli, ma aveva scoperto che la città era impossibile da purificare. Per questo era lieve, la pioggia.

La strada scorreva sotto le ruote e ci allontanavamo dai morti ammazzati lungo le strade. I tipografi clandestini e gli altri ribelli, Pierre, Jeanne e le altre puttane. Non ci allontanavamo dal pensiero che potevamo esserci anche noi su quel selciato… lo sapevo quando mi tornava in mente l’ubriaco di quella sera e mi chiedevo se si fosse mai rialzato.

Alle nostre spalle misteri insoluti, ma nessun rimpianto che non fosse certo.

 

Rosalie partorirà con dolore, lontana dal suo uomo, con il rumore di questi aerei nel cielo e la pioggia. Victor è là, fra le lenzuola, a tentare di prendere in giro tutti, suppongo… perché non ho voluto neanche per un istante allontanarmi dalle mani André.

 

 

              ЖЖЖ                       

 

Il viaggio…

L’unico vero viaggio della mia vita non era solo un viaggio verso un luogo. Temo di non ricordare tanto… Non quanto vorrei.

Ricordo il freddo sulle dita, la paura, i sospetti e le giornate tutte uguali eppure diverse.

La MG che ingoiava la strada e la benzina che finiva, lasciandoci disperati lungo percorsi sconnessi e pronti ad inventare nuove bugie.

L’acqua e il cibo che non bastavano mai.

Le sere lucide e blu che scagliavano sulla volta del cielo stelle simili a ragni elettrici, mentre ci abbracciavamo nell’ombra.

Le pistole sempre cariche che pesavano sul fianco.

Le fughe improvvise e i rovi che si aggrappavano alle vesti.

Ricordo che correndo verso sud non piovve mai e nell’aria volava profumo di polline.

 

No… Piovve solo una volta. Me la ricordo… E quella volta fu sempre più chiaro che non era solo un viaggio verso un luogo diverso. Non un viaggio verso una lotta diversa.

 

Quella sera il temporale spazzava la strada e dal parabrezza non si vedeva nulla. Non potevamo continuare il tragitto fra il fango e gli smottamenti. Eravamo vicini alla frontiera con la Repubblica di Vichy.

Non so cosa possa essere stato a svelarmelo dopo tutto quel tempo e perché incominciassi a sentirlo in quegli istanti. Se fu il fulmine che illuminò il suo volto mentre cercava una soluzione; se fu quella ciocca di capelli che gli scivolava sullo sguardo mentre si teneva il volto con la mano, come se gli facesse male, e tentasse di comprimere il dolore. Lui che sapeva sempre cosa fare.

L’acqua grigia picchiava sulla carrozzeria e, nell’ombra del diluvio, sentii chiaramente, come se ne potessi scorrere i contorni acuminati con le dita, che André si portava dentro un’ansia di cui non mi parlava.

Quella sera spendemmo parte dei nostri pochi soldi in una pensione, con documenti falsi e storie  falsissime.

Un uomo dai lineamenti da donna, taglienti come lame e dai capelli lunghi e chiari, ci osservava da dietro il bancone con un sorriso crudele che gli stirava le labbra sottili. Aveva gli occhi gelanti e incolori come quelli degli angeli della morte. Mi infastidiva guardarlo e mi voltai dall’altra parte. André lo trattò con freddezza, riducendo al minimo le parole e non gli rispose quasi quando ci chiese se ci piaceva ascoltare la radio. Quando ci allontanammo con le chiavi scoppiò in una risata che mi fece accapponare la pelle.

Serrai nella mia mano le dita di André, lungo le scale ripide e tappezzate di un rosso consunto. Lo scoppio di risa soffocava nel rumore della pioggia. Mi sembrò, per un attimo, di essere di nuovo a Parigi.

“Temporale e albergatore pazzo… avresti chiesto di più se ti avessi proposto una serata indimenticabile?” sdrammatizzò lui, ricambiando la stretta della mia mano. Il sorriso che gli rischiarò il viso mi illuse che quell’ansia, di cui avevo sentito i contorni sfuggenti, fosse una mia illusione e continuammo a salire su per i gradini stretti e alti.

Doveva essere un pensiero sbagliato. Non era durato che pochi attimi e lo avevo spento.

