Rumore d'ali

(De insania)

Parte XIX

 

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“Ho riguardato le pagine precedenti di questo diario ed ho la sensazione di aver scritto un sacco di scemenze patetiche. Ma fa niente. Le penso ancora, ma le scriverei con parole diverse, probabilmente perché non sono del tutto sobrio… Ieri era giorno di paga e abbiamo festeggiato.  Affogare nell’alcol non serve a nulla: serve solo a distrarsi per un po’ in compagnia, ad accettare come battute di spirito delle osservazioni idiote, a sentire i rumori triplicati e a credere, in tutto ‘sto macello, che i tuoi problemi siano spariti. Serve per un po’ ad alterare la coscienza ma poi arrivo sempre al bicchiere che fa traboccare l’ultima goccia e l’ebbrezza mi mette addosso una gran voglia di piangere e urlare come un ragazzino, e non posso giurare di non averlo mai fatto: a volte mi sono svegliato nella mia branda senza ricordarmi come ci sono arrivato. A volte anche pesto. Una sera un uomo mi ha detto di stare attento a non perdere oltre l’occhio anche la testa. Ma non mi serve questo consiglio: la testa l’ho persa molto tempo prima dell’occhio.

Sono il tipo da sbornia triste, lo sapevo ma non riesco a farne a meno. Anche quando andavamo a bere in due, io e lei, tornavo a casa col magone. Anche lei. Ma era diverso, eravamo in due, ci facevamo coraggio ed aveva quasi un senso darsi a un divertimento che diventava alla fine un supplizio. Oggi, durante l’esercitazione, se n’è accorta che non stavo bene e credo che sia arrabbiata. Non è in grado di darmi lezioni però.

Accetto questa prigionia solo per vederla ancora e sperare di proteggerla: le mie giornate hanno senso solo così, ma non basta a farmi smettere di bere.

Adesso mi gira la testa, avrò preso una botta, e non vedo quasi più…”.

 

“Stanno rientrando alla spicciolata tutti gli altri. Non so se sentirmi sollevata o preoccupata per non averlo visto uscire stasera. Di sicuro non posso andare a controllarlo nelle camerate.

Anche se ho la febbre non ho ancora le allucinazioni e ho visto benissimo che oggi non stava bene.

Ho visto che era pallido, nonostante il sole gli abbia scurito il viso, e coordinava i movimenti in modo incerto e lento. Lui che ha sempre preparato e smontato armi in poco tempo e senza neanche dover riflettere. Quando ho dato l’ordine di preparare i fucili ho visto con la coda dell’occhio che non riusciva a montare l’alabarda, come se gli tremassero le mani e stesse per avere un mancamento. Che dovevo fare? Ho spronato il cavallo in quella direzione per controllare, ma non ho detto una parola per non attirare l’attenzione su di lui. Ho finto di spostarmi per avere una panoramica migliore, sono andata e venuta da quella parte dello schieramento più volte. La veritа è che non sapevo che fare. Li ho rimproverati tutti di lentezza e distrazione perché ho trasformato la tristezza in rabbia, in modo che nessuno capisse che mi stavo preoccupando per lui. Inconveniente questo che esisteva solo nella mia testa: tutti erano impegnati a pensare a ben altro. 

E' sicuramente per quel maledetto vizio penso, guardando le bottiglie di liquore e i calici che invadono il mio tavolino. Non posso far prediche a nessuno.

Ieri sera quando sono rientrati dalla bisboccia quel presuntuoso di Alain credeva di abbindolarmi con quel teatrino… La piazza d’armi era illuminata dalle fiaccole e, per caso, visto il tempo gradevole, ero uscita dal mio ufficio a godermi la brezza della sera. I miei uomini stavano rientrando dai bagordi e non avevo intenzione di interferire in nulla. Solo di guardare la sera e non i muri del mio ufficio. Finché non li ho visti. Camminavano in tre: Alain, Gerard e André sorretto nel mezzo. Quando Alain mi ha visto ha iniziato a fingere di conversare, di avere da dire qualcosa di particolarmente divertente. è uno che si crede divertente. Gerard reggeva il gioco, ma non era disinvolto. Credevano che me la sarei bevuta, ma me ne sono accorta che lui non era cosciente e lo stavano portando di peso nelle camerate. “Non è vero Grandier?” recitava quell’ipocrita di Alain. Non ce l’ho fatta a trattenermi. “Soldato Soisson! Fermatevi immediatamente!” ho urlato. Ed ancora una volta ho pensato che la mia voce è fatta proprio per dare ordini. Sono scesa dai gradini e mi sono avvicinata a loro con passo sostenuto. “Che diavolo sta succedendo qui? Cos’ha?” ho chiesto furiosa, vedendo il capo di André abbandonato sulla spalla Gerard. Ero spaventata, ma mi sono mostrata furiosa.

“Niente che non gli passerà comandante” ha risposto Alain con quella faccia di bronzo che si ritrova, mentre Gerard taceva. Si capiva da un miglio che avevano bevuto come spugne: di certo non profumavano, vino, piscio e vomito.

Stavo per avvicinarmi e prendergli il viso fra le mani e chiedergli “André, cos’é successo?”, ma non l’ho fatto.

“L’ha sfinito un’amante focosa. Nelle osterie ci sono delle belle ragazze e certe te lo riducono proprio all’osso” ha detto quel bastardo e lo ha detto apposta perché ha visto che ero preoccupata e stavo cedendo. Ho sentito un calore improvviso sulle guance e qualcosa di liquido che rischiava di bagnarmi gli occhi. Credo di averlo incendiato con lo sguardo.

