Rumore d'ali

(De insania)

Parte XVII

 

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Ogni tanto, quando la risacca si faceva violenta, udivo il rumore del mare che, a metà giugno, era stranamente agitato. Lo vedevo dalla finestra in un piccolo stralcio d’orizzonte, imprigionato fra le ante delle persiane socchiuse. Il vento caldo entrava dalla finestra e il suo tocco non era che un’illusione per chi sperasse di cercare ristoro.

Ormai mi svegliavo tutte le mattine in un paesino sperduto lungo la costa meridionale. Schiamazzi di gabbiani e odore di mare.

Eravamo finiti lì perché lì poteva nasconderci la sorella di Dagoût, che viveva in quel paese da anni con la sua famiglia. Mi chiedevo se veramente potesse… perché io ed André, messi insieme, eravamo un peso enorme: un ferito che a volte non si reggeva in piedi per il dolore e i giramenti di testa e una malata di tisi che non si reggeva in piedi per la febbre, per i dolori di vecchi ematomi e che spariva per andare a tossire dove nessuno la udisse.

Ci avrebbero dovuto lasciare soli: bastavamo uno all’altra. Ma è difficile da spiegare. E, nonostante le proteste e il rimpianto per aver dovuto mollare qualcosa che inseguivo da tempo, capivo che, quello che era stato fatto, era stato fatto in segno di amicizia. Ricordavo che alla fine ero stata io stessa a scegliere, per dare pace a un desiderio molto più prepotente. Per una persona. Per vivere con un uomo.

Louise Dagoût ci aveva alloggiato in una camera all’ultimo piano: una specie di abbaino dove dal di fuori nessuno avrebbe scommesso che si potesse vivere. L’interno consentiva una sopravvivenza umana, che pochi avrebbero sospettato: un letto, due comodini, un armadietto e una toeletta dallo specchio macchiato di ruggine, una sedia in buona salute e una sedia con la gamba zoppa, il linea con lo stato di salute dei nuovi inquilini, perennemente appoggiata al muro. Lo spazio vitale era minimo e, nonostante i mobili, sapeva di spoglio e desolato, di non vissuto.

Chiudevo gli occhi e il mare se ne andava, rimanevo ferma col vento sul viso, finché non arrivava André che socchiudeva la finestra, perché “Prendere vento credi ti faccia bene?”.

Louise, che aveva un volto lungo e scavato come il fratello, ci portava da mangiare una volta al giorno. In questo, lo ammetto, io e André non ci saremmo bastati. La cosa mi metteva tremendamente in imbarazzo. Ed odiavo il mio povero stomaco che, nonostante quel cibo, quando il buio cancellava ogni immagine dalla mia finestra, iniziava a brontolare.

Il giorno che arrivammo chiesi disperatamente delle bende, le chiesi anche dall’abbaino a una vicina che se ne andava per fatti suoi. Risultato: neanche una benda e una predica di André che sottolineava la poca prudenza del gesto. Ma l’ansia che mi provocavano quelle bende ingiallite e macchiate di sangue che gli fasciavano il capo non mi fermò nella ricerca.

Un pomeriggio, al risveglio da una lunga dormita, lo accolsi con un trionfante “Coraggio André, tirati su, che ti pulisco la ferita e ti rifaccio la fasciatura”.

Lo misi seduto tirandolo su per un braccio e, finché fu sufficientemente imbambolato, non fece domande. Sciolsi la vecchia fasciatura e gli pulii l’occhio con un infuso di camomilla. La pelle era rosa e la palpebra gonfia, attraversata da un taglio scuro. Mi tremavano le mani e avrei preferito fare tutta l’operazione senza guardare e senza dovermi trattenere dal fargli capire che mi sentivo male e in colpa.

“Oscar… mi stai facendo la doccia” disse con voce di assonnata.

“Scusa…” esclamai, riponendo il batuffolo che, troppo imbevuto e troppo strizzato, gli aveva lasciato colare il liquido sulla guancia, sulle labbra e sul petto.

“Cos’è ‘sta roba?” fece leccandosi le labbra. Evidentemente la doccia lo stava svegliando, se iniziava a fare domande.

“Camomilla”.

“Te l’ha data Louise”.

“No. La vicina”.

Silenzio. Intanto mi accinsi a completare il capolavoro: gli chiesi di inclinare leggermente il viso e iniziai a bendandogli l’occhio.