 

Durante la notte mi svegliò una voce metallica e nota. Tentai di afferrarla riemergendo dal sonno fra le braccia di André. Lui era sveglio, vidi i suoi occhi nel chiarore che entrava dalla finestra, e mi posò un dito sulle labbra, chiedendomi di rimanere in silenzio.

Radio Londra ad alto volume in piena notte: una delle cose più incoscienti che si potessero fare al mondo… dopo l’ingravidare Rosalie e darsi alla macchia. La voce veniva dal pian terreno ed arrivava alle nostre orecchie, nel letto in cima alle scale.

“Hai ragione… questo è pazzo…” dissi sottovoce, scuotendo la testa.

“Ma almeno è dalla nostra parte” sospirò André.

“Sì… ma non ci fa dormire!”.

Rumori di scarpe a pian terreno e di mobili spostati. Scoppi di motori e voci che parlavano in dialetto, mentre i passi turbavano le pozzanghere. Un uccello notturno lanciò il suo canto nel buio fra il fruscio dei rami e il vento.

“Anche l’uccellaccio…” aggiunse André sconsolato, mentre avvicinava il volto allo spiraglio fra il vetro della finestra e lo scuro. Io ero seduta al centro del materasso con i capelli che mi piovevano davanti agli occhi ancora socchiusi e cercavo di capire cosa succedesse.

Uno sparo e trasalii. André si allontanò dal vetro. Grida e ancora rumori.

“Che diamine…” riuscii a dire.

Richiuse lo scuro. Fuori le urla modulate dal vento. La pioggia non aveva mai smesso di piangere sui tetti.

“Sono pazzi… chiudi a chiave la porta…” disse afferrandomi un polso.

“Che cos’è successo?” chiesi tremando e precipitandomi a girare la chiave nella toppa senza vedere.

“Il tipo del bancone ha sparato ad uno dei compagni… fra loro… o forse ci sono degli infiltrati… Vestiti! ”.

“No… no… come facciamo ad andarcene? Se ci vedessero cosa penserebbero? Non credi che daremmo nell’occhio? Se sono maquisards crederanno che abbiamo qualcosa da nascondere…”.

“Sì… sì… hai ragione. È meglio fare finta di niente… se non fossero tutti maquisards e scoprissero le balle che abbiamo raccontato, faremmo la stessa fine di quello… facciamo finta di nulla…”.

“Facciamo finta di nulla… Non è prudente André” supplicai con le mani che mi tremavano nel cercare le sue.

“Sì”.

Spiai verso il basso schiudendo lo scuro. Davanti alla porta della pensione c’era una scia bruna che costeggiava la parete. L’uomo del bancone, lo riconobbi dalla corporatura e dalla voce, con un passamontagna sul viso, si chinò a raccogliere uno scarpone che era rimasto sul suolo e lo lanciò in un cespuglio ridendo. Gli altri uomini si allontanavano e, fra le gocce di pioggia e il vento e il rombo dei motori, moriva quella risata crudele che li incitava ad accendere i motori e a vendicarsi dell’oppressore.

“Domani ce ne andiamo… non mi importa se diluvia o grandina… Andiamo via da qui…” disse André con un tono esasperato, riaccostando lo scuro. Fu buio pesto attraversato da un chiarore lieve. Mi diressi incespicando verso il letto e per errore urtai il candeliere che cadde a terra lanciando un urlo di metallo.

“Oscar…” disse con mio stupore, bloccandomi la mano che tentava di raccoglierlo.

“Oscar…” ripeté, mentre col polso nella sua mano tacevo.

“Hai capito verso cosa stiamo andando? … Lo hai capito?”.

Non lo avevo capito veramente. Non lo avevo capito. Non era solo il profondo sud della Francia. Non era solo un luogo. Non era solo una battaglia. Per questo non gli risposi, perché intuivo solo quello che realmente non era. Per questo non gli risposi. Avevo la sensazione che non si riferisse solo a quello che era accaduto là fuori.

Mi appoggiai in silenzio al suo petto lasciando scorrere le mie mani sulla sua schiena.

A quella mancata risposta il suo respiro tornò regolare ed ancora una volta spingendolo sul letto mi costrinsi ad illudermi che non ci fosse nulla a tormentarlo.

