Rumore d'ali

(De insania)

Parte VI

 

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Siamo naufraghi che cercano di remare. Su una zattera di terra. Al centro della tempesta.

Non si vedono i confini della zattera. E la tempesta non è tempesta di mare.

Potessi vederlo il mare, mi laverebbe via per qualche istante la rabbia per questa follia umana!

Ma nella tempesta ci sono tante piccole tempeste, come i cerchi concentrici nati da un sasso gettato in acqua. Bisogna essere bravi per scorgerli. Perché sfuggono in fretta agli occhi.

Quello che è chiaro non è ovvio. Per fortuna. E le cose non sono immediatamente come sembrano.

E sulla zattera, se guardi bene, potresti veder qualcuno che non avevi notato.

 

È uno scritto ingiallito dal tempo. Un pezzo di carta liso con la mia grafia in nero. È un pensiero che avevo perpetuato sulla carta in uno di quei giorni. Trenta anni fa.

André me lo ha porto con la sua aria solenne, mai molto seria, ed ho capito che non era la solita lista della spesa. Chissà in quale angolo di questa casa lo ha scovato, mi chiedo mentre accosta la porta soddisfatto, lanciandomi un’ultima occhiata.

È il pensiero nato in uno di quei giorni, in cui ancora non sospettavo quale piega avrebbero preso gli eventi. Il pensiero nato quando, senza rendercene conto, iniziammo a scoprire una ad una le carte del gioco.

 

“Non vuole parlare. Ha detto che non vorrebbe vedere nessuno”.

“Ma ha visto chi è stato?”

“Lasciamo perdere…”

“Ha raccontato un sacco di puttanate. Ne sono certo” precisò Alain, intervenendo nel discorso fra me ed André.

“Avrà visto qualcosa? Li ha riconosciuti?”

“Ha detto di no. Di non aver visto nulla”.

“Allora erano mascherati? Non ha visto i volti mentre lo stendevano a randellate?”

“Non lo so… ha detto che non ne sa nulla e che non ha nulla da dire. Che gli basta che guariscano i lividi e di potersi alzare in piedi”.

“Ma diamine! Lo hanno umiliato e quasi ammazzato… e lui non sa nulla?!” non potei fare a meno di dire infervorata, voltandomi di scatto sui tacchi per guardare Alain.

Silenzio ed incredulità generale.

“Avrà paura” disse André.

“Ed ha ragione, perché vi assicuro che non è un bel vedere” precisò Alain con una faccia che diceva tutto. “Accidenti a lui, come s’è fatto conciare!”

Silenzio.

“Deve passare sotto silenzio anche questa storia?” chiesi, intuendo cosa sarebbe potuto succedere.

“Se non parla e non vuole che si faccia nulla proprio lui… che si può fare?”

“Non mi va che le cose vadano in questo modo Alain. Te l’ho già fatto notare un’altra volta!” dissi passeggiando a braccia conserte per la stanza.

“Non va nemmeno a me, cosa credi? Che mi vada? Ma è così che vanno le cose. Te ne parlo a titolo informativo”.

Piccola pausa per un respiro.

“Saranno stati i legami con amicizie poco raccomandabili. Ma non so fino a che punto… perché ieri in ospedale c’erano due di quei tipi in divisa, due specie di spaccaossa, che si preoccupavano per lui” soggiunse riflettendo a bassa voce.

“Non mi basta. Chissà che c’è sotto…”.

“Comunque hanno rubato diverse cose…”.

“E allora perché li copre, se erano solo dei ladri?” interruppe André, in piedi con le mani in tasca e la schiena alla finestra.

Lanciai uno sguardo ad Alain che capitolò: “Già…”

“Non eri tu quello che diceva che qualcosa bolliva in pentola?”

“Sì è vero… ma tu che vuoi fare? Se lui non parla che vuoi fare? Vuoi prenderti sulle spalle tutti i mali del mondo? Oltre alla resistenza attiva che vuoi fare?”

“Ma quale resistenza attiva… se ho ancora la sensazione di girarmi i pollici e basta!” commentai, facendo volteggiare nell’aria, con una manata, alcuni volantini ammucchiati sul tavolo. Parole che mi sfuggirono mentre scambiavo uno sguardo sconsolato con André, l’unico in grado di capirlo a fondo.

“Qui è un macello tutti i giorni: ci spremono fino all’osso di tutto quello che abbiamo! Aggressioni, fucilazioni sommarie, deportazioni… e io qui!”

“Fino a qualche tempo fa scrivevi articoli su Greta Garbo…”

“E credi che non lo sappia?! Sono costretta a scriverli ancora… È questo che ho la sensazione che serva a poco!” osservai innervosita, indicando la stanza.