“Anche queste?” chiese indicando la bende. Afferrò un lembo e lo avvicinò all’occhio destro. Non potevo mentire…

“No… Louise ci ha dato due lenzuola… ma fa tanto caldo che non le usiamo. Quindi ho scelto un lenzuolo, l’ho fatto a pezzi e l’ho bollito per disinfettarlo. Così abbiamo bende pulite e puoi usarle senza pericoli”.

“Come?! L’hai fatto a pezzi? Non era mica nostro!” chiese allarmato.

“Zitto” cercai di chiudere il discorso, sistemandogli bene i vari strati di bendaggio sul viso, in modo che non facessero grinze.

“Ed hanno pure i fiorellini rosa!” protestò ulteriormente.

“Non preoccuparti. Sono solo da un lato. Non si vede nulla, le ho messe in modo si veda solo il bianco, con il fiorellini dalla parte interna, quella che poggia sulla pelle”.

“Oscar… Ahia! Non stringere!”.

“Bugiardo, non ho stretto tanto… ma se continui e protestare giuro che stringo veramente…”.

“Se Louise se ne accorge…”.

“E ti bendo anche la bocca se continui! Non hai idea di quanti metri di bende sono venuti fuori da un solo lenzuolo!” conclusi, bloccando l’ultimo lembo.

 

ЖЖЖ

 

“Dottor Duval…” disse bloccando la porta con un piede all’uomo che, dopo averlo squadrato, gliela stava chiudendo in faccia.

“Andatevene. Cosa volete? Non ho tempo!”.

“Siete voi il medico?”.

“Certo…”.

“Statemi a sentire allora…”.

“Che volete?” ripeté l’uomo da dietro lo spiraglio. “Le mie consulenze non riguardano l’oculistica. Potete andarvene”.

“Non è per me… dovete starmi a sentire. È per mia moglie!”.

L’uomo lo guardò in silenzio e rassegnato rispose “Perché? Cos’ha vostra moglie?”.

“La tisi…”.

“Da quanto?”.

“Gliel’hanno diagnosticata all’inizio di questo mese… sta molto male… negli ultimi giorni è peggiorata, ha la febbre molto alta… avevano detto che il riposo le avrebbe fatto bene… invece…”.

 

Invece…

Una sera, mentre saliva fino all’abbaino, l’aveva sentita tossire. A un certo punto s’era fermato a metà scala perché non credeva possibile che fosse lei: colpi di tosse secchi, senza respiro, ogni tanto la voce lasciava andare un lamento nel prender aria.

Aveva stretto con rabbia il corrimano, poi aveva divorato le scale ed aveva spalancato la porta. “Oscar…” aveva detto, vedendola accasciata sul letto.

Le sera prima, accarezzandole il viso per darle la buona notte, perché non voleva baci, gli era sembrato che la pelle fosse bollente e che la circondasse uno strano calore. Lei aveva gli occhi chiusi e già dormiva, così, per non svegliarla, non le aveva chiesto nulla. Aveva sempre un po’ di febbre ultimamente, forse era una sua impressione che fosse più accaldata delle altre volte. Non doveva essere così apprensivo da soffocarla.

“Che vuoi? Sei venuto su per goderti lo spettacolo?” gli aveva chiesto voltandosi, seccata. E lui aveva smesso di pensare. Aveva un rivolo di sangue in un angolo della bocca e la mano aperta davanti al viso era sporca. “Vai via. Lasciami stare!” aveva detto piegandosi sul letto. Ma il tono non era cattivo, chiedeva tutt’altro.

Si era avvicinato lo stesso e le aveva messo le mani sulle spalle, senza saper cosa dire. Lei aveva sprofondato il viso nel cuscino per non farsi vedere. “Lasciami… lasciami André… tu non puoi farci niente…” aveva detto con voce di pianto.

La cosa più tremenda era che si era reso conto di non poterci veramente fare niente. Le aveva passato un fazzoletto e l’aveva tenuta stretta mentre la scuotevano i colpi di tosse. Le aveva messo una mano sulla fronte, scostandole le ciocche di capelli che le piovevano sul viso: era calda e sudata. Si era sentito debole, stanco, così stanco e disperato, che avrebbe avuto voglia di piangere. Ma si era fatto un po’ di forza e le aveva avvicinato alle labbra un bicchiere d’acqua. “Vuoi bere un po’?” le aveva detto. Mentre beveva l’acqua del bicchiere s’era sporcata di sangue.

