Rumore d'ali

(De insania)

Parte V

 

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“Ma che cosa sta facendo?”

“Sta guardando i fogli sulla scrivania… Starà controllando qualche articolo”.

“E poi?”

“Solo questo… Bernard!” esclamò spazientito Alain, seduto davanti a me.”Comunque ti dicevo” continuò rivolto a me “a proposito di quel fatto, che è come cercare un ago in un pagliaio, capisci? Sono cose che a quelle come lei succedono ogni giorno… ne avevano ripescata anche un’altra con lei”.

“Ho capito! Ma è un buon motivo per disinteressarsi di quel che è successo?”

Ero indignata perché, dopo il ritrovamento del cadavere di Jeanne, era stato chiaro che nessuno aveva intenzione di scoprire chi fosse stato e che storia ci fosse dietro.

“L’andazzo è questo, Oscar... e spesso la polizia lascia correre… soprattutto di questi tempi…ché hanno altro per la testa…”

“Mi sembra una stupidaggine. Io ho bisogno di sapere… Rosalie ha bisogno di sapere… la giustizia non funziona per i più deboli? Significa questo quello che hai detto.” Non potei fare a meno di osservare.

“Alain non ti distrarre… non perderlo d’occhio, io da qui non riesco a vederlo!” interruppe ancora Bernard, che si allungava inclinando indietro la sedia.

“Non preoccuparti, lo sto controllando… però puoi pure alzarti in piedi e andare a vedere no?!”

“Ma voi due dovete stare per forza qui?” chiesi io, che proprio non comprendevo quale interesse ci potesse essere nello spiare Girodel da dietro il vetro della porta del mio ufficio.

“Solo da qui si può vedere indisturbati quello che fa”.

“Ma non capisco a cosa serva, ci sono un sacco di cose più importanti da fare invece di sprecare il tempo così”.

“Sono troppi giorni che è strano e felice…”

“Veramente sono anni che è strano e basta! E non mi preoccuperei del fatto che qualcuno è finalmente felice…” soggiunsi abbassando la voce e forse Alain, che mi guardava inquisitore e sarcastico, come sempre, riuscì a percepire la piccola sfumatura di tristezza.

“Perché? Secondo te quello non sta combinando qualcosa di losco? Ci hai assillati per anni con le tue teorie sul collaborazionismo ed ora fai retro front?” domandò Bernard.

“Non sto facendo retro front! Ne sono ancora sicura. Non credo però che il collaborazionismo abbia nulla a che fare col suo comportamento! È felice e basta. E non vedo perché debba interessarvi! State sprecando tempo prezioso ad impicciarvi dei fatti altrui. I mali della società sono altri”.

“Questa sua felicità ha coinciso col furto del mio mobile!” sentenziò Bernard, ed io incrociai uno sguardo disperato con Alain, che però mi disse: “Anche secondo me però, c’è qualcosa che bolle in pentola, magari tu non te ne accorgi perché ormai Girodel è diventato l’ultimo dei tuoi pensieri”.

“Alain… saranno fatti suoi! Non c’entra un accidente con il collaborazionismo! Voi due siete qui solo per soddisfare la vostra voglia di pettegolezzo!”

I due si guardarono ridacchiando.

“Io sono venuto qua per parlare con te di cose serie… ma non negherai che questo è divertente? “

“Ma si sarà trovata la fidanzata Alain!”

 

O avrà trovato un tesoro da mille e una notte grazie al libro di Cagliostro… a conferma del fatto che le maledizioni non esistono!

… Smettila Oscar… con questa storia del libro stai diventando più paranoica di Bernard con lo scaffale!

 

“Dici?”

“Ma sì… l’altro giorno si è presentato qui con un mazzo di fiori… Questa mattina aveva un succhiotto sul collo. Sarà quello…” conclusi io con aria di sufficienza, perché proprio non avevano capito nulla quei due e non volevo più sentire quella storia. Avevamo un sacco di cose più importanti da fare.

“Dici?” ripeté Bernard.

“Questo te l’avevo detto anch’io Bernard… sei tu che non vuoi credermi… ma il succhiotto non l’ho visto!” aggiunse Alain guardando meglio il povero ed ignaro Victor che leggeva placido nel suo elegante ufficio inondato dal sole.“Secondo me è la tipa che ci ha raccontato di aver abbordato qualche tempo fa, perché, in effetti, il succhiotto non puoi fartelo da solo” concluse indicandosi il collo.

“Sì magari è proprio quella! Risolto il mistero potete anche piantarla” risposi trattenendo l’ilarità, perché non volevo diventare loro complice.

“Significa allora che quella storia della caduta dal cielo e dei capelli morbidi è vera?”

“Magari non proprio come l’ha raccontata lui… ma c’è sicuramente qualche femmina in mezzo”.

“Non eri tu che dicevi che Victor non lo avrebbe calcolato mai nessuna donna?”

“Sì, ma parlavo a nome mio, c’è a chi può piacere… credo”.

“Già tu hai gusti un po’ diversi… dimenticavo” fece Alain, tirando fuori il solito discorso, che io feci finta di ignorare.