Il candelabro rimase per terra e le dita della pioggia tamburellavano sui vetri. Fuori chissà cosa succedeva nella boscaglia torbida. Chissà noi verso cosa andavamo.

Cercai di ingoiare ogni dubbio aggrappandomi a lui sotto le coperte.

 

Tu lo sai… continuavo a dirmi.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Prima della frontiera fummo costretti ad abbandonare la MG nella boscaglia. Era l’auto delle nostre prime avventure da irresponsabili. Non avrei mai voluto, ma non c’era scelta.

Strisciammo col cuore il gola dall’altra parte. Col sole che feriva la vista trafiggendo il fogliame e l’odore denso di terra bagnata nell’aria sentii che ora davvero non si poteva più tornare indietro.

 

 

ЖЖЖ

 

Il treno merci tremava sui binari che si snodavano verso sud. Rumori di legno e ferro si mischiavano.

Non c’era più aria, solo odore: un odore forte di chiuso, di muffa, di bruciato, di cibo vecchio e legno marcio. Odore di paura.

Non c’era più luce. Solo una traccia bianca rettangolare lasciava intendere dove si aprisse la porta. Era così labile che ad ogni scossone i miei occhi stanchi la perdevano di vista. Ad ogni fermata da quel barlume scorrevano nel vagone parole in tedesco.

Abbandonati, inerti dietro le casse, fra i sacchi, con le gambe rannicchiate. Il viaggio ci consumava.

Pensai ai tetti di Parigi oltre gli alberi del parco, dal riquadro della finestra della mansarda di André. Alla Tour Eiffel che spaccava all’improvviso l’orizzonte nel volo nero degli stormi.

La bocca bruciava come sabbia rovente. Ogni volta che deglutivo temevo che si aprisse una ferita nella gola e rimanevo ferma, trattenendo il respiro e maledicendomi per non aver bevuto un sorso in più prima di partire. Solo un sorso, ne ero sicura, avrebbe fatto la differenza.

Avevo smesso di avere fame ed ero sicura di non avere più un corpo. L’unica cosa che mi ricordava di essere viva era ascoltare il battito regolare del suo cuore, con il capo incollato al suo petto che oramai era il mio cuscino.

Col capo reclinato di fianco offriva ai miei occhi immobili, abituati al buio, la linea slanciata del collo. E immaginavo di riuscire a muovermi per posare le mie labbra dove la pelle diventa tenera e calda dietro l’orecchio, perché potevo solo sognarlo in quel consumarsi quel gesto che avevo imparato da poco e che mi regalava la reazione violenta del suo amore. Avevo solo la forza di guardare la mia mano ferma vicino i bottoni della sua camicia.

 

E sia. Anche se deve essere la morte. Mi basta che sia con te.

 

Ed il riquadro bianco della porta si cancellava nel buio.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Aria fresca. Sole. Tanto sole e gli uccelli che cantavano sulla testa. Aprire gli occhi sentendo il gelo dell’acqua sulle labbra fu come un piccolo miracolo. Sentii l’acqua scivolarmi in rivoli lungo la gola, nella camicia, sotto le vesti, mentre il cielo girava sulla mia testa.

“Va meglio? Come ti senti?”.

André mi reggeva il capo ed io rimanevo lì, incredula, a farmi ferire gli occhi dal sole.

“Oscar! Come ti senti?” mi chiese preoccupato, scostandomi i capelli dal viso.

Inspirai, riempiendomi i polmoni di aria fredda che mi fece tremare e sentire viva.

“Sto bene… sto bene…” sussurrai, coprendo la sua mano con la mia.

Eravamo seduti vicino a una fontana. Poche case, vie deserte ed alberi fitti. André continuava a guardarmi preoccupato, come se non mi credesse.

“Sto bene” dissi tirandomi su e respirando come non credevo fosse possibile.

Il cielo era meraviglioso sopra le chiome agitate da un vento leggero: azzurro e splendente come raso. Avrei voluto avere le ali per spiccare il volo.

 

Avevamo ripreso a camminare. Eravamo arrivati, reggendoci l’una all’altro, ai limiti del caseggiato. Eravamo stanchissimi e deboli, e, con quella poca strada nelle gambe, già faticavamo a reggerci in piedi. Ci appoggiammo a uno steccato per riprendere fiato.