“Nemmeno io credo che sia una cosa che deve passare nel dimenticatoio” interruppe provvidenzialmente André. “Visti gli strani legami che Victor aveva, potrebbe esserci sotto qualcosa di più grosso. Potrebbe essere qualcosa che riguarda altra gente… Ci pensate? Sapete fino a che punto abbia collaborato con i nazisti? Sta coprendo loro o altri? Se abbiamo deciso di rischiare la pelle sperando di riuscire a cambiare qualcosa, facciamo un errore a lasciare che tutto sia insabbiato”.

 “Grandier… hai ragione tu…” fece Alain sospirando ed aggiustandosi la visiera che indossava quando era al lavoro. “Ma da dove si comincia per capire che cosa è successo? Questo è il casino…”

Silenzio.

Era una bella giornata. C’era tanto sole che inondava le nostre due stanze riflettendosi sul metallo della macchina tipografica. Fra poco sarebbe arrivata la primavera e sulle macerie sarebbero nati i fiori.

Ero rimasta ferma con lo sguardo su un volantino che avevamo affisso al muro il primo giorno che eravamo riusciti a stampare. C’era l’immagine di de Gaulle ed una sua frase: "Qualsiasi cosa succeda, la fiamma della resistenza francese non deve spegnersi, e non si spegnerà".

Bernard si era ferito le dita con le puntine, nell’affiggerlo. Un lampo di luce mi passò per la testa al pensiero di Bernard.

“Ehi… dov’è Bernard?” chiesi sollevando lo sguardo e destandomi dalla riflessione sull’immagine. “Da Rosalie” rispose Alain “ma forse non dovevo dirtelo…” aggiunse, lanciando un’occhiata ad André, dopo aver visto la mia espressione interrogativa.

“Di che ti preoccupi? Non è una bambina” precisò André.

“No, non mi preoccupo” dissimulai io “C’è bisogno di Bernard… Ma a me lei ha detto che andava ad aiutare i poveri…!”

Quei due si scambiarono uno sguardo che non gradii e André mi fece un’espressione del tipo “Che vuoi farci, non sei sua madre!”

Presi il cappotto e me lo infilai velocemente.

“Che cavolo c’è nello scaffale che Victor ha sottratto a Bernard? Perché quell’urgenza di avere quel mobile, tanto da toglierlo con  prepotenza ad un collega, se non per tenere sotto chiave qualcosa… qualcosa d’importante, che non si può più tenere a casa! Lo abbiamo sempre preso in giro, adesso ha l’occasione di vedere a cosa servisse il suo mobile… Dobbiamo trovare Bernard!” dissi sulla soglia stringendo il pugno.

“Sì, ma io non so mica dove sta” osservò Alain con aria contrita. “E se lo sapessi forse non sarebbe il caso…” e lo bloccò una mia occhiataccia. Speravo che scherzasse. Ed un po’ non mi capacitavo della storia fra Rosalie e Bernard...

“Vuoi aprire lo scaffale?” intervenne André, interrompendo la piega che stava prendendo il discorso.

“Già! Bernard mi serve per questo”.

“Posso farlo anch’io, non è un problema” mi rispose, abbottonandosi in fretta il cappotto con una mano.

“Forza André… Un bel lavoretto discreto, senza lasciare segni, mi raccomando!” acconsentì Alain, saltando entusiasta giù dal tavolo ed afferrando il suo soprabito, per dirigersi verso la porta.

“André?” Non sospettavo che avesse delle doti di scassinatore.

“Non preoccuparti… Sono bravino… A volte mi sono esercitato. Fidati!” disse ridacchiando e spingendomi stupita fuori dalla porta in piena luce del giorno.

 

 

Ci recammo in redazione in pieno orario lavorativo, presentando André come un collega. Appena nel corridoio si placò il viavai, io e lui ci intrufolammo nell’ufficio di Girodel. Alain rimase vicino alla porta, fingendo di correggere alcune bozze, per controllare la situazione. Prima cercammo la chiave qua e là per la stanza, ma non la trovammo; poi André, con la massima naturalezza, estrasse dalla tasca un filo di ferro ed aprì la serratura del mobile.

“È tutto per te!” mi fece segno, divertito dalla mia incredulità.

Dentro c’erano delle scatole di biscotti laccate ed elegantemente disegnate. Tutto emanava un odore di dopobarba e sapone.

Non riuscii a fare a meno di pensare: “È la volta buona che trovo i suoi bigodini…”

Iniziammo con cura ad aprire le scatole e scoprimmo che erano piene di carte non di biscotti, né di bigodini.

“Era veramente nei guai… Queste sono tutte cambiali! Non finiscono più…”

André si rivoltava scettico il contenuto di una delle scatole fra le mani e mi passava qualche foglio, perché vedessi anch’io che accidenti di cifre c’erano scritte sopra.

“A quale costo tutto questo lusso!” esclamai lasciando correre lo sguardo sui tappeti e gli arazzi della stanza, come sempre immersa nel sole. Da un po’ di giorni però il sole non giocava più sui riccioli di Victor.