 

“Chi le ha detto che sarebbe stata meglio?” chiese il medico.

“Il nostro medico… quello che l’ha visitata prima che venissimo qui…”.

“Che sciocchezza! Lo sanno anche i bambini che i malati di tisi non si mandano al mare. Il sole è pericoloso!”.

Non potevamo andare altrove. Chi ci avrebbe voluto? Per quanto fosse stato fatto con buon cuore, eravamo un peso per i nostri stessi amici. Avrebbe voluto dirgli questo, ma non aveva senso.

“Non si è mai esposta al sole, dottore…”.

“Sciocchezze! Se a vostra moglie l’hanno diagnosticata solo ora una malattia come quella, chissà da quanto l’aveva in incubazione! Potreste avercela anche voi la tisi, lo sapete?” soffiò da dietro lo spiraglio che era rimasto aperto.

“Lo so… Che fate? Volete spaventarmi? Ma siete sicuro di essere un medico?”. Quell’uomo lo stava veramente facendo incazzare. Se non ci fosse stata la porta fra loro l’avrebbe già colpito pensò, continuando a forzare la maniglia mentre quello cercava di chiudere.

“Giovanotto… siete uno di quei delinquenti che fa rifugiare la Dagoût, la moglie di Maurice, vero?”.

André smise di spingere e lo fissò. “Non siamo delinquenti…”.

“Due tipi assurdi… mi hanno detto… la donna immorale vestita da uomo… è quella vostra moglie per caso?”.

“Non capisco che volete dire!”.

“Lo sapete… lo sapete caro mio che quando mandarono al rogo Giovanna d’Arco, ce la mandarono anche per abbigliamento maschile?!”. Doveva essere un pazzoide. Un’argomentazione come quella di grinze ne faceva veramente parecchie.

“Non vi ho chiesto pareri sulla moda! Dannazione! Vi sto chiedendo di visitarla! Sta sempre peggio e io non so cosa fare… dovete aiutarmi… io non so cosa fare…” si mise a urlare, continuando a spingere la porta con tutta la forza che aveva. È assurdo: usi le mani e il dolore ti azzanna il globo oculare. Sembrava che il medico stesse per cedere, poi all’improvviso si mise ad urlare: “Natalie! Natalie! Ragazzi! Rinforzi!” e qualcuno si appiattì con lui sulla porta che si chiuse di schianto. André strattonò la maniglia. Ecco cosa provavano gli appestati. “Maledetto criminale! Vuoi lasciarla morire? Che merda di uomo sei?!” gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Poi sentì la quiete che lo circondava e che dopo la sua voce era caduta come un peso. Il sole alto. Le strade vuote. Faceva silenzio anche il mare.

“Andate… andate… Chi vi ha detto di darmi del tu?  Trovatevi un po’ di penicillina e dategliela… vedrete che si sentirà meglio…” ripose con sufficienza l’uomo dall’altra parte della porta.

 

Quando tornò a casa, Oscar, stesa sul letto, si voltò di scatto. “André… ma dove sei stato?” disse. Si mise a sedere e poi in piedi. Aveva le guance arrossate e gli occhi gonfi. La pelle sudata.

“Mettiti seduto… devo sostituirti le fasce con quelle pulite…”. Chiuse le ante della finestra per fare ombra e andò a rovistare in un cassetto.

Lui, a vedere tutta quella scena, a ricordare il colloquio col medico, si stava sentendo male. Poggiò la mano sul comò per sorreggersi.

“Ti siedi?” gli chiese Oscar in piedi con le fasce in mano.

 

ЖЖЖ

 

Forse sono stata crudele io nel dire… e lui si è difeso. Forse era stato crudele lui ed… io mi sono difesa. Forse non importa…

Il caldo e i colori e rumori si facevano insopportabili. Come la tosse. Come il vederlo camminare a tentoni a volte e il non reggere la vista di quel taglio quando gli rifacevo la fasciatura. L’unica cosa bella: quella rosa bianca che aveva posato sul comodino e per cui non lo avrei mai ringraziato abbastanza.

 

Era un primo pomeriggio di calura opprimente. La tenda si muoveva impercettibilmente, sfiorata dell’aria calda. Sul comodino un bocciolo di rosa bianco che già lasciava allargare i petali.