“Che volete. E' adulto. Lasciatelo in pace. Siete forse sua madre?”. “Certo che no!” avrei voluto rispondere. “Siete la fidanzata? Siete per caso sua moglie?” ha chiesto per scavare più a fondo, e fare più male.

“No” ho risposto secca, per non dargliela vinta e l’ho anche guardato negli occhi. “Sono cose che passano” ha detto e si sono avviati verso le camerate.

Ho pensato di dirgli di portarlo in infermeria. Ho pensato di dirgli di portarlo nel mio ufficio. Ma non potevo dire niente perché aveva ragione. Ho fatto un passo, poi mi sono bloccata, senza saper che fare. Si è mosso a compassione e di spalle ha confessato: “Ha solo bevuto troppo. Stavo scherzando”. Mi sono stretta nelle braccia, ancora senza saper che fare. La sera mi è sembrata umida. E mi sono chiesta quanto avesse bevuto per ridursi così. Avevo addosso la stessa sensazione di quando lo trovai nelle camerate riverso nel suo sangue”.

 

ЖЖЖ

 

“Cazzo che vino… mi ha bucato il fegato: posso sentirlo bestemmiare da qui. Mi fa male. Sembro proprio un soldato della guardia. Non ho bevuto il sorso della mazzata finale stasera. Sono più lucido del solito. Quanto basta per reggere la penna. Quanto basta per essere riuscito a ricordare, nel guazzabuglio di cose che mi nuotano nell’alcool, una cosa che non so se fa bene o male. Una bevuta a base di Cabernet sul retro di palazzo Jarjayes. Molti anni fa. Due bottiglie. Una a testa: se no era poco. Se ci penso ora i motivi non erano ancora abbastanza validi per spaccarsi il fegato. Lei era rimasta turbata dall’averli visti scambiarsi sguardi fin troppo eloquenti. Sapeva bene di non essere guardata da lui in quel modo. Io come ti guardo Oscar? Sei fortunata ad aver visto solo degli sguardi. Sei sfortunata a dover intuire cosa segue gli sguardi. Cosa segue gli sguardi Oscar?

Alla fine ridi, per convincerti che non ci pensi, e sollevi la bottiglia incollata alle labbra. La sollevi in verticale e te la scoli completamente. La abbassi, con un gesto lento. Non immagini di essere cosi lenta e poco lucida.

“Guarda che lo so che lui ti piace” mi sento dire con la voce impastata. E tu non te l’aspetti e guardi altrove. Ha parlato il cuore anestetizzato. Col tempo è diventato sempre più difficile stordirlo come quella sera.

“Renditi utile” mi dici. Ti tiri su e barcolli. La bottiglia vuota rimane sull’erba. Non so se ho voglia di rendermi utile, sono troppo ubriaco. E sono sempre cazzi quando mi chiedi di rendermi utile!

“Che vuoi?” biascico rassegnato.

“Fa’ la guardia che devo pisciare”.

“No Oscar…” faccio spoetizzato per quanto ubriaco, stendendomi sull’erba. “Falla quando rientriamo”.

“Non c’è tempo. Mi scappa ora”.

Mi prendo un calcetto nelle costole. Tu riesci sempre a colpire il punto in cui forse me ne manca una e alla fine mi metto in piedi a braccia conserte, mentre tu sparisci fra i cespugli.

E' una fatica starsene in piedi. Il mondo ondeggia e inizia a fare fresco. Mi chiedo se sei sicura che è pipì. Secondo me ci metti troppo. Ci metti veramente troppo, anche per l’altra ipotesi, e inizio a temere che tu sia crollata da qualche parte. Che ti sia successo qualcosa. Poso una mano su un albero e aguzzo la vista. Cerco di abituarmi al buio e analizzo la boscaglia. Mi manca il fiato. “Oscar…” chiamo piano, se no ci scoprono. I cespugli ondeggiano nel silenzio, punteggiati da qualche lucciola. Inizio ad avere paura e sento i muscoli tendersi e il sudore sulle tempie. Che devo fare? Il sangue ronza nelle orecchie”.

 

“Bammm! gli ho urlato nell’orecchio e gli ho tirato il codino. Aaahh!!! Ha lanciato un grido tremendo: sono volati tutti i gufi e avrò rintronato di sicuro qualche lucciola. L’ho veramente spaventato e sono scoppiata a ridere, mentre supponevo che mi fissasse. Così impari a farti i fatti tuoi André e a non toccare argomenti proibiti! “Sei proprio tonto!” gli dico, ancora troppo scossa dalle risate. Mi asciugo le lacrime col palmo e lo vedo che mi osserva in silenzio. “Che cretina” si limita a commentare senza espressione. Fine del divertimento: non mi dà la soddisfazione di vederlo incazzato e ferito nell’orgoglio, come sarei io. “Andiamo. Prima o poi me la paghi” fa tranquillo come sempre e raccoglie le bottiglie vuote. Non sei divertente André. Forse sono io che sono troppo lessa dall’alcool… Lo seguo delusa. La testa mi gira. Imbocchiamo una delle porticine laterali che usano solo i servitori per accedere al palazzo. All’improvviso un dolore tremendo in fronte e un lampo di luce. “Porca miseria!” esclamo coprendomi il viso con le mani, mentre capisco cos’è successo. “Scusa. Mi sono proprio dimenticato di ricordarti di abbassare la testa. Questa è l’entrata con la porta troppo bassa” dice tranquilla e beata la voce di André.