“Questa è una lettera per la commissione di… orecchini!” aggiunse lui porgendomi il foglio. “Regali costosi. Si accompagna a gente che ama trattarsi bene ”.

“Orecchini… È come dicevo io… Ha una tipa! Si era vantato di aver abbordato una bella donna tempo fa, lui che di sé non dice mai nulla” osservai.

“Forse gli piaceva così tanto che non è riuscito a tacere”.

 “Già…” risposi distrattamente, mentre in ginocchio sul tappeto spinta da un certo pensiero, avidamente, tiravo fuori dallo scaffale tutte le scatole e le cianfrusaglie.

“Che cosa cerchi con tanto ardore?”

“Nulla… non so mica cosa c’è dentro… Cerco per vedere che c’è” fu la mia risposta accompagnata dal tentativo maldestro di reggere l’occhiatina ironica di André. Si inginocchiò anche lui dopo aver controllato la porta e mi aiutò a spostare tutta quella roba.

“Dopotutto potrebbe averlo nascosto qui” disse immergendosi con me nell’opera frughereccia.

“A cosa alludi?” risposi allarmata, presagendo di essere stata scoperta.

“Non dirmi che non speri di trovare il libro antico che ti ha soffiato quel giorno da Arval” fece lui, scoperchiando un’altra scatola laccata, da cui spuntarono delle splendide cravatte di seta.

Non era il caso di rispondere. Era palese che per lui giocassi sempre a carte scoperte.

 

Ma non posso nasconderti nulla… Perdindirindina…

 

“Devo dire che, non so se sono vere le storie di maledizione che racconta Arval, ma Girodel non è stato tanto fortunato dopo che ha comprato quel libro, Oscar”.

Capovolsi la scatola facendo cadere tutte le cravatte sul tappeto e sulle nostre gambe. Sul fondo c’erano dei pezzi di carta che vennero giù ondeggiando. Sembravano i resti di una lettera, ma non poteva essere l’intera lettera perché erano troppo pochi. Li presi in mano ed iniziai a guardare le frasi che c’erano scritte su. Era la grafia di Victor. L’inchiostro di alcune parole era sbiadito, come se sopra vi fosse caduta dell’acqua.

André al mio fianco osservava una cravatta tenendola fra pollice ed indice, poi la lasciò cadere e prese un foglio da una della scatole aperte lì davanti.

Non riuscivo a ricomporre il discorso. Si capiva però che si rivolgeva ad una donna.

André continuava ad estrarre ed a osservare assorto i fogli di quella scatola.

Quando riportai gli occhi su quei pezzi di carta mi colpì una frase: “Vi amo”. Lessi tutto il rigo pensando “Dio… come sto diventando pettegola!”. In fondo al pezzo di carta doveva esserci un nome di donna, ma il foglio era strappato e se ne leggeva solo l’iniziale: Madame J. Controllai gli altri pezzi, ma il seguito di quella frase mancava.

“André! André” feci afferrandolo per la manica e mettendogli sotto gli occhi lo scritto.

“Questa era la lettera per una donna. Ha un nome che inizia per J… come Jeanne”.

Lui con i fogli in mano non sembrava molto stupito.

“A cosa stai pensando? Che sia la Jeanne che conoscevi tu? Lo sai quanti nomi iniziano per J oltre a Jeanne? Josephine, Julie…”.

“Sì… va bene ho capito, non c’è bisogno che mi reciti il calendario! Lo so che è una cosa stupida. Ma Alain ha detto che è solo… e che non era con lui nessuna donna che non fosse una parente. Dov’è finita? Io sono convinta che stesse con un donna… e che, per esempio, quegli orecchini fossero per lei”.

“La cosa si complicherebbe: lei affogata nella Senna, lui a pezzi nel letto d’ospedale… Non basta per dire che sono due storie legate. È difficile trovare un collegamento fra tutti i fatti violenti che avvengono a Parigi… devi considerare anche questo”.

“Lo so che Jeanne è un nome molto comune… Hai ragione non c’entra nulla, ma forse questo può significare qualcosa, anche se non è detto che sia lei. Ora che ci penso non potrebbe mai essere lei… lui era molto felice e lei era già morta. La donna in questione può non avere nulla a che fare con questa storia, ma magari sa qualcosa. Lasciami stare mi sto confondendo le idee da sola.” Feci all’improvviso agitando le mani davanti agli occhi come se potessero scacciare la confusione.  “Forse potrebbe aprirci uno spiraglio… se la trovassimo. Come quelle cambiali. Significheranno qualcosa”. Ormai mi attaccavo a tutto quello che trovavo per avere una soluzione.

“Guarda qua” fece tendendomi con aria seria i fogli che aveva in mano. “Perché se quello apre uno spiraglio, questo apre una voragine…”

Guardai quelle carte. Inizialmente non mi capacitavo di quello che leggevo. Mi sentii sbiancare ed alzai uno sguardo interrogativo su André, che aspettava che parlassi.