Dio! Tutto statico e doloroso da giorni. La febbre non era scesa. L’aveva aiutata a togliersi quella camicia bianca ormai troppo pesante. Le aveva asciugato il sudore sulla schiena e sul petto. Era molto dimagrita e la pelle era cerea. L’aveva aiutata a infilare le braccia e il capo in una canottiera leggera. Le aveva sparso i capelli sulle spalle. Non le aveva messo le mani addosso, anche se aveva pensato di costringerla a stendersi per succhiarle i capezzoli; ci pensava da giorni, sarebbero stati molto meglio in due, ma gli aveva lasciato un bacio leggero sulla guancia per cui, stranamente, lei non aveva protestato. La storia di proteggerlo dal contagio per lei stava diventando un’ossessione.

Respirava a fatica e piccole gocce le imperlavano la fronte.

Stesa sui cuscini con una mano su petto aveva detto “Quanto li odio per averci lasciato qui”.

“Non pensare che con loro saremmo stati meglio…” rispose André, ma la sua voce fu seguita solo dal silenzio. La sua risposta era così vera da sembrare scontata e non poteva essere ribattuta.

Un altro alito di aria calda scostò per un istante un lembo della tenda. Sullo squarcio di spiaggia, incorniciato dalla finestra, comparvero delle figure: dei ragazzini che iniziarono a vociare e svestirsi per tuffarsi nel mare.

“Ho capito perché Luoise ci ha preso con sé” disse Oscar. “Non si spaventa della malattia, anche se ha perso due figli. Ha le foto in cucina. Quando gli ho chiesto chi erano me l’ha detto… ha detto anche che la stessa cosa è successa alla moglie del fratello…di Dagoût. Spera di poter aiutare le persone… si viene emarginati… dice… lei e Maurice…”.

André conosceva quella storia. Gliene aveva parlato Maurice, dagli occhi piccoli come spilli e vivaci. Erano solo un’apparenza: c’era un motivo se diventavano neri da luccicare. Ma non aveva pensato che fosse il caso di raccontarla ad Oscar.

“Uno dei miei peggiori incubi si è avverato… Io questo… in sogno l’ho visto…” disse posandosi una mano sul petto. André la ascoltava seduto poco distante. Aveva l’impressione che faticasse a parlare.

“L’ho sognato che sputavo sangue… e il tuo occhio… il taglio…”.

“Oscar…”. Le immagini avevano fatto il loro lavoro e lui, minimizzandole nella speranza di proteggerla, aveva fatto il loro gioco.

“Il tuo occhio… ed ho visto anche altro… ho visto cosa c’è di peggio. Ma tu non mi credi mai e dici sempre che i sogni, anche se sono brutti, non sono la realtà…”.

“Ma io ti credo…” protestò. Ma gli argomenti per difendersi? Raccontare tutto? Ma tutto da quale momento, raccontare? “Io ti credo… volevo che vivessi serena… non immaginavo…”.

“Che cosa André? Che la realtà fosse anche peggiore?”.

“È colpa mia?” chiese sinceramente. Guardandola.

“No… ma se io muoio di paura voglio che tu non mi dici che è solo un sogno… Perché, tutte le volte, lo sapevo che avevi paura anche tu…” disse, forzandosi per mantenere il capo alzato sul cuscino, coi muscoli del collo tesi.

“Non volevo che ti sentissi abbandonata” disse. Deglutì con fatica e chinò il capo. “L’ho fatto solo perché non credevo…”. Che cosa? Che le storie si ripetano, sempre uguali e diverse? Ma non lo disse, perché gli sembrò che si stesse addormentando.

 

Mi sarei dovute cambiare le fasce, ma non l’ho fatto. Lei dormiva… dorme così poco ormai… e non la volevo svegliare. Sono rimasto a sperare, guardandola, che non avesse altri incubi. Le fasce non le ho cambiate… Ho avuto una fitta all’occhio ed ho avuto paura di guardarmi allo specchio da solo. Così è scesa la sera… e Maurice è venuto su a chiederci se stavamo bene.

“Va tutto bene. Grazie” gli ho detto. Ma non mi ha creduto, perché un istante dopo sono corso accanto e lei che ricominciava a tossire.