Quando sollevai lo sguardo da terra vidi una cosa meravigliosa. Sollevò lo sguardo anche André e la vide anche lui.

Fu come vedere un’oasi nel deserto, un raggio nelle tenebre, un fiore nella sterpaglia, una conchiglia sulla spiaggia dopo una mareggiata, un diamante nascere dalla roccia… Tutte queste parole per dire che a pochi metri dai nostri occhi affamati e dalle nostre narici ipersensibili giaceva, incustodita, sul davanzale di una finestra aperta all’aria della primavera, una torta.

Una torta a quei tempi era quanto di più proibito si potesse sognare.

André chinò di nuovo il capo, appoggiato con i gomiti alla staccionata. Io feci finta di niente, guardandomi le scarpe, ma non ero indifferente. Lui si tirò su, posandosi una mano sul fianco. Io mi infilai le mani in tasca, guardandolo e fingendo di ignorare la visione.

“Bella vero?”.

“Hm… sì” risposi io.

Lo beccai con la coda dell’occhio che la guardava ancora.

“Che vuoi fare?” aggiunsi, non so quanto sospettosa e quanto speranzosa, con un’espressione finto moralista ipocrita nel tono della voce.

“Chi? Io? Niente di male”.

“Pensavo…”.

“Pensavi male” commentò, scavalcando la staccionata con la poca agilità che la stanchezza accumulata permetteva, e si diresse, badando a non fare rumore, verso la finestra.

“Andrééé!! Scemooo!!” gli gridai dietro sottovoce, senza riuscire a credere a quello che faceva e dubitando di averlo mai conosciuto, mentre una vocetta, che tentavo di ignorare, nella mia testa gioiva e incitava alla delinquenza.

Agguantò la torta, piazzò alcuni franchi sul davanzale e corse verso di me che sbarravo gli occhi trattenendo il riso.

“Tecnicamente l’ho comprata…”.

“Sì…Va bene! Corri!” gli dissi, mentre mi scappava da ridere, gli afferrai la mano aiutandolo a scavalcare in fretta e lo trascinai di corsa nella boscaglia.

Non riuscivamo più a smettere di ridere. Corremmo fra gli alberi, con respiro tagliato dalle risa, accecati da bagliori di luce intermittenti. Correre il più lontano possibile, più felici di quello che è possibile. Con la torta. La sola vicinanza di quel tripudio di calorie sembrava averci ridato forza.

Non abbiamo mai più mangiato una torta così buona. Tanto meno abbiamo mai più mangiato con tale indecenza: con le mani ed il sedere nell’erba e il fango, tanto da stenderci pieni e felici sul verde per guardare le nuvole che correvano nel cielo.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Non credevo le gambe potessero più reggermi: si flettevano molli mentre tentavo di proseguire. Vedevo il suolo oscillare di fronte ai miei occhi e i ciuffi di erba verde malfermi sul suolo bruno. In fondo al sentiero, incorniciata da alberi selvaggi, un’abitazione scura, voci e gente che ci correva incontro. Stavo per scivolare sul fango ai bordi di un pantano, ma André mi tenne su passandomi un braccio attorno al torace. Non so se fosse stanco quanto me, ma riuscì a trascinarmi per un bel pezzo, finché le voci e i volti degli uomini che ci correvano incontro non furono vicini.

“Ragazzi! Ce l’avete fatta… Ehi André, credevo che ti avessero colpito in pieno quei bastardi. Mi hai fatto prendere un colpo! Ho avuto paura che non ce l’avessi fatta a tornare indietro… Accidenti a te!”

Era la voce spezzata di Alain. Era commosso? Aveva creduto che il mio André fosse morto nel tornare da me?

Mentre le immagini ruotavano intorno ai miei occhi e la debolezza mi assaliva André rispose, non so con quali forze: “No… Alla frontiera ti avevo detto che sarei tornato indietro e me la sarei portata via… ricordi? Il Comandante”, e la sua mano mi avvolse il viso.