Erano dei certificati di battesimo. Erano intestati a nomi diversi. Saranno stati quattro nomi sia di uomini, che di donne. Ma i certificati erano di più, ed alcuni erano palesemente dei falsi mal contraffatti. Continuai a leggere, mentre André mi porgeva un altro foglio ed allungavo la mano per prenderlo. Questa volta era un certificato intestato a Victor Clement de Girodel. Mi porse un altro foglio. Anche l’altro certificato era intestato a lui, ma era un falso grossolano. E ce n’erano altri ancora.

“Tu non lo sapevi?” mi chiese André.

“No… non lo sapevo… non lo sapevo… Com’è possibile?… Sarebbe toccato anche a lui…”

“Cucirsi la stella gialla sugli abiti e sparire all’improvviso per i campi di lavoro” completò André.

“Io… io non lo sapevo André! Anche se lo conosco da anni non l’ho mai saputo… non me lo ha mai detto e non l’ho mai capito… lo conosco da anni e non l’ho mai capito”.

“Magari perché non è praticante. Non gli interessava parlartene. Non te ne sarai accorta per questo”.

Io continuavo a guardare quei fogli e sussurrai: “Ha tentato di falsificarli da solo… e se ne andava in giro a braccetto con gli aguzzini…”

“Vuol dire che per sé li ha falsificati bene. Questo è certo. Per gli altri speriamo… Accompagnarsi a quelli probabilmente gli serviva a sentirsi al di sopra dei sospetti” concluse, mentre me ne stavo lì con le carte in mano, senza sapere più cosa pensare, perché cadevano le mie certezze; perché non avevo capito nulla; perché si rimane increduli e deboli al dover giustificare la paura.

“Insomma quanto ci mettete?” domandò spazientito Alain, affacciandosi da dietro la porta e trovandoci muti in ginocchio sul tappeto, in un disordine surreale fatto di un miscuglio di sole, cravatte, cambiali e scatole di biscotti profumate di dopobarba.

 

 

La tettoia sgocciolava acqua. Il muro alle mie spalle era freddo. L’acqua scorreva come un fiume per la strada trascinando carte, fango e pezzi di legno. Stava lentamente spiovendo forse, ma non ne ero molto convinta. Pensavo ad altro ed ogni tanto una goccia, che deviata dal vento si posava sulla mia pelle, mi distraeva dal ricordo delle parole di André.

“Tu vuoi fare di più? Sai cosa potrebbe significare?” mi aveva chiesto.

“Sì… Cosa?”.

“Lasciare Parigi”.

“E sia…”

“Se lo vuoi fare, io sono con te. Ma forse sarà ben diverso da come lo immagini tu. E non è una cosa che si può fare in due… nemmeno in quattro Oscar…”

“Dimmi solo quello che si deve fare”.

“Appena ne sarò certo… lo farò”.

Ed avevamo rivolto lo sguardo oltre la finestra.

 

Si può giudicare la paura? Quanto rende vili o coraggiosi la paura? Dov’è la linea che segna il confine fra queste due cose in Girodel? È tutto meno chiaro di prima, anche se siamo sulla strada per la verità.

E se anche questa volta non avessi capito nulla e le cose stessero ancora diversamente?

Che disastro.

 

Lo immaginai nel letto di ospedale, ma non me la sentivo di vederlo: non sapevo se i miei occhi si sarebbero posati su di lui severi o compassionevoli. Mi accorsi che la pioggia sferzava gli alberi senza pietà e martellava spietata sulla tettoia, infilandosi nelle maglie dei miei abiti. Abbandonai il riparo e, correndo fra le pozzanghere ed i rivoli, mi avviai verso casa. Unico compagno uno sconforto, che mi sentivo perennemente alle calcagna e che rimaneva sempre più muto.

Uno sconforto che mi aveva fatto serrare, con la testa china, le braccia conserte sul tavolo: “Voglio bere qualcosa di forte… Voglio un chilo di cioccolato…”

“Aspetta qualche giorno… forse si può fare qualcosa” mi aveva risposto teneramente André, posando la sua mano sulla mia testa e ritraendola per andare a parlare con Bernard.

Ero rimasta lì da sola sul legno ed ora saltellavo col cuore pesante sulle pozze d’acqua. Era così pesante che avevo la sensazione che mi tirasse giù come zavorra.

Nell’androne del palazzo, prima di imboccare le scale e salire a casa, mi poggiai al corrimano per riprendere fiato.

 

 

Erano passati un po’ di giorni da quelle scoperte che non ci avevano aiutati a capire cosa fosse successo, e Victor, viola e dolorante, continuava a non voler chiarire nulla.

I rintocchi del mezzogiorno si erano persi nell’aria umida ed ogni tanto una nuvola copriva il sole. La persiana era chiusa a metà e la luce che entrava dalla finestra illuminava solo una parte del tavolo, rifrangendosi sul vetro sfaccettato della bottiglia di liquore. Briciole di pane. Torsoli di mele.