“Il tonto nel suo piccolo reagisce” penso senza commentare, altrimenti gli darei un morso, ma l’ubriachezza non me lo consente.

 

ЖЖЖ

 

“Mi chiedo se sia giusto che ci sia qualcuno degno di strappare a morsi il cuore a qualcun altro. Di addentarlo, farlo a brandelli, masticarlo e sputarlo via fra le porcherie come un nocciolo spolpato. Come fai tu! Come fai tu Oscar! Quando ti vorrei dire una sola parola e passi dritta. Quando vorrei dirti una parola ancora e mi fai capire che non puoi ascoltare più di quello che il tuo ruolo impone. Come fai tu!

Lasciami vivere! Lasciami vivere Oscar! Te lo vorrei gridare negli occhi, per convincermi che non è per te che vivo.

Ma, se fuggissi via, non avrei mai la forza di andare veramente lontano. Come hai fatto tu Oscar”.

 

“Non ne posso più. Non ne posso più! Di te e di quegli occhi da cucciolo. Lo vedo, sai, cosa pensi e non ti sopporto. Mi stai complicando le cose. Mi costringi a pensare a quello che pensi. André lasciami in pace. Anche se non vuoi parlare, lasciami in pace. Ho paura di indovinare esattamente quello che pensi. Anzi no! Non è paura. E' fastidio perché, quando nel viso da adulto passa rapida quell’immagine indifesa, è perché stai facendo l’appello di tutti i miei punti deboli. E tu, maledetto scocciatore, li conosci tutti. Tutti… Ne conosci più di quanti ne conosca io, che sto permettendo a te, André, di diventare il mio punto debole più grande, un livido viola e doloroso; che cerco sul mio corpo; e che ho paura di trovare”.

 

ЖЖЖ

 

“La notte, prima di addormentarmi - quando mi addormento - la mia mente corre perché ha bisogno di riscattarsi dalle costrizioni del giorno. E allora penso e sono libero. Inutile dire a cosa o a chi. Non ho scelta e, se potessi scegliere, sceglierei sempre lei. Mi spingo oltre quello che mi potrei concedere, oltre quello che potrei scrivere su queste pagine senza che un lettore distratto pensasse che si tratti di sconcezze. Nei pensieri lei vuole sempre quel che voglio io e io quel che vuole lei. Non ho idea di quando ho lasciato che questi pensieri fluissero liberamente. Forse quando ho iniziato a guardarla negli abiti maschili, che lei reputa così sicuri, con gli occhi di un uomo che ha necessità da uomo. Lei neanche lo immagina che abiti uguali ai pantaloni e alla camicia che indosso anch’io la rendano così differente da me e tanto più bella di qualsiasi dama imbellettata. Le camicie leggere lasciano immaginare quel che non è costretto nel bustino e che mi fa impazzire a ogni passo, i pantaloni fasciano i glutei snelli. E' così diversa dalla bellezza canonizzata delle donne morbide e senza volontà a cui aspirano le dame più ammirate. A volte ho pensato che fosse così solo per me: la giacca copre tutto nei momenti ufficiali. Ma so che sbaglio.

Fra poco tempo non vedrò più e non mi rimarrà che immaginare e ricordare. Mi infiamma il ricordo del suo corpo quella sera e vorrei poter dire che non era lì a tremare e a temermi; o sperare che un giorno sia lei a dire che lo vuole. Ma sono deboli speranze, lontane come lumi nella nebbia che mi avvolge. Ogni giorno un nuovo strato di nebbia. Eppure sono certo che lei sa di avere bisogno di me e di nessun altro. Sono tanto cristallino nei sentimenti da risultare ai suoi occhi trasparente; sono troppo vicino per essere l’ideale; basta chiamarmi perché io ci sia. Sono tutto quello che non è l’altro: per questo pensa di non amarmi.

Eppure solo io saprei amarti come vuoi, dentro e fuori dal letto. E tutte le volte che rivedo nella fantasia la tua nudità vorrei toccarti e farti capire che il tuo piccolo cuore sarebbe più al sicuro e più felice nella mia mano che dentro l’uniforme che ti corazza”.

 

“Questa sera sono stanca e nauseata da morire. Ho firmato dispacci, ascoltato paziente degli idioti parlare e non mi sono concessa il lusso di annuire, ho fronteggiato persone volgari e presuntuose, ho urlato sulla piazza d’armi quasi fino a perdere la voce. Quello che faccio ogni giorno fingendo che la febbre non mi logori. Ma stasera sono più disillusa e abbattuta delle altre volte. Succede.

Sono un fascio di nervi ed un’operazione semplice come sbottonarsi giacca e slacciarsi lo jabot diventa un’impresa. Non c’è un solo muscolo che non sia rigido e dolorante.

Faccio una cosa che non faccio mai: mi guardo nello specchio prima di rivestirmi. Evito di farlo in questa consapevolezza: dovrei sentirmi a disagio vedendo che il mio corpo non si adatta a quello che l’uniforme esige. In realtа non ho mai provato un disagio del genere ed ho indugiato nell’osservarmi: è il motivo per cui mi sento in colpa. Indugio anche ora e provo uno strano piacere che metto da parte, come un peccato senza nome, quando mi chiedo cosa lui abbia visto e provato quella sera. Arriva il momento, ogni volta, di infilare la camicia da notte e di seppellirmi sotto le coperte; arriva il momento di ignorare uno strano calore. Ignorare di chiedermi se un abbraccio scioglierebbe muscoli e nervi aggrovigliati. Ignorarlo, specialmente se mi accorgo di pensare a lui e non a Fersen. E di bere un bicchiere di cognac per non pormi il problema di ignorare”.