Aprii gli occhi, facendo violenza sulla stanchezza che mi aveva invaso il corpo, e, oltre il viso appassionato di André, vidi lo sguardo beffardo di Alain. Alle sue spalle, nel cerchio di spazio vuoto in fondo al sentiero fra i rami intricati degli alberi, finalmente, il maquis.

E loro.

Avevano quasi la metà dei nostri anni. Sembrava avessero tutti ossa sottili, occhi grandi e fucili scalcagnati a tracolla. Lì, fra i rami degli alberi e la macchia.

Capii subito che dovevo comandare e che dovevo esser osteggiata. Perché un pensiero del genere in un momento del genere?

Eravamo degli sconosciuti da sospettare, arrivati nel folto della foresta con la nostra aria saccente. A nostra discolpa l’amicizia di Alain e Bernard.

E allontanato lo sguardo dal viso sorridente di Alain, sullo lo sfondo del palazzo diroccato, in parte nascosto dalla vegetazione, la mia vista agguantò colui che doveva essere oggetto di delucidazioni: Bernard.

Le persone scomparvero dai miei pensieri, che si persero nella boscaglia a vagare alla ricerca delle vere domande che mi avevano portata lì.

Sì: era la lotta. Era la libertà.

Ma erano anche i battiti più veloci del cuore e quello che André taceva.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Raccolsi le ginocchia fra le braccia e tentai di lanciare lo sguardo oltre il verde intricato dei rami. La scalinata era umida e morbida per il muschio steso come un cuscino lungo la pietra scura.

“Ti sei calmata?” chiese André, sedendosi su un gradino alle mie spalle.

“Hm…” mugugnai. “Lui come sta?”.

Non mi rispose e mi passò una mano fra i capelli.

“Diamine… che  sciocca” esclamai, coprendomi gli occhi con le mani.

“Non immaginavi che reagisse così… Come immaginavi avrebbe risposto? Non credevi che l’amasse veramente? E perché, Oscar?”.

“Si è comportato da stupido…”

Veramente ero io l’unica a sentirsi stupida.

“Può succedere…” disse sovrappensiero André.

 

“Ma io la amo… io amo Rosalie! Cosa credi? Come credi che mi senta?” aveva risposto, piangendo, al il mio tono di sfida che si aspettava una risposta banale e arrogante.

“Come credi che stia a chilometri da lei… senza neanche sperare di averla al mio fianco? Credi che lo abbia fatto apposta? Non sempre tutto va come vorremmo… e siamo costretti a fare delle scelte… se fossi rimasto a Parigi mi avrebbero già ucciso. Hai sentito cosa succedeva a Parigi quando siamo fuggiti? Davano fuoco a tutto e mettevano contro il muro anche i sospettati… Per cosa credi che siamo fuggiti come ladri all’improvviso? … E avrebbero ucciso anche te… se André non ci avesse piantati a metà strada, mandandoci quasi a quel paese, per tornare indietro… dopo che non gli aprivi nemmeno la porta per chissà quale delle tue questioni d’orgoglio…”.

In un momento di stupore minore avrei sottolineato che lui “era un ladro”. Ma non allora. Non mentre mi venivano sbattuti in viso un amore e un dolore che avevo quasi ignorato. Compreso il resoconto di una parte del nostro amore.

“Mi manca… la sua gioia… la sua vitalità… la sua risate…”.

Spiazzata mi guardai intorno.

Il viso sarcastico di Alain che taceva; André che, serio, dopo la corsa alla mie spalle, fatta per evitare che infilassi le unghie negli occhi di Bernard, puntava il gomito nel fianco dell’amico perché non rovinasse tutto con una battutaccia.

Gli sguardi curiosi di cento occhi che ancora non conoscevo. E la sensazione che a volte sia meglio tacere e lasciare un coperchio sul dolore di cuori insospettati. A volte viene fuori qualcosa che lacera anche te.

 

Continuavo a pensarci.

Eravamo ancora lì in silenzio, mentre le chiome degli alberi stormivano sulle nostre teste. Le mura antiche e scure del palazzo tacevano. Nel cuore tenebroso e brillante del bosco.