L’archetto stanco percorse le corde per sprigionare le ultime note, poi lo deposi insoddisfatta sul tavolo assieme al violino. André giocherellava soprappensiero, arrotolandosi la carta argentata della cioccolata attorno alle dita..

“Sono piena di cibo poco salutare ed ho suonato veramente male” feci alzandomi della sedia, con la gonna antidiluviana che fluttuava a ogni passo. Odioso tendaggio verde compagno di tanti trafugamenti. Andai a sprofondarmi sfinita nella poltrona. Non era l’effetto dell’alcol. Non avevo bevuto tanto, ma le molte notti trascorse insonni giù al nascondiglio per fare quanto più possibile mi avevano fiaccata.

Sentii André spostare piatti e forchette.

“Aspetta cinque minuti… appena mi riprendo ti do una mano” gli dissi con sforzo supremo e con le palpebre incollate e avvilite.

“Non preoccuparti. Devo fare sparire tutto, perché fra meno di mezz’ora arriva il piccolo Gilbert. Ci  serve spazio sul tavolo”.

Rimanevo lì ferma e sentivo i suoi passi sulle assi di legno. Per quanto fossi stanca non sarei riuscita a dormire: quella strana tristezza mi annegava, scacciando il sonno.

Lo sentii avvicinarsi alla poltrona. Lo intravidi fra le ciglia socchiuse. Si era accorto che qualcosa non andava.

“Smaltisci con calma la sbornia. In queste condizioni sei meno molesta dei solito…” fece scherzando, per provocare una mia reazione. Reazione che non tardò: con un guizzo afferrai il collo della bottiglia che lui voleva sistemare nella credenza.

“Sei viva!” disse ridendo, senza mollare la presa, trascinandomi in piedi in mezzo alla stanza.

“Mollala André!” intimai, tentando di ricordarmi di dover vivere, senza ostinarmi in congetture che non portavano da nessuna parte. Ma lui non mollava e rideva. Io non mollavo, anche se ero troppo stanca per quel duello.

“Accidenti a te!” commentai sconsolata quando la bottiglia mi sfuggì di mano e, perduto l’equilibrio, mi trovai appoggiata alla sua spalla. Rimasi ferma lì. Vedevo l’orologio appeso alla parete che segnava  le dodici e cinque.

“Cos’hai?” mi chiese André reggendomi con un braccio intorno alla vita.

Chiusi gli occhi e l’orologio sparì nel buio. Lui mi abbracciò piano e mi trovai con il viso nell’incavo del collo contro la sua pelle calda. Non mi andava di parlare.

“Dimmi… Ti ha fatto male quello schifo di liquore o è stato altro?” continuò ostinato a chiedere cullandomi.

Mi andava bene anche che mi credesse brilla se potevo rimanere così, abbandonata. Tanto mi sembrava rassegnato all’idea… ed in fondo quel liquore non mi aveva fatto proprio bene. La gradazione alcolica si faceva pur sentire.

“Uhm… mi gira la testa” assentii. Un brivido dalla schiena al ventre al tocco impercettibile delle sue labbra sulla mia fronte, nel sentire il suo respiro sul mio viso.

L’ubriachezza pressoché inesistente mi avrebbe coperta, era un alibi magnifico per assecondare l’istinto. Allora lo strinsi forte, sentendo il mio corpo schiacciarsi contro il suo ed iniziai con la bocca a tormentargli le labbra. Lo sentii irrigidirsi stupito, poi le labbra morbide seguirono le mie. La mia mano gli scivolava sul petto, sotto la camicia. Il brivido non lo distinguevo più: mi era scoppiato dentro e vagava in ogni parte del corpo. E lui mi desiderava…

Lo sentii rabbrividire sotto le mie mani ed in quei baci costringermi a dischiudere sempre di più le labbra cercando la lingua, e sentii un fiotto di sangue che mi invadeva la nuca per farmi perdere la ragione. Fui felice quando sentii il suo corpo scosso da un brivido, ma, come se si fosse scottato,  mi afferrò il polso e mi staccò da lui guardandomi negli occhi. Ero lì, bloccata, a guardarlo negli occhi trafitta e sveglia. Mi sentii gelare.

“Non credo che sia il caso di andare avanti… Se sei ubriaca non è corretto da parte mia e sei ti fingi ubriaca non è corretto da parte tua!” disse a fatica.

Mi mancò il respiro e desiderai morire, o portare indietro l’orologio sulla parete per cancellare tutto.

Si prova un dolore dilagante nel vedersi togliere così la propria maschera, quella che si crede tanto aderente da essere confusa con la pelle. Così: per essere sbattuti senza pietà di fronte a se stessi; e quel dolore prepotente può essere scambiato per rabbia, perché ti scivola lungo le braccia allo stesso modo.