 

ЖЖЖ

 

“Ho sempre pensato che questa voce fosse adatta a lanciare ordini. Ieri ho scoperto che è adatta anche a lagnarsi e urlare come la peggiore delle femmine. Raggiungendo picchi che non tollererebbe il più indulgente dei timpani…

“Più veloce! Più veloce!” ho urlato, stupendomi di quel suono. La carrozza sobbalzava pericolosamente sul lastricato, poi su percorsi pietrosi e sconnessi. Indubbiamente il cocchiere mi aveva udito.

Forse questa è la volta che abbiamo sfiorato la morte mancandola solo per un soffio. Come dice André, contro la fame non si può nulla e il popolo affamato non si sarebbe sfamato con la nostra carne, ma si sarebbe rilassato e compiaciuto guardando il rosso del nostro sangue.

La situazione a Parigi ormai… ormai…

Ma a chi voglio darla a bere? Se parlo ora la mia voce non ha né il tono dignitoso né il tono compiuto che voglio far credere. E non ho voglia di essere dignitosa e compiuta. Da ieri non penso alla situazione di Parigi. Penso solo a me stessa e a quello che ho urlato a Fersen senza pensare a Fersen. Penso solo ad André col viso pesto; al rivolo di sangue che gli ho asciugato vicino alla bocca sussurrandogli così vicino che tutto sarebbe andato bene… i suoi occhi dolorosamente socchiusi… al fatto che non avrebbe senso alzarsi e camminare se non fosse perché c’è lui; al fatto che mi rendo conto di avere ridotto la mia vita ai minimi termini in nome di nulla, mentre avevo giа quello che cercavo.

Lo so da tempo. Ieri l’ho gridato, ma lui non poteva sentirmi. E non ho il coraggio di dirglielo, perché vedo dove ci hanno portato le mie scelte. Ho tanta paura che non mi crederebbe. E per un attimo sono stata felice, da egoista, di poterlo stringere fra le braccia senza dover dare alcuna spiegazione.

Quello che ho fatto è peggiore del tradimento”.

 

“La morte ha molti volti. Aveva i volti del popolo di Parigi; ne ero sicuro. E' dovuto passare del tempo perché riuscissi a reggere di nuovo la penna. E grazie al cielo è successo prima del buio. Ho ancora tante cose da fare. Mi basta anche solo il tempo di rubarti un altro abbraccio. Perché questa è l’unica cosa che ho scelto di ricordare. L’unica che importa.

Vorrei portarti sempre con me”.

 

ЖЖЖ

 

Seguivano delle considerazioni politiche e la descrizione della situazione particolarmente tesa che regnava a Parigi. Interrogativi sospesi che non avevano un seguito, perché le pagine che seguivano erano vuote, riempite solo del colore che il tempo regala alla carta.

Non era possibile! Non era possibile… Le lasciai scivolare davanti agli occhi, ma non c’era più alcun segno d’inchiostro che mi costringesse a rintracciare fra i ricordi ferite e gioia. Un vuoto improvviso davanti al quale sperai di non piegarmi e di non ricordare nulla, perché giа sapevo e per quel giorno sarebbe stato molto più di quello che potevo sopportare.

Tentai di muovermi sul letto e di non rimanere immobile a farmi agguantare dai soliti pensieri. Li sentivo arrivare. Lo sapevo… avrei rivisto l’arcata di un ponte e una sentinella, la luce del tramonto e una pistola, sangue… sangue… una mano stretta nella mia, una lacrima e il vento che tormentava un lenzuolo bianco… Immagini che giа mi avevano sconvolta al maquis ma che oggi sarebbero tornate più vivide. Le sentivo prepararsi. Tentavo di pensare alla fuga. Si preparavano. E non avevo idee. Appena mi mossi, la solita sensazione di capogiro e un conato. Mi posai una mano sulla bocca, mentre la vista si sfocava e gocce fredde mi correvano lungo la schiena.  

Lui che diceva “Proprio non posso…”.

Poi cos’avrei visto? Una bara, un fuoco vicino a una chiesa, una fuga nella notte, la pioggia in un vicolo, una fortezza e il volo di una colomba.

Mi dovevo alzare. Mi dovevo allontanare. Nello spostarmi e fare forza sulle gambe, per trascinarmi sulle lenzuola senza sapere dove andare, colpii il diario che si rovesciò dalla parte opposta della copertina. Le pagine si aprirono e dei segni che non erano le lettere di una grafia catturarono i miei il mio sguardo. Esmeralda diede dei colpetti con la zampina sulle pagine che scorrevano. Con una mano fermai lo sfarfallare dei fogli per guardare meglio. Lentamente i miei occhi, col respiro che si calmava, ricominciarono a dare alle immagini le giuste forme e dimensioni. La mano non premeva più sulla bocca, ma rimase sulle labbra. Forse per trattenere lo stupore, forse perché guardare era più importante di coordinare i movimenti per allontanarla da dove si era fermata.

Dietro la mano le labbra si stirarono in un sorriso. Passai la mano sul foglio e una sensazione di benessere mi rilassò mentre le dita scorrevano sulla carta.