“Perché… ti piace qualcuno? Chi ti piace?” fece Bernard riscuotendosi dalla sua attività di spionaggio.

“No! Non mi piace nessuno!”

“Non è che ti piace ancora Hans?!” rincarò per rimanere trafitto da un’occhiataccia.

“Bernard, piantiamola dai… Lasciamola stare, ci sono un sacco di cose da fare. Ha ragione lei!” tagliò Alain, avviandosi alla porta e spingendo fuori Bernard; ma la porta neanche si chiuse che si riaprì e ricomparve Alain.

“Comunque… se ti piacesse chi dico io… io approverei. Non vedo perché almeno con me tu non debba essere sincera. Qui vorremmo tutti il tuo bene”.

“Alain… io credo che passi troppo tempo con Bernard”.

“Non mi hai risposto come al solito. Mi auguro che prima o poi…”.

“Alain… io e te siamo amici, ma non capisco cosa c’entri la tua approvazione…”

“Hai ragione, era una frase scema… io non c’entro nulla. Diciamo che sarebbe meglio che, di tanto in tanto, tu fossi sincera con te stessa…”

A questo punto aprii bocca per protestare, ma Alain non intendeva fare sconti e continuò con aria grave appoggiato alla maniglia della porta semiaperta.

“Perché tu non sei stata sincera mai, nemmeno quando ti ho vista piangere e disperare per quello stupido svedese. E questa volta fatti bene i conti…”

Stetti zitta ad ascoltarlo. Un silenzio quello, che aveva reso inutile la pausa che Alain aveva generosamente lasciato fra le sue parole per le mie proteste, e che doveva essergli sembrato come manna caduta dal cielo.

“Considera quello che questa persona è disposta a mettere in gioco per te. Bene… ti ho detto quello che credevo. Ora ho un po’ di cose da sbrigare dabbasso” e fece per andarsene.

“Alain!” dissi io in piedi a braccia conserte e lui si fermò sulla porta.

“Non riesco a capire perché tu voglia portarmi sempre su questo argomento. Credi che non sappia gestirmi da sola?”

“Altro che! Invece penso che ti gestisci alla grande! E che riesci a dare anche noi un’idea della direzione da prendere…”

“Ecco… a proposito!” dissi estraendo un plico da sotto una pila di libri e lanciandoglielo.

“Soprattutto da quando stai dando ascolto a qualcuno… ma forse, in effetti, su questo argomento…”

insinuò afferrandolo al volo.

Corrugai la fronte mentre diceva queste parole.

“Se vuoi non ne parlo più. Te ne ho parlato perché credo che André sia uno che merita molto”.

“Ed io no?” risposi piccata, portando fuori tema il discorso.

“Dipende!” fece lui nel mio più totale stupore.

“E da cosa, di grazia?”

“Se sono giorni pari… se sono giorni dispari…” fu la risposta che mi diede, mentre divertito faceva dondolare la porta per poi sparire nel corridoio alzando il plico e concludendo con “Messaggio ricevuto, comandante!”

“Ecco bravo vattene…”

 

Alain fa tutto facile.

Carta e penna per favore.

Per favore una porzione doppia di rischio, di sotterfugi per nascondersi all’avversario, pur rimanendo desti e pronti al fendente, di ordini saettati nell’aria con voce tagliente; un pizzico di apparente spavalderia ed il progetto di una fuga in Normandia; qualche grammo di silenzio ed indifferenza per costringerlo alla sola deferenza.

Per favore una gomma. Per cancellare un’immagine che torna. Io e lui avvinti in un calore che è una fitta, con le anime consunte dai battiti del cuore.

Una gomma! Per cancellare l’immagine che torna, il corpo che si ribella, l’argine che si è rotto, la scena che non si blocca e continua nella fantasia fra i gemiti d’amore (ma quale amore?) sul marmo del pavimento sotto la pioggia di luce, per fregarsene dei morti dietro le porte, dei moschetti dietro gli angoli, delle svastiche alle pareti. Io… che non so neanche come suonerebbe uno di quei gemiti attraverso la mia gola… ma che so come toccarti per farti piangere.

Ma non esiste gomma che cancelli. Non esiste penna che mi distragga. Ed i fogli bianchi pungolano l’immaginazione. E le rime per quanto siano ridicole non mi fanno ridere e non tirano su il morale; gocciolano sempre nella stessa direzione: André.

Pedanti!

Non voglio che mi si leggano in viso i sentimenti: so che è solo la scorciatoia verso il tormento.

Alain questo non lo sa. E tutto deve essere come prima. Per il bene della squadra.

 

Sì, lo so. Elenchi di alibi inutili che in quei giorni ritenevo vitali.

Era stato difficile imparare il mestiere della donna decisa. Lo avevo fatto accumulando anche pensieri del genere, senza valutare se servissero o no, ma davano un’aria maschile, come i pantaloni e la cravatta: sicuramente erano di ottima qualità.

L’importante però, è capire da quale momento in poi è vitale disimparare.

 

 

“Corri… Corri… Non girarti…” disse sottovoce, concitatamente, André attraverso le stradine caliginose, nel pestare di corsa le pozzanghere putride, calciando nella furia quel che capitava fra i piedi.