“Vattene!” gli gridai con la voce strascicata, sottraendogli la bottiglia che aveva ancora in mano e spingendolo indietro.

“Che fai ora? Ti ubriachi per davvero?” mi rispose strappandomela di mano e poggiandola con un colpo sul mobile.

“Guai a te se ti avvicini!” lo minacciai con l’indice teso e gli occhi furenti. “Tu sai sempre tutto vero?!” continuai colpendo con forza la mano che mi stava tendendo.

Riuscì a bloccarmi il polso.

“Non è vero… ma dimmi se sbaglio… Vuoi comportarti così per poi far finta di niente… perché era questo che avevi in mente… lo fai perché ti senti coperta, perché hai l’alibi… lo hai già fatto per molto meno! Tu non puoi… non puoi trattarmi così…”

Non riuscivo a parlare. Iniziai a scuotere la testa tentando di divincolarmi.

“Negalo allora! Avanti?”

Non lo negai, ma con la mano gli tirai uno schiaffo carico di tutto il dolore che sentivo. Non vidi, sentii solo il rumore del colpo sulla sua guancia, e dopo mi trovai con tutti e due i polsi intrappolati, talmente serrati che mi facevano male.

“Stupido!… Mi stai facendo male… MI STAI FACENDO MALE!” iniziai a gridare, senza riuscire a muovermi.

“E tu? Tu di male non ne fai? TU CREDI DI NON FARNE DI MALE OSCAR?!” mi gridò più forte, fuori di sé, tanto che mi fece paura.

Mi bloccò i polsi dietro la schiena, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, perché ormai non avevo più forza, perché non mi sembrava che fosse vero quello che stava succedendo, perché non conoscevo le parole giuste per pentirmi. Mi strinse forte e mi baciò in un modo che non credevo possibile: come se, senza un minimo di pietà, mi volesse strappare l’anima dalle labbra.

Non gli stupidi baci con cui gli avevo tormentato le labbra, né i baci furtivi che mi aveva rubato quando ero stata più arrendevole, né il bacio di Hans, né quelli visti al cinema; le gambe mi si piegarono e pensai che era qualcosa di osceno e disperato, così disperato che non poteva essere proprio per me.

Mi trovai sul letto con lui addosso che continuava a baciarmi in quel modo, ed io tentavo di allontanarlo, puntandogli i pugni chiusi sul petto, tirandogli i capelli, ma non avevo abbastanza forza, e non mi rendevo conto che ormai gli stavo rispondendo nello stesso modo e che gli avevo stretto le gambe intorno al bacino e che le mie mani si muovevano febbrili fra i suoi capelli e sulla schiena. Me ne resi conto completamente solo quando si allontanò; e mi accorsi che stavamo tutti e due piangendo.

Con le lacrime che continuavano a fuggire dagli occhi, girai il viso dall’altra parte, perché mi faceva male vederlo così. Lui stava seduto sul letto, immobile. Ed io a pochi centimetri da lui morivo di solitudine, come privata di un pezzo di me stessa.

Con lo sguardo perso sul muro vidi la lancetta dei minuti sul dieci..

 

In cinque minuti… tutto in cinque miserabili e benedetti minuti…

 

Rimasi supina, ferma, con le braccia piegate all’indietro e le mani sul cuscino. Non una parola.

Lui si chinò di nuovo, mi voltò il viso e mi diede un bacio sulle labbra. Io lo abbracciai, gli risposi e ricominciammo e baciarci piano. Poi sentii la sua bocca che mi bruciava il collo, la camicetta che si apriva e l’aria fredda sulla pelle nuda, il respiro caldo e ancora le sue labbra. Ed io volevo scappare e gridare, ma rimanevo, gli chiedevo muta di continuare e gli tenevo le mani nei capelli premendomi il suo viso addosso, mentre le sue mi accarezzavano sotto la gonna.

Una delle persiane in balia del vento sbatté con violenza contro la finestra, come un colpo di pistola nella mente. Iniziai a capire cosa stava succedendo e mi sentii all’improvviso nuda. Lui si fermò e mi posò la testa sul seno umido di lacrime e baci. E rimammo fermi, si sentivano solo i nostri respiri mozzati che non si distinguevano.

“Mi dispiace… Io…” disse lui con una voce impercettibile e non riuscì a continuare la frase.

Io non risposi, continuavo ad accarezzargli i capelli. E non volevo immaginare quello che voleva dirmi per non trovarmi di fronte a qualcosa di più grande di me. Lo maledissi e lo ringraziai in silenzio per essersi fermato. E non capivo, non capivo perché ci dovesse essere tutto quel dolore.

Passò un tempo infinito e troppo breve, scandito dalle lancette dell’orologio.

Fra poco avrebbe bussato alla porta il piccolo Gilbert, con la sua cartella piena di matite e pennelli, con i fogli da disegno sotto il braccio, pronti per essere appallottolati rumorosamente ed imbiancare le assi del pavimento. Il piccolo Gilbert che non si aspettava di trovare dietro la porta due stupidi adulti sfatti.