 

ЖЖЖ

 

La penicillina… La chiedevi e i farmacisti ti ridevano in faccia. Ad André sembrò che fosse un valido sostituto della più esilarante delle battute. Ovunque la medesima reazione: ilarità. A volte si era assentato anche per mezza giornata, per andarla a cercare nei paesi vicini, ed era incorso nelle ire di Oscar che l’aveva creduta una scusa per sfuggire alle medicazioni. Come infermiera era un cerbero nonostante le forze le mancassero. Forse lui era l’unico a non conoscere lo stato delle cose: lei sapeva benissimo che, anche ai tempi in cui erano ancora a Parigi, la penicillina era introvabile. Aveva anche scritto un articolo in proposito quando ancora era al giornale e non era costretta a trattare temi stupidi. “È come la cerca del Graal… è introvabile…” gli aveva detto, mentre gli passava un dito sul viso, come se fosse un bambino capriccioso da calmare.

“Non prendermi in giro…” le aveva chiesto rabbuiandosi.

“Non ti prendo in giro… voglio che stai con me… e che non fai cose assurde…”.

“Io posso solo asciugarti il sangue se rimango qui… Devo fare qualcosa per te… non basta cambiarsi le bende per tenerti contenta… lo capisci?”.

Lei lo capiva ma non rispose.

 

Tutto era stato troppo repentino: dalla lotta sfrenata alla debolezza. Gli ideali, le aspirazioni di Parigi e l’azione nel Maquis: tutto cancellato con un colpo di spugna. Gli amici perduti lungo la strada. La convinzione di non aver realizzato nulla.

Gli eventi… Pensavo agli eventi e mi sentivo uno zero.

Non era cambiato tanto dopo lo sbarco in Normandia. La speranza ardeva solo più forte, in quel giugno, così che ogni nuova violenza era sempre più difficile da digerire. Ad Oradour-sur-Glane i nazisti avevano massacrato la popolazione. Avevano iniziato a bombardare Londra. Louise diceva che forse De Gaulle era tornato in Francia… Sperava di non aver capito male… Come sarebbe finito quel giugno? Quanti altri giorni e quanti lutti mancavano?

 

“Va’ al mercato nero!” gli aveva detto in un orecchio con aria cospiratoria Maurice, il marito di Louise.  “Quando sono morti i miei figli la penicillina non c’era. Ma ora so che si può trovare al mercato nero”. André non si aspettava quell’aiuto. Non si era mai aperto con Maurice.

Glissando su battute del tipo “Dov’è il mercato nero?”, rivelatorie della sua incompetenza in materia, sperando come disperato, si limitò a chiedere “A chi posso rivolgermi?”.

“Io non sono molto esperto… cioè io ho dovuto avere dei contatti, altrimenti non saremmo riusciti a campare, capisci… ma non per la penicillina… però ho sentito dire, da persone ben informate, che quel tipo di cosa, che cerchi tu, ce l’ha una persona in particolare… e in effetti solo lei potrebbe avercela…”.

“Chi?” incalzò André. Aveva le mani che gli tremavano. Se ne accorse mentre stringeva il braccio di Maurice. Non aveva mai creduto alle ancore di salvezza, ma ora tentava di tenersi saldo.

“Si tratta di una persona un po’ particolare… non so se mi spiego?! Una donna… di questo paese stesso… non devi nemmeno andare lontano… Ragazzo se me lo chiedevi ti risparmiavi un sacco di viaggi e di fatica…”.

“Ci devo parlare! Chi è? Dove la trovo?”. Non c’era nemmeno tempo per piangere sul latte versato. Gli attacchi di tosse di quella mattina avevano tolto il fiato anche a lui. L’aveva abbracciata, l’unica cosa che poteva fare, ma lei lo aveva respinto, puntandogli i pugni sul petto e senza dire una parola. Non riusciva a togliersi quella scena dagli occhi.

“È un po’ particolare come donna… non so se mi spiego… è esigente… è una tipa… come dire…”.

“Non importa! Tu dimmi dove abita, dove la posso trovare!” chiese esasperato.

“Dove abita non lo so con certezza… però ti dico dove la puoi trovare ora…”.

“Allora dove…”. André tratteneva l’incazzatura di fronte a quella reticenza abbinata alla sua urgenza disperata, alla loro vita che stava andando in frantumi.

“Voltati e guarda” disse inaspettatamente Maurice.

André si voltò, ma non vide nulla, tranne un esercite di donne anziane e di mezza età che si affrettavano verso la chiesa, allo scampanio che annunciava la messa, e gli uomini immobili ai lati della piazza.

“Cosa guardo? Non c’è un accidente…” protestò di fronte alla solita desolazione del paese.

“Guarda quella col velo col velo bianco…” disse con la voce di svelare arcani che possono essere salvezza o sciagura.