Sembrava un sogno. Non sapevo decidere se bello o brutto. Ma tentare di smarrire ogni pensiero nel verde sembrava facile. Sembrava che fosse un guscio che proteggeva da tutto lo schifo là fuori, da tutto quello che ci aveva dato il voltastomaco a Parigi. Ma nulla era più sbagliato: perché quella era una postazione di battaglia. La macchia magnificamente lucida e pericolosa non era immune dalla tempesta contro cui volevamo combattere. Era la nostra maschera.

Dibattendomi fra il dolore di Bernard e il richiamo delle imminenti battaglie, i miei occhi si incantarono dove il verde veniva interrotto da tratti candidi. Rose così candide che risucchiavano tutta la luce che filtrava dal tetto di foglie irregolare. Brillavano nell’ombra e sembrava avessero un segreto nascosto fra le pieghe dei petali.

Se ne avessi decodificato il profumo ne avrei ricavato quale messaggio?

Come sbrigliare i segreti di André, che mi stringeva la mano con un sorriso appena accennato sulle labbra, seguendo chissà quale pensiero. Triste? Felice? Era l’attimo in cui credevo che le immagini passeggere di sconforto e i suoi sguardi, che sembravano riafferrare il senso di vecchie scene, fossero veri e non frutto della mia immaginazione.

Nell’attimo successivo avrei creduto di essere visionaria e avrei taciuto.

Chinai il capo sulle nostre mani intrecciate. E riuscii a dare voce al dubbio, prima che l’istante fuggisse, prima di sentirmi stupida nel chiedere.

“André… ma tu mi dici tutto?”.

“Hm… che significa?” chiese sorpreso, riscuotendosi dal corso dei pensieri. “Mah… può darsi…” aggiunse, buttandola sullo scherzo e regalandomi un sorriso vero.

“Non vale la pena farsi tante domande, Oscar… anche le risposte non hanno molto valore ed anche se ne hanno…” disse, arrotolandosi una ciocca dei miei capelli attorno al dito, e bloccandosi.

“Cosa?”.

“Nulla… Stupidaggini… Andavo a ruota libera… Sono discorsi da far venire il sonno e io non ho nessuna intenzione di lasciarti addormentare!” concluse stringendomi all’improvviso, con le dita  intrecciate in bilico sulla scalinata fredda.

“André… la mattina che venisti a prendermi è successa una cosa strana…” insistei, rabbrividendo dopo settimane al pensiero di quella camicia strappata e ricordo del terrore che avevo provato. Mi sembrò più spaventato di me a quelle parole.

“Mi salivano delle immagini agli occhi… di continuo… e non riuscivo a fermarle… e ti ho temuto… è stato quando ho trovato…”.

“Vedrai… non è una cosa importante… non c’è nulla di spaventoso. Non è importante. È importante solo il fatto che siamo insieme… ricordalo…”.

Era come se mi chiedesse di non andare oltre con le parole. E rispettai quella specie di dolore che avevo sentito nella sua voce.

In fondo, con l’angoscia e la fretta degli ultimi tempi, probabilmente stavo iniziando a vedere cose dove non c’erano.

Ma anche lui aspettava e temeva rivelazioni del verde profondo del bosco, pensai con le guancia sul suo petto.

Le rose gli facevano battere il cuore veloce.

 

L’amore… a cosa porta?

 

Una volta avevo sentito una voce dire a una lenta e triste agonia. Ma volevo chiederlo ad André.

 

Sì… ma non ora. Non ora…

 

 

ЖЖЖ

 

“Che diamine è?!”  chiese Alain a Bernard, palleggiandosi un sorso infuocato da una guancia all’altra.

“Non ricordo cosa ci ho messo… forse whisky, rhum, sidro, cognac…”.

“È solvente per unghie!” sentenziò André, volgendo le spalle ai due e sputando di nascosto il sorso velenoso nel bicchiere. Mi stava per sfuggire una risata, ma mi chiese con gli occhi di tacere, così la soffocai con discrezione, per non offendere la sensibilità del barman.

“Non vedo la necessità di provvedersi di intrugli alcolici nel mezzo della foresta. Serve ben altro suppongo… in queste condizioni” osservai seria.

“Il fatto è che certi piani mi sembrano logici solo se sono sbronzo” commentò Bernard in sordina.