Due colpi decisi sul legno.

André si risollevò lentamente sulle braccia e mi premette forte le labbra sulla guancia. Mi richiuse la camicetta, e mi disse con il viso tirato, asciugandosi gli occhi e tentando di apparire tranquillo: “Coraggio… dai… vai riordinati, non farti trovare in queste condizioni”.

Io gli riaccostai la camicia troppo aperta sul petto e mi alzai a stento, senza aver il coraggio di guardarlo.

 

Quando uscii dal bagno loro erano intenti a controllare dei disegni. Salutai Gilbert senza guardare e passai dritta. Mi stesi sulla poltrona, dando loro le spalle, con il viso rivolto alla finestra. Il letto al mio fianco mi sembrò fosse diventato troppo freddo troppo in fretta; o che fosse troppo caldo e troppo lontano da me. Avevo le mani che tremavano ed ero tanto stanca. Caddi in un dormiveglia strano. Li sentivo parlare, ma lontano. Rumore di fogli, di oggetti spostati e di passi. Stavo quasi per addormentarmi e in un momento di silenzio sentii che André si era avvicinato, mi prendeva la mano destra, la accarezzava, e con le sue dita tracciava dei segni leggeri sul mio palmo. Mi sentii felice dopo tanti giorni ed oppressa da un ricordo che, come un pesce preso all’amo, si agitava senza tregua e senza prendere forma. Non lo volevo: avevo paura che potesse ferire. Quando si allontanò mi addormentai.

 

I ragazzi che si amano si abbracciano in piedi contro le porte della notte. (1)

Per noi le porte della notte sono sempre aperte.

Non ci si può baciare contro, perché si cade all’indietro, e ci si brucia nella luce delle stelle.

Il cielo stellato oltre le porte è strano: troppo buio o luminoso da trafiggere gli occhi.

Ogni passo per avvicinarsi è un colpo di pugnale. Una ferita ed il pugnale cade. Lo raccogliamo tutte le volte: io lo raccolgo sempre per prima.

 

 

 

Tornai a casa quella sera. Ero troppo confusa per rimanere con André e con gli altri. Tornai a casa nello stupore di Alain e Bernard. Sotto lo sguardo indefinibile del mio amore.

Prima dei fantasmi del coprifuoco. Prima di altri fantasmi ancora, acquattati fra i ricordi e pronti all’agguato.

 

Fu una notte buia, in bilico fra il tenue dormiveglia ed il sonno vorace.

Foglie verdi di valeriana per non avere altri pensieri e non rivoltare la tela di quel dannato quadro del salotto contro il muro. Per non vederla. Sempre lì spavalda. Che continuava a fissarmi.

Troppa legna nel camino. Troppo caldo. Le lenzuola sudate e stropicciate. Da me soltanto.

 

Era ancora una volta giorno e non avevo voglia di alzarmi.

Avevo l’impressione che dovesse succedere qualcosa appena avessi messo un piede fuori dal letto; l’impressione che uno spettro indefinibile si aggirasse per quella stanza e che fosse troppo difficile per i miei sensi abbattuti capire dove si acquattasse. Se sulla sponda del letto; se sulla sedia della scrivania; o se sbarrasse la porta. O se si annidasse dentro di me.

Rimanevo lì, perché forse l’immobilità ne era immune.

La strada si animava. Si sentivano rumori di passi ai piani superiori. Battiti di tacchi lungo le scale. Serrature e cardini che giravano. Scoppi di voci, suoni monotoni e continui. Il silenzio della mia stanza assorbiva come una spugna tutti i rumori del palazzo.

Io inchiodata lì, da sola. Pentita. Senza sapere se dover benedire o dannare il calmante. Con i capelli appiccicati sul collo e la fronte. Gambe e braccia pesanti, come se non fossero le mie, ma quelle di un gigante.

 

Che cavolo ci faccio qui…con il soffitto che mi deride…

 

Riuscii ad alzarmi, stupendomi di quanto fosse stato facile tornare ad essere sostenuti dalla colonna vertebrale e scostare le coperte.

Meglio alzarsi. Meglio cambiarsi. Meglio uscire.

Vedere la gonna sgualcita, sulla sedia. La camicetta caduta per terra. Aprire l’armadio. Solo abiti di taglio maschile, sotto cui nessuno può far scorrere le mani. Cappotti. Le camice ammucchiate nell’angolo in basso a destra. Tutte bianche e larghe. Anche se vanno di moda quelle morbide e conturbanti. Tutte bianche.

Accorgersi ora di non avere nulla addosso oltre il sudore che cola lungo la schiena e che fa freddo, ormai, in una casa che mi dà il voltastomaco.

Cercare una camicia. Non è difficile in fondo. Come indossarla. Come toglierla. Toglierla da sé. Sbottonarla e lasciarsela scivolare lungo le maniche.