Nei vicoli colava solo un po’ di luce dall’alto e, correndo come matti col gelo che si insinuava nei polmoni, non si sentiva la puzza del marciume aggrappato alle pareti.

Eravamo quasi arrivati alla MG; si intravedeva, parcheggiata nel fondo del vicolo che stavamo percorrendo per sboccare lungo la Senna.

Sentivo solo i colpi dei nostri tacchi sul lastricato ed il mozzarsi del respiro nella corsa. Era così forte la sensazione di correre all’unisono.

La MG, che oramai cambiava targa all’occorrenza, aveva il mantice abbassato. Ci fiondammo sui sedili facendo leva sul parafango e dopo pesanti pedate sul cofano, per non dover attendere neanche un istante che passasse gente dall’altro lato della strettoia. Il motore sobbalzò e la macchina partì a razzo, schizzando nelle pozzanghere di neve grigia, sbriciolata e sciolta.

Era diventata un’abitudine polverizzare i record dei duecento metri ormai: trovare il contatto consegnare, grazie a stratagemmi vari, volantini con stampati resoconti, con stralci di discorsi di De Gaulle, con invettive contro aguzzini e foto di aguzzini; sparire con discrezione, così come si era arrivati, oppure, come quella volta, svanire nel nulla alla vista delle svastiche all’orizzonte.

André prese una curva in modo atroce e dovetti mollare il mantice che stavo tentando di alzare per passare più inosservati.

“Accidenti…” esclamai succhiandomi il dito ferito.

“Ti sei tagliata?”

“È una questione d’onore… Ci devo riuscire!” mormorai accanendomi contro il gancio traditore per avere la meglio.

“Non sarò io a fermarti allora!” osservò fra il divertito ed il rassegnato.

“Alleluia!” giubilai tornando a sedere soddisfatta, dopo avere sistemato l’oggetto che mi aveva opposto resistenza.

“Fa’ vedere” disse lui guidando con una mano e prendendo con l’altra la mia sanguinante.”Ti sei svenata?!”

“No!” risposi ritraendomi subito dal piacere profondo che provavo a quel contatto. Contatto che mi ricordava il calore delle sue mani immaginato quel giorno nei casermoni grigi attraverso gli abiti pesanti. “Il taglio è piccolo. Dalle dita esce sempre troppo sangue…” aggiunsi distogliendomi dagli occhi che teneva puntati nei miei.

Mi sentivo il volto in fiamme e continuai a fissare l’ignobile taglietto sanguinante, perché se avessi retto il suo sguardo alla fine, non so per quale incomprensibile motivo, forse avrei pianto. E mi concentravo con aria contrita sul taglietto che non mi faceva neanche male.

André mi guardava di tanto in tanto in silenzio: intuiva quel che stava succedendo, senza perdonarmelo però. Poi fissò la strada e non parlammo per tutto il tragitto.

Non era quello il modo più semplice di gestire la situazione, era solo il meno rischioso: così si rischiava il meno possibile di essere felici, ma io mi ostinavo a non voler cambiare nulla della mia vita e a dirmi che in quel momento la cosa più importante era essere una spina nel fianco per le svastiche.

Pensieri di una mattina d’inverno, buttati contro il finestrino ed il cruscotto coperti di brina, così, come se fossero sale, mentre bruciavo e case correvano veloci davanti agli occhi.

Solo alcuni giorni dei più stupidi della mia vita.

 

 

Oltre a stampare clandestinamente volantini che incitassero alla rivolta, avevamo deciso di stampare anche certificati di battesimo falsi (1). Di ebrei ne erano rimasti pochi, ma quei certificati potevano ancora salvare qualcuno: valeva la pena provare, ed anche in fretta.

Una sera rimanemmo io ed André a finire questa operazione: prendemmo come esempi i nostri certificati ed iniziammo a fare delle prove di stampa ed a individuare quali fossero più simili agli originali. Lui, che aveva la mano più sciolta di tutti, si occupava di contraffare le firme.

Il sole era tramontato da ore nell’aria tersa e gelida sulle macerie di fronte alla porta del nascondiglio. I muri ci riparavano solo dal vento. La temperatura in quelle stanze era bassissima.

Io facevo fatica a tenere aperti gli occhi nella luce tenue del lume ed a distinguer una bella firma da uno scarabocchio.

Quando ebbi l’impressione che le palpebre fossero troppo pesanti e che il gelo rendesse insopportabile il respiro, bevvi da una fiaschetta di metallo un po’ di cognac sfuggito al razionamento grazie alle solite mani (Bernard). Non ero più abituata a bere alcolici e quelle gocce brucianti a stomaco vuoto, più che a scaldarmi, iniziarono a farmi girare la testa ed a vestire da parole quelle che sarebbero dovute rimanere solo idee mute.

André, lasciata la penna, si strofinava gli occhi stanchi e controllava che le mani screpolate non fossero rimaste bloccate dal freddo.

“Sei stanco? Ne vuoi un po’?” gli chiesi porgendogli la fiaschetta.