 

ЖЖЖ

 

Il giardino era infestato di erbacce. Ma chi decide quale pianta è un’erbaccia e quale no? Continuò a sarchiare la terra solo perché Marron Glacée glielo aveva chiesto. Ordinato più che altro… Fare qualcosa lo avrebbe aiutato a non pensare, ma non quella sequenza di gesti meccanici che, una volta coordinati, liberavano la mente.

Si accovacciò, stanco, sulle ginocchia ed alzò lo sguardo verso il cielo. Era privo di luce, ma non era buio: un cielo d’inverno. Un cielo da assenza di emozioni.

“Ma io perché mi sento morire?” si chiese, vicino alla terra ancora odorosa della pioggia del giorno prima. Il freddo gli pungeva le dita sporche di terra e iniziava a percorrergli il corpo accaldato dal movimento.

I fili d’erba erano di un verde intenso e resistente.

“Basta. Non ne toccherò più neanche uno” si disse. Perché qualcuno dovrebbe decidere chi deve vivere e chi no?

Robespierre lo osservava accucciato, con un rispetto quasi religioso per il corso dei suoi pensieri.

Alzò ancora lo sguardo verso l’alto e poi chiuse gli occhi.

“Io questo momento l’ho desiderato con ogni fibra del cuore. Così tanto che ho dovuto impormi di ragionare. E la ragione mi ha detto che sarebbe stato un bene allontanarlo perché, quando veramente… finalmente… la tua mano ha toccato il mio cuore, si è spenta ogni luce per tutti e due.

Non era la ragione… era la paura. Lo so. Paura che anche questa volta, quando tu sarai certa di essere Oscar e di volere nella tua mano il cuore di André, la luce si possa spegnere ancora, come un lampo oscuro, come uno scherzo terribile che, aiutato dal vento, asciuga la mia ultima lacrima”.

Una brezza impercettibile toccava le foglie delle piante sotto cui un buio appena accennato macchiava la terra.

“La terra si porta via le persone che smettono di respirare… e se ne prendono cura le erbacce… piante diverse...”.

Si alzò in piedi sospirando, spaventato dai pensieri terribili che se lo stavano portando via. Rifiutò di ascoltare un immaginario battito d’ali dalla piume nere. Gli uccelli tornavo al nido, alle soglie del tramonto, per stare al sicuro.

“In quelle pagine, per quanto troverai le parole forse ingrate, forse cattive, io parlavo solo di vita. La vita che facevo, quella che avevo scelto, e quella che desideravo, che speravo qualcuno scegliesse per me.

E spero che capirai quello che non ho osato mai dirti, nonostante gli anni e i momenti passati insieme. Spero che capirai, anche se, per dirtelo, in quelle pagine non uso le parole. Sono pensieri che non possono essere destinati all’ortografia. E quei pensieri, Oscar, in quelle pagine, sono le uniche immagini di speranza. Il modo di portarti sempre con me. Sono la nostra possibilitа di vivere in un mondo migliore, per niente diverso da quello andato in pezzi”.

 

ЖЖЖ

 

Il racconto di quello che ci siamo detto è troppo per le mie forze. Troppo per la mia proverbiale e presunta freddezza.

 

ЖЖЖ

 

Fuori sta calando la notte pensò, retorica, Oscar. La persiana era ancora aperta e lei poteva guardare oltre i vetri. Anche questo è un vecchio modo retorico per rimandare le discussioni, riconobbe. Per rimandarle fino a renderle inutili, ricordò. André aspettava, sempre, al suo fianco, che lei parlasse.

Si sedette sul davanzale con le spalle al vetro. Era più semplice di quanto credesse, anche se non era certa di riuscire a guardarlo in viso, ma sapeva che André, se lei avesse teso una mano,  gliel’avrebbe stretta. E gliela strinse. Era bello avere quella sicurezza.

Racchiuse la mano calda fra le sue dalle dita sottili e incerte. Ancora silenzio e la candela splendeva debole sul vecchio candeliere.

Gli aprì la mano come se stesse toccando qualcosa di fragile e percorse il palmo con le dita. Pensò a com’era tranquillizzante sentire il suo respiro vicino. “Qui…” disse, molto più semplicemente di quanto pensasse. “Qui… mi ricordo… che il palmo era più duro per colpa della spada”.

E' una cosa stupida, ma non sono riuscita a non dirla.

“Lo avevi anche tu…”  fu l’unica cosa André disse a voce molto bassa.

“A screpolarti di nuovo la pelle ci sta pensando la nonna con tutti quei lavori…” disse passando la mano sul dorso e sulla nocche arrossate dal freddo. “Ma tutte queste cicatrici…” aggiunse con lo sguardo sui tagli bianchi e pensò a un aereo che si schiantava al suolo. “Tutte queste cicatrici non c’erano”.

“Io… mi dispiace. Veramente” disse lui, spezzando parti di troppi discorsi che gli affollavano il cuore. “Io non volevo trascinarti in una situazione che ti avrebbe fatto soffrire… Non volevo che stessi male come è successo a me, perché ti volevo per me. Per una volta ho voluto essere egoista. Cosa mi avresti risposto, se il giorno che ti ho seguito fino a casa, ti avessi detto qualcosa del tipo…”. Rifletté per un attimo e con espressione per niente seria continuò: “Ciao Oscar, è una vita che non ci vediamo! ricominciamo da dove abbiamo interrotto”.

Parò appena un pugno fasullo e prevedibile diretto allo stomaco e la trattenne con un abbraccio.