Allungai la mano in un movimento scoordinato sfilandone una dal mezzo e capovolsi l’intera pila sui miei piedi. Un sospiro.

 

Stupida. E cretina.

 

Mi chinai di malavoglia per raccoglierle una ad una e posarle al loro posto ben piegate.

Una mi sembrò troppo larga. Non capivo come piegarla.

 

Sono appannata…

 

Aveva degli strani svolazzi. Non riuscivo a far coincidere i lembi. Era sfilacciata e ingiallita.

 

Strappata…

 

È strappata…

 

La lasciai sul letto. Tremare era l’unica cosa di cui ero capace.

È vero: i fantasmi sono bianchi e di cotone fluttuante.

“Oddio… oddio…” iniziai a dire, come se conoscessi solo quella parola.

“Oddio” dissi ancora con la mano sulla bocca, piegandomi in due e sentendo un colpo sulle ginocchia. Mi accorsi che ero caduta, nuda come una pazza e tremavo senza sapere che dire davanti ad un pezzo di stoffa. Mi piegai in due toccando con il busto le cosce, con le braccia a coprirmi la testa che mi stava scoppiando. Un dolore atroce misto alla immagini di quello che era successo e stava per succedere su quel letto la sera prima, frammenti di immagini strane… un piano, candelieri, la caraffa del cioccolato. Colpi sulla porta. Urla, delle mani. Colpi sulla porta. Una bocca, un letto. Colpi sulla porta. Uno strappo, lacrime. Le mie. Le sue. Mi accorsi che stavo piangendo davvero, ma iniziavo a sentire lentamente meno dolore.

Colpi continuavano a cadere sul legno. I colpi erano veri, veri per tutto quel tempo, sulla mia porta.

“Oscar… Oscar… Aprimi! Aprimi!”

Era André ed io lì, minuscola per terra, non sapevo che fare.

“OSCAR… OSCAR…”.

Avevo paura di alzarmi e di aprire. Avevo paura di lui.

“SEI LI' E NON MI APRI!” gridò dietro la porta.

Tentai di alzarmi con la testa che mi girava e per non cadere mi appoggiai alla sponda del letto.

“OSCAR…!”

Ebbi la sensazione che avesse la voce di pianto e mi spaventai. Non coordinavo i movimenti. Mi coprii con fatica e persi la nozione del tempo che ci mettevo. Corsi senza veder nulla nel buio dell’ingresso. Toccai il ferro gelato del chiavistello e spinsi la porta sulla penombra del pianerottolo, senza riuscire a controllare la forza.

Vuoto.

E rimasi appoggiata all’infisso della porta.

 

 

Il nascondiglio era vuoto e muto.

Ruotai la manopola della radio.

Sulle macerie del ’41 era cresciuta l’erba.

Fruscio di fondo e sibilare di onde:

“Parla Londra. Trasmettiamo alcuni messaggi speciali: è cessata la pioggia; la mia barba è bionda; la mucca non dà latte; le scarpe mi stanno strette; il pappagallo è rosso; l’aquila vola. Parla Londra. Abbiamo trasmesso alcuni messaggi speciali”.(2)

Alzai la testa dal tavolo ed iniziai a fissare la radio che ora riempiva l’aria con le note di Mozart.

Concerto per violino n. 5 K. 219.

Il vento piegò impercettibilmente i fili d’erba sul cemento. Ma io me ne accorsi.

Posai l’orecchio sul legno del tavolo e chiusi gli occhi.

Mozart tacque.

Lili Marlene.

Puntai le mani sul legno, mi alzai in piedi e sferrai un calcio alla radio.

“Ma che accidenti vuoi… Che cazzo vuoi? Sta’ zitta! ZITTA!”

Si fracassò per terra in uno stridere di onde distorte e legno spaccato, vomitando valvole e fili.

“Maledizione…” sussurrai senza forza, mordendomi il labbro.

Ora era insopportabile il silenzio. Da giorni.

“André…” dissi senza voce, con le mani gelate sugli occhi.

“André… dove sei?”

Sola, nel silenzio della stanza, col cadavere di una radio per terra ed una macchina tipografica muta.

“Dove sei…?”

Io sola lì con la mia voce lamentosa. Lui se ne era andato, mi ero precipitata giù per le scale e non lo avevo più trovato. Non c’era più la MG nel garage.

Se n’erano andati tutti. Tutti. Da giorni.

 “Io sono qui…”

Odiavo la mia stessa voce. Aveva il sapore del fiele. Aerei ronzavano in cielo.

Sperai che la terra mi inghiottisse senza pietà.

Ma non mi volle, perché avevo finto di ignorare che un uomo che sapeva ch’io non avevo un cuore avesse deciso di donarmi il suo.

 

 

 

(1) E’ un verso di una poesia di Prévert (Les enfants qui s’aiment)

(2) Messaggi cifrati per gli uomini della resistenza.

 

Continua...

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