“Sì… grazie” e ne bevve un sorso, mentre io non demordevo tentando di controllare i certificati e mi premevo le dita sulle tempie.

“Faccio l’ultimo ed andiamo via… Passerai domani?” aggiunse titubante.

“Da dove?” gli chiesi con il cognac che scorreva selvaggio fra i pensieri.

Lui esitò un po’ prima di rispondermi “Da me… Non preoccuparti: è quasi finito il quadro”.

“Ah… scusa… è l’alcol…”

E sempre l’alcol lasciò che abbandonassi il timore di parlare dei giorni precedenti, per fargli una delle domande peggiori che mi fossero mai venute in mente: “Ma tu sei abituato a lavorare con le modelle?”

“Che vuol dire?” disse alzando incredulo gli occhi dal foglio.

“Se ogni volta che devi disegnare devi avere una modella”.

“Dipende da quello che devo disegnare… se devo ritrarre una donna sì… ho bisogno di una modella” mi disse nella luce oleosa della lampada, con l’aria di chi non sta svelando un mistero e si stupisce del percorso che all’improvviso stanno per prendere i discorsi.

Nella confusione che avevo in testa stavano riaffiorando i racconti di Jeanne. Racconti narrati al fumo di una sigaretta sottile che arabescava nell’aria; racconti in cui lei era perennemente nuda, a due metri dall’artista, ed in cui perennemente l’artista, nel mostrarle la posa giusta, la palpeggiava finendo ad ansimare e sudare con lei…

“E le donne nude?”

“Cosa? Perché?” il mio povero André non credeva alla sue orecchie, lui reggeva il cognac meglio di me.

Aveva iniziato ad insinuarsi in me l’immagine di lui al cavalletto con di fronte una donna dalle rosee carni in vista, ed il pensiero che andasse a finire come in una delle storie di Jeanne.

“Svestite!” aggettivai, perché ormai Bacco parlava per me, che mai avrei osato fargli solo intuire pensieri del genere, soprattutto visto come si trascinavano le cose dopo la passione intuita in quell’abbraccio.

“Può darsi…”

“Che significa può darsi?” gli chiesi vedendo che ricominciava a scrivere.

Bacco mi diceva che può darsi significava sì. Arrossii violentemente. Lo avrei sgridato ed avrei pianto in silenzio, ma l’unica cosa di me che non cedeva a Bacco era l’orgoglio: in me l’orgoglio è sempre stato l’ultimo sconsolato baluardo.

“Ed è divertente?” insinuai viscida, come se fosse palese che non mi importava se fosse divertente o meno, e chiedendo a me stessa, in modo lucido e scoperto, se loro nude perché io vestita. E perché non si era mai dibattuto su questo particolare. Perché non mi trovava abbastanza bella? Non che io avrei mai acconsentito… anzi lo avrei schiaffeggiato, se me lo avesse chiesto. Dopotutto ero a disagio da giorni perché avevo paura dei miei stessi desideri, perché volevo piegare anche il desiderio alla ferrea logica; ma il desiderio è impalpabile, non si può piegare, si scioglie per scorrere e si condensa per pesare quando meno te l’aspetti. Non finisce di tormentarti neanche se gli cedi.

“A volte” mi rispose con l’intento di farmela pagare per quelle giornate di fughe e monosillabi.

Ed ebbi voglia, con le lacrime che lottavano dietro le ciglia, di dirgli che era un porco e uno stronzo. Ma non parlai perché il baluardo dell’orgoglio mi impediva di dargli la soddisfazione di mostrarmi colpita.

“Ho finito, sarà meglio andare via. Il coprifuoco è iniziato da un pezzo, è molto tardi. Domani mattina ci aspettano alle cinque e mezzo fuori Parigi, alla vecchia fabbrica di pentole abbandonata. Bisognerà partire almeno un’ora prima per consegnare questi” concluse, come se nulla fosse successo, raccogliendo i certificati falsi.

Costrinsi disperatamente una lacrima a rimanere nell’occhio e la luce del lume si trasformò in mille stelline tristi.

 

Facemmo il cammino dal nascondiglio al garage in un silenzio rotto solo dal rumore dei pezzi di cemento smossi dai piedi, nella luce di una luna tanto vicina che sembrava si potesse toccare solo tendendo una mano. Ogni tanto lui, che reggeva una torcia elettrica per illuminare il tragitto, mi chiedeva di stare attenta, ma io facevo di testa mia e quando fummo nel garage mi diressi verso l’uscita. “Oscar dove vai?” domandò lui addossando il mobile alla parete.

“Torno a casa… è tardi. Lo hai detto anche tu”.

“C’è il coprifuoco… è troppo lontano, se ti trovano per strada…”

“Mi aspetta Rosalie!” mentii.

“Ma scusa… non era tornata a casa sua? Oscar…”.

“A questi ci penso io” dissi sventolando i certificati.

Non lo lasciai finire che ero già per strada con l’eco della porta sbattuta alle spalle; non lo lasciai finire che già sotto la notte trasparente, attraverso cui si contavano tutte le stelle, i miei passi si avviavano verso casa e mai lo avevano fatto con una tale fretta.