“Abbiamo quasi tutto quello che serve. Non preoccuparti. A volte mancano cervelli con delle buone intuizioni… l’altro giorno abbiamo perso dei ragazzi. Non abbiamo idea di cosa possa essergli successo. Maledizione… a volte manca il pane… ma tutto sommato a questo ci si abitua”.

“O si è già abituati” fece André.

“Già”.

“Sono giovanissimi… avete appoggi nei centri abitati, fra i civili?”.

“No… Credi che servano?” mi chiese Bernard.

“Certo che servono” osservò André.

“E come si fa a capire se ti aiutano?” domandò di nuovo portandosi il bicchiere alla labbra.

“Nel dubbio non è necessario alcolizzarsi” fece André, togliendogli delicatamente il bicchiere. Bernard non fiatò. Rimase in silenzio.

“È più corretto dire che c’è qualcuno… abbiamo una persona che ci porta i messaggi di Radio Londra. Qui radio non ne abbiamo. Si va avanti così. Non so quanto nei paesi siano disposti a rischiare altro”.

“Dobbiamo sapere dove sono i nuclei nazisti. Dobbiamo sapere sempre cosa fanno… e di preciso chi li appoggia. I nomi dei collaborazionisti”.

“Sappiamo dove sono. E qui ci si vanta di essere collaborazionisti alla luce del sole: para il sedere da un sacco di cose….”.

“I ragazzi sono molto giovani” commentai, ripensando nella penombra fra le pareti umide come quelle di una caverna a tutti quegli occhi.

“Già…”.

“E tua sorella Alain?”

“……”.

“Vuoi dire sua moglie” corresse André.

“Scusa… tua moglie?”

Non so perché ho sempre pensato che fosse la sorella. Eppure a vederli non lo sospetterebbe proprio nessuno.

“Con le altre donne”.

“Ci sono delle donne?”.

“Sì... è come una piccola comunità. Ma le donne per lo più cucinano… sempre se c’è da cucinare… eccetera. Per lo più medicano…”.

Mi scambiai uno sguardo ironico con André.

“Io non sono qui per cucinare” precisai, guardando fuori dalla finestra, come se nel buio potessi ancora scorgere qualcosa.

“Non avevamo dubbi”.

Poi cercai di nuovo lo sguardo di André, così serio da farmi male al cuore.

 

“Spero tu non sia qui neanche per farti medicare… spero” mi chiese, prendendomi la mano fra le sue quando gli altri furono andati via.

“Neanche tu vero?” chiesi io, scostandogli i capelli dal viso e lasciandogli sulla pelle una carezza. Avevo la voce che tremava.

 

Fra le mura del palazzo del “Merlo bianco”.

I rumori della notte erano brevi e bisbiglianti. Ancora uccelli fra i rami. La luna pallida nel buio quella prima notte non si vedeva.

Per noi i nostri dubbi e nemmeno l’illusione che la strada fosse illuminata.

 

 

ЖЖЖ

 

Chi è quella donna. La femmina… Continua a parlare come se comprendesse qualcosa di tutte queste faccende da uomini… Uomini!

Lo so, dicono questo ogni volta che parlo; che esprimo un’opinione. Se lo dicono a mezza bocca, neanche tanto di nascosto; perché li veda e mi senta intimidita.

Che attendano pure. Invano.

Fanno commenti osceni ogni volta che André mi si avvicina ed è impossibile avere un minimo di rispetto quando lui si allontana. Mi chiedo se sia così evidente quello che ci lega. Eppure non mi ha sfiorata neanche una volta, per far sì che non si permettessero di commentare, di insinuare, di trarre le loro conclusioni. Gli ambienti maschili e chiusi diventano pericolosi, quando cominciano a comprender quel che a loro interessa comprendere. Al confronto la redazione era l’Eden. Ormai, sotto lo sguardo allibito di Alain e Bernard, ci spacciamo per marito e moglie. Ma l’acume del pettegolezzo getta dubbi sulla mancanza di fedi alle dita.

Giovani stupidi e teste dure. Ottuse. Che si ostinano a non ascoltare perché sono una donna. E tutti i loro piani vanno a rotoli. Si fanno trovare in pieno sole e ammazzare. Le loro madri piangono, qui nel folto della foresta.

Se ascoltassero….