“Ti dico comunque che sei scemo” la sentì sussurrare con le labbra sulla spalla. La tensione si allentava.

“Ma quando proponesti il ritratto ti chiesi se era perché ti ricordavo qualcuno…”. Le sembrava di rivedere quello strano colloquio sulla soglia del suo appartamento parigino.

“Ti ho detto di no… perché non potevo dirti chi sei… fa molto male scoprirlo e si scopre da soli… è quello che è successo a me. Sembra di impazzire. Ho pensato che se ti fossi stato vicino non sarebbe successo nulla… forse ti avrei aiutata a pensare ai momenti della vita che stai vivendo. Solo a quelli. Ma è successo lo stesso. Forse quelle immagini hanno iniziato ad apparire proprio nel momento in cui mi sono avvicinato a te…”.

Fece una pausa. La micia bianca come un fiocco di neve dormiva acciambellata sul davanzale. Nel silenzio, sembrava che anche Oscar si fosse addormentata, aggrappata alla sua spalla. Di fronte a loro, oltre i vetri, solo il buio infinito. Sembrò di non essere in un momento preciso nel tempo. L’unico tempo intorno a loro era scandito dal respiro pensoso di Oscar.

“Non è una situazione che sono riuscito a gestire. Perdonami…”.

Il respiro regolare si interruppe. Oscar voltò il capo e posò sulla spalla l’altra guancia. I volti vicinissimi.

“Fa male… sembra di impazzire… però dopo… si sta così bene” disse con voce bassa e rassicurante.

“E' vero” le sussurrò, accarezzandole i capelli. “Non mi allontani? Non siamo troppo vicini?” le chiese, cambiando tono e tornando ai problemi del presente.

“No… non mi va…” fu la risposta, di una Oscar che sembra aver trovato un magnifico cuscino su cui riposare. Gli venne da ridere e le fece scorrere le mani lungo la schiena. Aveva creduto che tutto sarebbe stato più difficile.

“Era così diversa la Oscar che stava con te…” disse inaspettatamente lei. Metteva insieme le parole facendo un grande sforzo per pronunciarle. “Era diversa da quella che era costretta a parlare con dame e dignitari, con le persone che contavano… Lei sapeva di essere al sicuro qualsiasi cosa avesse fatto… che qualcuno l’avrebbe capita comunque, anche se parlava senza curarsi di essere crudele o se prendeva una decisione stupida… qualcuno l’avrebbe ascoltata anche se avesse espresso un desiderio assurdo… se fosse stata testarda e capricciosa… era libera! Era come se non tentasse di controllare l’anima… quando passava il suo tempo a sparare alle mele… o ad affannarsi per vincere una corsa… o un duello. Mi piaceva quella Oscar… mi piacevo quando stavo con te, ma davo per scontato che fosse così perché davo per scontato che tu ci saresti stato sempre e c’eri sempre… ed io… io credevo di essere così… così come ero con te… e non capivo la differenza che avrebbe fatto la tua assenza. Di quella differenza ne ho avuto un assaggio in caserma, dopo che ti ho allontanato io stessa… e là ho ammesso qualcosa che già sapevo e credevo di ignorare per colpa… no… non era colpa di qualcun altro, era solo colpa mia”.

Gli parlava con le labbra sulla guancia, vicine all’orecchio. André si sentiva come ipnotizzato.

“Quella notte, la notte che mi hai lasciato… non ho finito di dirti quello sentivo… e non è servito chiederti di volermi come tua moglie a salvarti… che pensiero stupido… eppure l’ho pensato: ti lego a me… così… non potremo andarcene che insieme. Come se fosse un incantesimo… Ho pregato di impazzire… o di morire… ma tardavano… sia la morte… sia la follia... Ho dovuto trascinarmi da sola fino all’alba… e per un attimo, quando ho creduto di vederti, ho pensato che sorridere perché ti avevo avuto, in quel momento, fosse più importante del piangere perché ti avevo perso… ma è durato solo pochi istanti: forse la follia arrivava, ma ho avuto il tempo di capire cosa fare. Ed è stato fatto. E' stato fatto… e poi mi è sembrato di rivederti ancora…”. Interruppe il flusso di parole, perché si rese conto che si sarebbe messa a piangere e non lo voleva. Non doveva. Si rese conto che, per la tensione, si stava irrigidendo. Scoppiò a ridere quando capì che André se n’era accorto e le massaggiava i muscoli della schiena.

“Grazie…” disse premendo leggermente le labbra sulle sue.

“Ma ti pare…” le rispose.

“Non c’è nessun motivo per essere tristi ora” gli lesse negli occhi. Non lo fermò quando il bacio si fece profondo e lungo.

“Grazie a te Oscar” disse lui. Fissò i tratti del viso nella penombra: sembravano più distesi. Era arrossita e gli sembrò che diventasse sempre più bella. Gli occhi erano lucidi, ma di dolore ce n’era poco ormai. La labbra, che aveva stretto fra le sue, erano morbide e ancora umide.

“Prego amore…”disse lei con un’espressione strana e indecifrabile che al momento aveva dimenticato dove potesse andare a parare. Si senti leggermente in pericolo. “Col tempo hai imparato ad essere meno… esigente?” aggiunse lei.

André temette di dover fare dei collegamenti con qualcosa che al momento gli sfuggiva.

“In passato sembra che ti servisse molto di più…” fece lei, padrona della situazione, prendendo il vecchio diario da sopra il letto. “Mi sono divertita a dare un’occhiata… e dovresti spiegarmi in che verso si dovrebbero guardare certi disegni… e come siano possibili…”.