Mi venne in mente che qualcuno una volta mi aveva detto che le stelle brillano più forte prima di spegnersi e pensai che era il giusto destino per quelle stupide che, in una notte calata sulla terra per piangere, splendevano arzille nel buio; mi venne in mente che forse me lo aveva detto André ed attraversai il buio più veloce e decisa, senza curarmi delle ombre.

Un braccio dal buio mi scivolò intorno al collo, umido e puzzolente di vino.

Mi si bloccarono le gambe ancor prima che una voce grave ed impastata mi fiatasse nell’orecchio.

“Zoccola la borsa!” ed una punta di metallo gelata mi si posò sulla guancia.

Istintivamente cercai la pistola, ma non la trovai: nella confusione che avevo creato dentro e fuori di me con poche gocce di cognac l’avevo dimenticata nel nascondiglio.

“No ho soldi…” riuscii a dire sicura, tentando di riprendermi dalla sorpresa e di prepararmi a sferrargli una gomitata nello stomaco.

“Sì… ma mi sembra che hai sicuramente altro da offrire!” disse la voce catarrosa, puzzolente di vino, e una lurida lingua mi scivolò sulla guancia, mentre il pugnale si allontanava e le manacce mi strisciavano addosso.

Di gomitate gliene tirai una e poi un’altra con tutta la forza che avevo. Si lamentava, incassava e non mollava la presa. Vedevo riflessa sul lastricato la sua lurida ombra che mi ghermiva per le spalle e non riuscivo a gridare: la voce si seccava in gola.

 

È questo… succede questo? Jeanne? È così che è andata? Nel buio dei vicoli la paura si raggruma e ti punta un pugnale in viso?

 

Poi sentii un rumore sordo, un urlo ed il peso di quell’uomo caracollare sulle mie spalle.

“LASCIALA… TI AMMAZZO!” gridò attraverso il buio la voce di André.

Caddi per terra con le mani sui sassi, nell’acqua di una pozzanghera, mentre quello si rialzava e partiva alla carica con il coltello lucente. Due figure si colpivano nel buio. L’ombra tozza e disarticolata bestemmiava rauca fra i colpi. André gridò “VATTENE, SCAPPA VIA!”. Colpì la mano dell’uomo con un calcio e il clangore del coltello rimbalzò sulla pietra. Lo spinse contro il muro più volte. Ebbi l’impressione di sentire un rumore di ossa. Le ombre si mischiavano e allontanavano fra le minacce; sentivo il sudore scivolare lungo la schiena. Ora sì. La paura, tutta quella che non avevo mai provato era lì, nelle mie mani fredde e disarmate. Feci forza sulle gambe per rialzarmi dalla pozzanghera. Mi ripetevo all’infinito una litania: che ero una stupida. Sulla neve semisciolta e fosforescente sotto le stelle c’era una scia bruna. Un altro urlo di dolore rabbioso e pregai che non fosse di André. L’energumeno sferrò un colpo ed il mio André cadde con grido strascicato sulle ginocchia. Fu come se un artiglio mi avesse afferrato il cuore e non lo mollasse.

“Bastardo!”e quella parola mi screpolò la gola anche se non riuscivo a gridare. Mi lanciai sulle spalle grassocce, lo afferrai per il collo ed iniziai a stringere, ad affondargli le unghie nella gola. Si muore un po’ quando si scopre che la pietà si inchina ad altri istinti, ma l’importante è che le unghie feriscano a dovere.

“Zoccola… zoc… co… la” continuava a sbraitare, mentre barcollava e girava su se stesso senza cedere, tanto che mi girava la testa. Alzai gli occhi verso l’alto disperata, il sudore caldo e le dita nervose bloccate su quel corpo, in tempo per cogliere con gli occhi l’istante in cui André, che si era alzato, lasciava cadere sulla testa del balordo una pesante legnata con il calcio della pistola.

“Fatti un sonno!” disse con una voce sorda, mentre io affondavo verso il pavimento su quelle spalle che finalmente si afflosciavano come una primule.

“Andiamo… alzati! Prima che si riprenda!”

Mi prese la mano prima che potessi trarre un sospiro e capire che ero all’improvviso felice, e mi trascinò via correndo. Ci allontanammo di corsa nell’aria ghiacciata e brillante, lasciando l’assalitore ed il suo tanfo di vino spalmati sulla pietra.

 

Si può essere felici per questo. Stiamo diventando tutti dei mostri.

 

 

La mia mano tremava in quella di André fredda e rigida, percepivo solo questo e quel silenzio che non ci sarebbe dovuto essere. Mi ricordo solo che, all’improvviso, ci trovammo lungo le scale di casa sua, che la porta si chiuse con un cigolio ed un tonfo alle mie spalle; di fronte a me la finestra che dava sul parco sotto una luna gigantesca e niente aria gelata sul viso. Accese il candeliere e m’illuminò il viso accecandomi; non vidi nulla per un attimo e sentii solo che mi sollevava il viso con la mano.

“Che ti fatto?” mi chiese controllando nella luce che fossi tutta intera. Non mi era successo nulla, ero solo spaventata e trafelata, ma non avevo intenzione di dimostrarlo.