Se ascoltassero veramente. Non come fanno ora, quando Alain o André chiedono il silenzio. Tacciono per compiacerli e basta.

Sono passati due giorni e questo lo avevo capito dall’inizio. Lo sentivo come se lo avessi già visto. Hanno visto solo parte di quello che accade e impugnano le armi in nome di pure idee. Proiettati in un mondo di cui non hanno idea.

Non hanno idea di quello che era evidente sotto i nostri occhi, tutti i giorni nella bolgia di Parigi. Le stesse cose qui le nasconde la selva; e la distanza fra le i paesi.

Solo questo.

 

 

ЖЖЖ

 

 

La fiamma sfrigolò luminescente nel buio e fece luce, restituendo profondità alla immagini. André la posò sulla candela, proteggendola col palmo della mano.

“Mi piace quest’odore” mormorò sovrappensiero, spegnendo con un gesto veloce il fiammifero.

Le mie labbra si distesero in un sorriso, osservandolo mentre si sbottonava la camicia tra le pennellate di luce che lasciava andare il fuoco. E mi piace pensare che quel sorriso si sia potuto dire dolce. Perché era tutto amore che non riuscivo a contenere.

“Quanto sei strano…”.

“Perché mai?”.

“Chi si prenderebbe la briga di dire che gli piace l’odore di un fiammifero acceso… oltre te?”.

“Ah… per questo…” osservò divertito. “Chi ha voglia di fermarsi a notarlo… ad annusarlo”.

Sì, era vero.

“Già… Tu noti quello che gli altri non notano e ti piacciono le cose che agli altri non piacerebbero… anche le persone che agli altri non piacciono…” commentai a voce bassa, stesa sui sacchi che assolvevano indecorosamente alla funzione di giaciglio.

“Hm… Tu sei molto più strana di me…”.

“Appunto” mi sfuggì dalle labbra. Una parola che non sapeva se essere felice o triste, lì fra le ombre e la luce evanescente.

“Ascolta…” disse chinandosi su di me “Ti amo e basta. E per me è impossibile non amarti… È così perché non può essere diversamente e ho ringraziato che fosse così ogni giorno… anche quando non c’eri e non lo sapevo, anche nei giorni peggiori. Non c’è nulla di speciale in questo: siamo noi due e non può che essere così… E poi perché preoccuparsi se non ti importa della gente là fuori e farai comunque di testa tua… Oscar?”.

“Ti è venuto mai in mente che mi chiamo Françoise Moreau…?” chiesi. Ogni tanto me lo ricordavo e mi faceva sentire strana. Divisa a metà.

“Quando ti chiamano così non ti giri mai però…” osservo, sdrammatizzando la nota triste che avevo insinuato nella domanda. “Non è questo il nome che hai scelto per firmarti? Non lo hai fatto perché lo sentivi tuo?”.

“Ma… chi era Oscar…? La donna del quadro…”.

“A me quel quadro non è piaciuto neanche un po’ quando l’ho visto, se proprio lo vuoi sapere…” spiattellò, stupendomi. “A quell’epoca si facevano fare tutti il ritratto sul cavallo imbizzarrito… si poteva fare di meglio… No?” concluse stringendomi.

“Non è il cavallo imbizzarrito… non è la spada o l’atto di attaccare che raccontano quello che veramente è una persona. E’ una convenzione. Non sarà mai un ritratto… Madamigella…”.

Mi misi a ridere e fu come scrollarsi un peso dallo sterno.

“Non prendertela così a cuore…” gli sussurrai. Mi chiesi quel che avesse dipinto lui nei pomeriggi parigini che ci avevano fatto scivolare dalle incomprensioni e dall’insicurezza all’amore. Mi chiesi dove avesse nascosto la tela; che colori avesse usato; come sarebbe stato vedere la mia immagine uscire dalle sue mani. Poggiai le mie labbra sulla sua fronte e rimanemmo in silenzio.

“Mi sembra di capire che non hai disegnato nessun cavallo” sussurrai sonnolenta.

“Oh no… l’ho disegnato eccome!”.

“André… mi vuoi depistare?”.

Lo sentii ridacchiare.

La fiamma sulla candela scese lenta verso il basso, illuminando sempre di più le due figure scolpite nel metallo.

 

Continua...

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