Cazzo no! Per un poetico istante aveva dimenticato che tipo di disegni c’erano nelle ultime pagine di quel diario. Tentò di afferrare, imbarazzato, il diario che Oscar allontanò prontamente, con l’aria di divertirsi molto. “Mi devi spiegare come siano possibili certi… incastri!” chiese ridendo e brandendo il diario, aperto su pagine alquanto compromettenti.

“No… dai! Oscar… Porca miseria…!” esclamò sedendosi sconsolato sul letto coi gomiti sulle ginocchia. Ebbe la sensazione di arrossire ed abbassò il capo. “Mi fai vedere?” chiese tendendo la mano.

Avere quel libro aperto fra le mani gli diede un senso di vertigine. Lo contenne. Sfogliò le pagine. Le ricordava. I tratti della grafia si facevano, pagina dopo pagina, sempre più confusi. I disegni… quei disegni… il tratto non era eccellente, ma fluido. Le immagini… quelle immagini… lo avevano perseguitato, lo avevano fatto sentire frustrato e solo e, allo stesso tempo, felice e libero: pensare, immaginare lo avevano fatto soffrire e lo avevano liberato. Era l’unico modo per portarla con sé, per averla in un luogo fisico diverso dalla sua fantasia. Che illusione… Eppure erano solo fantasia e speranza che, come due stampelle, lo avevano aiutato a lasciare la branda ogni giorno e a camminare, anche quando sentiva che tempo e buio lo stavano erodendo da dentro.

In effetti il verso di certi disegni non lo capiva nemmeno lui, constatò, ruotando prima il capo, poi il libro. Oscar si mise a ridere, coprendosi il volto. Lui si sentì ancora più imbarazzato, ma non voleva darlo a vedere. Sfogliò velocemente alcune pagine.

“Ci sono anche disegni diversi!” obiettò piazzandole sotto gli occhi un ritratto, come simbolo di riscatto.

“Lo vedo… però mancano sempre i vestiti e, per essere cecato e aver visto certe parti anatomiche una sola volta e di sfuggita, avevi una bella memoria!” fu il commento sarcastico, fatto per nascondere un segreto compiacimento.

“E' vero…” ammise lui candido, sfogliando le pagine. “Chi non vede bene non si fida solo della vista: raccoglie anche altri indizi” disse girandosi a guardarla.

Oscar decise di non fare ulteriori domande sull’argomento: si sentiva in fiamme.

“Mi stupisco del fatto che a Parigi tu mi abbia chiesto di farti da modella vestita…”azzardò, passando a tempi più recenti.

“Perché non ti saresti spogliata… e perché mi avresti evitato a vita, dopo avermi trafitto con un attizzatoio rovente, se te lo avessi chiesto”.

“E' vero…” confermò lei.

“E ora?” disse guardandola insistentemente.

“Ora che?” chiese aggiustandosi, nervosa, un ricciolo dietro l’orecchio.

“Se te lo chiedessi ora… e non per disegnare?” le domandò, troppo vicino, bloccando la mano che tormentava il ricciolo.

 

Si svegliò quando le palpebre chiuse non riuscirono più ad arginare la luce del mattino. La persiana era aperta e la tenda ancora tirata all'angolo della finestra. Si vedeva il cielo di latta delle giornate di novembre, macchiato da un alone bianco che doveva essere il sole.

Un brivido di freddo. Si strinse di più. Un altro brivido; non di freddo questa volta. Non sulla pelle: nello stomaco. Un brivido dovuto alla pressione del seno contro il petto di André, al contatto con la pelle calda. Dormiva col viso sulla sua spalla e la fronte nell'incavo del collo. Provò a sporgersi per afferrare la coperta che pendeva dalla sedia. Era complicato con un peso come quello che le bloccava metà del corpo, ma non gli avrebbe mai chiesto di spostarsi pensò, sfiorandogli i capelli e riflettendo sul movimento ritmico del respiro nel sonno. Si sporse ancora un po'. Sbilanciandosi fletté le gambe e spostò la coscia di André. "Oh no..." pensò con un lembo della coperta finalmente in mano, mentre lui si scostava leggermente.

"Sta' tranquillo... dormi..." disse sottovoce, mentre tentava con una mano di sistemare alla meno peggio la coperta sul copriletto. Lui si stiracchiò leggermente. Lo fece riadagiare dov'era, ma ormai lo aveva svegliato.

"Senti freddo?" le chiese.

"Un po'..." sussurrò lei che aveva giа cambiato idea, sentendo la carezza che dal fianco si spostava al ventre. "Un po' di freddo..." aggiunse, senza trovare altre parole, mentre la mano saliva ancora. "Dormi..." disse di nuovo, senza esserne per niente convinta.

"Preferisco stare sveglio" disse con voce assonnata. Le dita sfioravano impercettibilmente la base del seno.

"Non uscirai oggi... vero? Non separiamoci... André...". Preoccupata lasciò scorrere la mano lungo la sua schiena. Poi dall'attaccatura dei capelli sul collo alle spalle. Le era venuto in mente che qualcosa, là fuori, poteva separarli.

"Non esco... no. Preferisco te a ogni cosa" rispose con voce più sveglia. "Dirò alla nonna che ero distrutto dalla fatica..." disse ridacchiando.

"Non andare da nessuna parte" disse lei come se non avesse sentito.