“Di cosa ti preoccupi?” gli dissi, ma il tono con cui lo feci era troppo duro anche per me stessa, tanto che ebbi la sensazione di iniziare a sanguinare in quel momento.

Riuscii ad aprire gli occhi e a vedere il suo viso tirato, pallido; un livido gli si stava allargando sullo zigomo. Non aveva ferite, non mi vergognai a pensare che per fortuna il sangue era di quell’altro. Si piegò sulla stufa, per accenderla.

“Hai un livido sul viso…”

“Non fa nulla”.

“Dovremmo metterci del ghiaccio…”. La mia voce non era molto ferma.

“Non c’è n’è Oscar… di ghiaccio…”

Mi faceva male sentire la sua voce incolore. Cercai nelle tasche la fiaschetta del cognac, la trovai ed iniziai a svitare il tappo. Me la tolse di mano e mi porse un bicchiere d’acqua, che iniziai a sorseggiare sperando che mi desse coraggio, perché di ghiaccio in quella stanza c’è n’era tanto e lui non mi sembrava più lo stesso di prima.

Si sedette e poggiò i gomiti sulle ginocchia e chinò la testa. Io rimasi con il bicchiere incollato ad un labbro, aspettando che mi dicesse qualcosa. Si tirò indietro sulla sedia guardandomi.

“Perché?” mi disse in un soffio.

Abbassai gli occhi e ricominciai a sorseggiare. Era difficile rispondere a quel perché: quella sera un perché implicava risposte per troppe domande; risposte che suonavano stonate.

“Mi è tornata in mente Jeanne…” fu l’unica cosa che riuscii a dire e che non mi avrebbe aiutata a sciogliere il ghiaccio.

Lui si passò una mano fra i capelli e rimase in silenzio col gomito sul tavolo. Io pensai che i suoi occhi anche in quella luce fioca erano bellissimi. Eravamo fermi come due statue col candeliere degli amanti che, mai restaurato, perdeva vernice sul tavolo, quando mi venne in mente una cosa.

“Posso lavarmi il viso per favore?” gli chiesi e lui mi indicò con sguardo interrogativo il bagno.

“È che quel tipo… mi ha leccato la faccia…” mi giustificai, e vidi affiorargli una smorfia di dolore sul viso prima di infilarmi in bagno, pentita di aver parlato. La mia immagine riflessa nello specchio era insopportabile: una valchiria scarmigliata e sudata di fronte all’amarezza che mi sgorgava dentro.

 

Ero ancora sveglia, con le coperte tirate sul naso nel suo letto. Lui si era steso su una brandina dall’altra parte della stanza. Mi aveva accompagnata vicino al letto e con una carezza impercettibile sulla schiena mi aveva detto: “Cerca di dormire, mi raccomando. Puoi prenderlo tu”.

Questa volta non protestai e vidi un barlume di speranza.

Ora nel buio si sentiva il ticchettio dell’orologio, un tarlo che banchettava, lo stormire degli abeti crudeli del parco. Non riuscivo a dormire ed avevo l’impressione che anche la luce degli astri attraversasse le tende facendo rumore per andarsi a posare sulle spalle di André e che, sottile sulla sua camicia bianca, non potesse che abbagliare.

C’era il ticchettio dell’orologio. C’era il tarlo. C’erano gli abeti e la luce delle stelle.

Non c’erano che il ticchettio estenuante di un marchingegno, un tarlo ingordo, lo stormire di stupidi abeti ed una luce rumorosa. Sarebbero cresciuti a dismisura fino a saturare tutta la stanza.

Quella luce che disturbava le tenebre mi sussurrò che la catena che mi legava all’uomo che se ne stava rannicchiato dall’altra parte della stanza non mi avrebbe concesso di dormire, mai più probabilmente; e che la paura che avevo provato quel giorno che avevo sentito dentro di me rompersi un argine, anche se continuava a pungere come un ago da qualche parte, nell’anima o nei ricordi, non poteva tenere il passo del batticuore.

Lanciai via le coperte e mi misi a sedere in mezzo al buio.

“André!”

“Che c’è?”

 

Che dolore le parole brevi, centellinate per non lasciare trapelare nulla. Da giorni ormai.

 

“Ti ascolto” aggiunse come se anche lui avesse provato la stessa mia triste sensazione.

“Sei arrabbiato con me?”

“No. Non lo sono Oscar” rispose senza esitare, con la voce che era tornata bassa e calda, voltandosi verso di me nella luce debole.

“Dimmi la verità André…”

Avrei voluto aggiungere “E perché non ci parliamo più allora?”, ma non potevo, perché avrei dovuto dare io delle spiegazioni; lui me le aveva chieste prima e non ne ero stata capace. Ma non riuscivo a spazzare via l’angoscia di quei silenzi sempre più lunghi, scanditi dall’orologio, dal tarlo, dallo stormire d’aghi d’abete, riempiti dalle stelle che temevo avrebbero fatto irruzione da dietro la tenda.

“Ti ho detto la verità. Visto come stanno le cose… Non ti mentirei mai” continuò spezzettando il discorso.

Non riuscivo a credergli. Fra i rumori della stanza e nel vuoto fra me e lui rimanevano sospesi troppi perché. Troppi perché nati senza un motivo tangibile. Nessun perché, nessuna domanda poteva essere formalizzata, perché aveva radici deboli. Aveva radici nei sogni sbiaditi delle notti trascorse da sola, nella sensazione familiare ed impossibile del suo corpo sul mio… nel mio. Nulla poteva essere spiegato, perché nulla era reale; e forse Oscar stava impazzendo: sentiva sempre di più la sensazione di vivere attraverso gli occhi di André la vita di un’altra persona. Ed in fondo nemmeno Oscar era il mio vero nome. Se non mi limitavo a pensare che, impercettibilmente, la mia sente di giustizia si stesse placando, avevo l’impressione che tutto fosse in caduta libera.

Le mie mani stanche sui lembi della coperta. L’impossibilità di trovare le parole, che se ne stavano come stanno le bottiglie vuote sulle spiagge abbandonate.

 

Tu lo sai… Tu lo sai e non parli André…

 

“Oscar… Se provo rancore è contro me stesso… Ho sbagliato delle cose… e forse ne sbaglierò altre”.

“Ma cosa dici…” protestai piano, sentendomi peggio, perché non lo seguivo.

“Avrei dovuto capire che il tempo deve passare… deve passare del tempo… ancora. E non devi avere paura… tutto sarà chiaro…”

“Ma cosa dici André! Non fare questi discorsi… non ti capisco… non capisco cosa vuoi dirmi. Cosa c’entra questo con quello che è successo stasera?” assalita dall’esasperazione.

“Perché? Tu credi che sia successa qualcosa solo stasera?” con la voce tornata sicura.

No. Non lo credevo. Ma non ne parlai.

“Per favore André!” poi aggiunsi spaventata dalla mia stessa reazione: “Per favore… Io non ho voglia di litigare con te…”

“Non è detto che parlarne significhi litigare”.

“Lo so…” mentii.

“Forse ora è meglio cercare di dormire”. Aveva capito che non riuscivo a parlare. “Ci dobbiamo alzare fra poche ore… Hanno bisogno di noi. Sarà meglio essere più calmi e più lucidi di adesso”.

Ricadde il silenzio.

C’era qualcosa che mi tormentava: delle parole ferme sulla soglia del cuore forse, però non le distinguevo, nonostante la luce ancora chiassosa delle stelle.

Decisi di fare una cosa. Anzi no. Non lo decisi. La feci.

Mi alzai ed attraversai la notte che mi separava da lui, sulle punte dei piedi nudi sulle assi di legno ruvido. Poi sentii il rumore della brandina che cedeva sotto il mio peso.

“Che c’è?” chiese lui stupito.

Io lo ero più di lui, ma mi imposi di non rispondergli e di fare quello che sentivo il bisogno di fare. La luce delle stelle non mi aiutava più a distinguere nulla; non so se perché era più buio di quanto credessi o per la paura che tentavo di ignorare.

Allora con una mano cercai il viso mi chinai lentamente, mentre ascoltavo il suo respiro che si faceva veloce, “Buonanotte André” gli dissi e poggiai leggermente le mie labbra sulla sua guancia; lo sentii sospirare e rabbrividire a quel contatto. Non sentivo più il rumore delle stelle: i battiti del cuore mi assordavano le orecchie. Gli sfuggì un piccolo gemito, come di dolore.

Mentre la mia bocca lasciava il suo viso mi ricordai di una cosa: che dovevo avergli fatto male; era stato colpito su quella guancia ed era su quella guancia che per colpa mia aveva c’era quel livido, che non aveva voluto gli medicassi. Mi sentii un’idiota.

“Oh… ti prego… scusami… scusami André, ti ho fatto male…” non sapevo che dire, nell’imbarazzo per un gesto che non mi aspettavo di riuscire a compiere, e nella mortificazione, per la capacità solo mia, di rendere doloroso anche un bacio della buona notte.

“Scusami…” dicevo, senza saper dire altro.

“Non mi hai fatto male…”

“Scusami…” continuavo a dire in una vampata di sconforto, mentre nell’ombra distinguevo il luccichio dei suoi occhi.

“Così guarirà prima!” disse divertito e dolce sollevandosi sui gomiti.

“Che stupida!”

“Smettila Oscar…”

“È che…”

“Smettila!” mi interruppe, e poi non potei dire più nulla perché mi avvicinò il viso e mi diede un bacio leggero sulle labbra. Tentai di continuare a parlare senza mostrarmi impressionata: “Io…”

“Zitta” e le sue labbra erano di nuovo sulle mie in modo che poteva diventare pericoloso, con una sensazione di piacere e dolore, però si allontanò quasi subito.

Allora rimanemmo zitti a guardarci nel buio; lui mi teneva ancora la mano sulla nuca. Nella mia nuca si annidavano in un brivido gioia e paura che mi fecero sussurrare qualcosa di simile a questo: “Ora… ora però… buonanotte… è tardi… e mi è venuto sonno… ci dobbiamo alzare presto… i certificati…”

“Sì, fra due ore… sarà meglio” mi appoggiò lui, sciogliendo la presa sulla nuca in una carezza.