"Sono tuo prigioniero?". La guardò negli occhi, sollevandosi leggermente. Gli sembrò assorta in pensieri vecchi, in paure antiche, come se, all'improvviso, fosse sospesa fra la realtà e il passato dei sogni.

Le sfuggì un mezzo sorriso, come se, lentamente, quella sospensione fra due voragini potesse essere incrinata.

"Non andiamo da nessuna parte" aggiunse per rassicurarla. Strinse all'improvviso la mano a coppa sul seno e la sentì gemere forte, gli sembrò un grido, e sentì le gambe che si avvinghiavano ai fianchi. Lasciò fare. Le strinse i seni con tutte e due le mani e la sentì inarcarsi.

"Non vuoi uscire per non incontrare Louise" disse, passando il pollice sui capezzoli.

"Eh?" fece Oscar col volto arrossato e il fiato corto.

"Per tutto il casino che hai fatto stanotte..." aggiunse André con una faccia da schiaffi.

Le venne da ridere. In effetti era uno dei motivi presenti per cui non avrebbe voluto abbandonare l'abbaino, a meno di non camminare a testa bassa per un po' di tempo. La risata che covava le sfuggi dalle labbra. Rise anche André. Le venne da ridere per il modo in cui ridevano: Louise e Maurice avrebbero sentito anche questo?

"Tu mi hai fatto fare casino...". Si spezzò il filo che per un attimo l'aveva legata al passato. "E ne hai fatto anche tu!" gli disse sulle labbra. Pressò la bocca contro la sua. Sentì per un attimo il suo respiro sulla guancia e poi la lingua calda che le percorreva la bocca. Quando le sfiorò il palato con le mani gli strinse forte i glutei e fu felice di sentirgli sfuggire un gemito.

Il vantaggio del vivere in un abbaino, sulla cima di una casa di più piani, è che proprio non sente nessuno.

 

Stava arrivando la primavera. Il tempo diventava meno crudele, anche se il vento che tirava dal mare, pregno di acqua e storie inascoltate di genti lontane, è tagliente come in pochi luoghi. Pensai a questo, col viso avvolto fin sopra al naso in una vecchia sciarpa, fissando un sole che, nel cielo vuoto d'inizio primavera, virava finalmente al giallino anemico. Con le spalle addossate a un muro e le mani in tasca fissai per un attimo la bicicletta adagiata sull'erba poi le spalle, fasciate dalla giacca color autunno, di André che poteva permettersi di indossare abiti più leggeri dei miei. Pensai anche a questo sistemandomi il pezzo di lana sul naso.

I monelli del porto sedevano in religioso silenzio dall'altra parte della piazzola. Mi temevano, lo sapevo bene: una volta ne avevo preso per le orecchie uno che non teneva il becco chiuso e,  probabilmente da allora, nessuno aveva più osato fiatare sulla "Spilungona" e lo "Sfregiato".

"Ma... questa?" chiese André dopo qualche attimo di esitazione a Maurice.

"Perché?" ribatte Maurice allargando le braccia. "Non ti piace? Non è un amore?" incalzò col cuore pervaso da adorazione.

Al centro dalla piazzola luceva, sotto gli scarni bagliori del sole anemico, un Maggiolino Volkswagen verde come una cetonia.

Gli occhi dei monelli luccicavano. Mi staccai dal muro e mi avvicinai alla scena.

"Ehm... non dico che è male..." mormorò André che non aveva ben chiaro come argomentare il dissenso.

"Il problema è che questa macchina era in dotazione all'esercito nazista e di questi tempi viaggiare su un veicolo come questo non è una gran bella idea" dissi io, spezzando i palpitanti cuori maschili senza preamboli.

"E proprio perché hanno cacciato i nazisti che questa è in giro senza padrone!" ribatté Maurice. "Ma non crederete, ragazzi miei, che non ci abbia pensato che è pericoloso andarsene fino a Parigi col rischio di essere presi per nazisti...". Sospese la frase e affilò la lama del colpo di scena. Ci fece cenno col braccio di portarci dall'altra parte dell'auto. Ci muovemmo, seguiti dai monelli religiosamente silenziosi.

"Eh?" fece interrogativo e soddisfatto Maurice, sollevando le sopracciglia. "Eh?" ripeté, sollecitando una reazione al nostro mutismo.

"Quanto mi manca la tua vecchia MG!" sussurrai ad André. "Con i sedili che sfioravano l'asfalto, tutti traballanti...".

Sulla fiancata verde dell'auto campeggiava a caratteri bianchi rossi e blu una scritta "Vive la France!", con annesso disegno della bandiera francese.

"Eh?" sollecitò imperterrito Maurice.

Lanciai ad André uno sguardo da cucciolo disperato da sopra il bordo della sciarpa.

"E anche questa è la volta buona che ci sparano e ci fanno secchi" osservò lui interpretando il mio pensiero.

"Se volete possiamo scrivere sull'altra fiancata Liberté, égalité, Fraternité!" propose Maurice che non mollava l'osso.

"E poi magari André ci disegna sopra pure una belle Marianne" sussurrai sconsolata. I monelli ridacchiavano.

"Perfetto!" batté la mani Maurice, come per dire "Eureka!", "Cosa volete di più dalla vita!?". Non capivo se ci prendeva in giro o no.

"La Marianne ha le tette di fuori!" urlò uno dei monelli.

"Piuttosto ci andiamo in bicicletta, a Parigi!" esclamò André, sollevando la bici dall'erba.

 

pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2004

Continua...

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