“Buonanotte Oscar”.

“Buonanotte”.

Si era fatto tutto tranquillo. Non c’era più nessun rumore.

 

 

Missione compiuta!

Consegna riuscita sotto un’aurora di campagna, umida di brina. Scorie di adrenalina nelle vene e sole di fronte agli occhi. La MG che, al limite della sua automobilistica resistenza, volava verso Parigi. La Tour Eiffel al centro dell’orizzonte; mi sembrava che prima non ci fosse.

Da quei giorni, gettare il cuore oltre gli ostacoli e le svastiche, non ci sarebbe mai sembrato abbastanza.

Questo ha sempre fatto parte della nostra storia, con il dubbio di non essere mai abbastanza.

 

Nell’ultima parte del tragitto André era pensieroso. Avevo indugiato sul paesaggio che scivolava via sotto il sole ancora basso all’orizzonte.

Sotto casa mia, spense il motore e rimase con le mani e lo sguardo sul volante. Io rimanevo in silenzio al suo fianco: ancora il disagio di non capire che strada prendessero i suoi pensieri.

“Ascolta Oscar…”

“Dimmi”.

“Voglio dirti a proposito di quelle domande che mi hai fatto ieri… quando eravamo giù al nascondiglio…”

“No… Non mi va di parlarne veramente…” mi affrettai a precisare, ricordando lo stupido discorso al cognac della sera prima: il ritrarre le modelle nude, il fatto che a volte fosse “divertente” e la mia rabbia.

“Senti…”

“Non devi spiegarmi niente André” tentai di tagliare corto, dandomi un tono. Non volevo parlarne. Non volevo associare delle immagini alle parole; e mi vergognavo di aver iniziato un discorso che non ero in grado di sostenere.

“Sì invece… perché non voglio che tu creda a cose che non sono vere… che non sono mai successe” insisté lui guardandomi.

“Che significa?” mi chiedevo ed ero imbarazzata, perché non era un argomento che ritenevo di essere in grado di affrontare. Lui però mi fissava e si aspettava che gli dicessi qualcosa.

Mi sforzai di guardarlo, anche perché ne avevo bisogno e tentai di dire qualcosa.

“Vuoi dire che tu non…” ma non feci in tempo a finire, perché all’improvviso uno scroscio cadde sulla macchina, scuotendola, gocciolando dalle giunture del mantice e scivolando pieno di bolle lungo i vetri.

“Porca miseria! È la tua vicina della radio?!” esclamò André

“Accidenti a lei!” aggiunsi io.

Mentre io, ferma sul sedile, non mi capacitavo alla visione della saponata che mi scorreva davanti agli occhi, André uscì dalla MG e gridò spazientito: “Signora! Ma almeno è acqua pulita?”

Mentre tentavo di uscire dalla macchina dalla parte del volante la sentii rispondere che sì, ci aveva lavato il pavimento con quell’acqua. André stava di fronte alla macchina con espressione afflitta e comica. Con la mano gli strinsi il braccio per consolarlo.

“Te l’avevo detto di non parcheggiare qui, perché l’arpia butta i suoi liquami, André”.

“Me ne ero dimenticato” mi rispose abbassando gli occhi mentre gli scappava da ridere.

C’era solo da ridere ormai, ma ci mordevamo le labbra per tentare di rimanere seri, pur sapendo che allora era impossibile riprendere il discorso interrotto.

“Ehi ragazzi!”

Era Alain che si avvicinava lentamente, pedalando in piedi su una bicicletta.

“Buongiorno Alain!”

“Per la miseria! Anche tu? André che ti è successo in faccia?” chiese sbigottito incrociando le braccia sul petto.

“Nulla… c’è stato un contrattempo ieri sera, dopo il coprifuoco, ma non sono stati i militari… per il resto è andato tutto come doveva” disse alludendo alla consegna dei certificati falsi.

“Bene!” annuì soddisfatto Alain. “Ma siete scemi? Eravate un giro dopo il coprifuoco?” aggiunse sbigottito.

Nessuno rispose.

“Ti fa male? Sei stato fortunato, poteva andarti peggio amico”.

“No, sto bene. Non preoccuparti, lo sai che tengo duro”. La frase che aveva detto Alain mi fece venire i brividi.

“La notte di Parigi sta diventando davvero invivibile… ogni mattina o cadaveri o ematomi… qualche esplosione… accidenti a loro, chiunque siano!”

“Perché prima hai detto anche tu? Ci sono stati altri problemi stanotte?” chiesi io.

“Chiedilo a Victor: lo hanno trovato pesto, imbavagliato, nudo e lacrimante in salotto!”

Credo che l’espressione mia e di André fosse molto eloquente perché a quel punto, mettendo la ciliegina sulla torta, osservò: “Vorrei veramente capire in che razza di storia di cacca si è andato a cacciare! Te l’avevo detto comandante che qualcosa bolliva in pentola!”

 

 

(1) Idea suggeritami da Laura.

 

Continua...

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