Una signora anziana, vestita d’azzurro, con un paio di occhialini rotondi si sistemava, strada facendo, un velo bianco sul capo. André aggrottò le ciglia. Non poteva essere che lei: era l’unica col velo bianco; tutte le altre lo avevano nero. Una tipa indipendente…

“È lei la tua donna. A lei devi rivolgerti. A Madame Marron Glacée”.

“Ma… quella… potrebbe essere mia nonna!” esclamò contenendo la voce. Cosa poteva avere di così pericoloso e minaccioso una vecchia signora? Ora pensava seriamente che Maurice lo stesse prendendo in giro.

“Se parli con lei non dirle mai una cosa del genere!” disse Maurice sbarrando gli occhi.

 

Non era molto convinto, ma era l’unica carta da giocare. La sbirciò dal portone mentre partecipava, col rosario in mano, alla messa e gli sembrò una cosa del tutto assurda: una donna di quell’età che fa tutte le cose che fanno le coetanee e in più contrabbanda penicillina? Non restava che aspettare, ma la messa non finiva più.

L’unica cosa che gli diede sollievo fu vedere quel bastardo del dottor Duval all’ultimo banco ed aver la faccia tosta di entrare per sederglisi accanto, nonché vederlo sudare freddo al repentino aumento delle probabilità di un contagio da un potenziale tisico. E poi da lì riusciva a tenere meglio d’occhio la signora…

Il dottor Duval si volatilizzò non appena il prete aveva sentenziato “Ite. Missa est”. Si allontanò a velocità della luce dalla vicinanza del morbo.

Madame Marron Glacée, però, scomparve con l’intero gruppo delle pie donne nella canonica e ad André non rimase che annoiarsi sui grandini della chiesa mentre faceva buio.

Pensò ad Oscar da sola nell’abbaino. E pensò anche che, sicuramente, al ritorno lo avrebbe ucciso, probabilmente con una delle bende di cui andava così fiera…

 

La signora, con passo svelto, percorreva le viuzze che si intrecciavano, prima verso l’interno, poi verso l’esterno del paese. Gli diede l’impressione che lo stesse portando a spasso per farlo stancare. Ma non si era voltata neanche una volta, come poteva averlo visto? E come poteva aver deciso, su due piedi, di abbindolarlo? Eppure aveva la netta impressione che tentasse di seminarlo. Certo che, per l’età che dimostrava, correva come una ragazzina, anche se dissimulava il tutto in una camminata veloce. Lui era debole, non mangiava dal giorno prima, ed ogni tanto doveva fermarsi, prendere fiato e aspettare che passasse un giramento di testa. Controllare la preda nel buio, con un solo occhio stanco, è un supplizio.

“Maledetta vecchiaccia!” mormorò appiattendosi contro un muro, mentre la donna si fermava a parlare amabilmente con due gendarmi. Non prometteva nulla di buono, si spiegò da solo mentre la vecchiaccia sgattaiolava in una delle porte là vicino e i gendarmi gironzolavano insospettiti. Qualcosa gli diceva di non farsi vedere da quegli uomini se non voleva trovarsi nei pasticci.

 

Un pomeriggio mi svegliai da sola e aspettai. Aspettai finché il sole non se ne fu andato. Poi quando fu abbastanza buio e fui ancora sola mi misi a piangere, ma in modo da non farmi udire, ricoperta dal rumore del mare che, nell’oscurità, batteva sulle scogliere.

 

Cancelli, cancelletti e staccionate… A mangiare poco si diventa molto meno atletici di quel che un fisico scattante può far pensare! André affastellò questi pensieri mentre si dirigeva verso quello che, secondo i suoi calcoli, era il giardino della casa in cui si era rifugiata Marron Glacée. Qualche minuto e sarebbe stato buio pesto, ma non poteva permettersi di rimandare, come chi è stato morso da una serpe e deve trovare, significhi la vita o la morte, l’antidoto. Non calzava molto come similitudine pensò… in effetti era lui ora, a strisciare fra le erbe: proprio come la tanto vilipesa serpe; disposto a fare associazioni mentali anche peggiori, purché lo aiutassero a non farsi vincere dalla stanchezza.

Avanzò nell’ombra verso una finestra illuminata. Pestò piante, rami, pietre con la maggiore circospezione possibile: per non farsi scoprire. Nel giardino si distinguevano ancora la sagoma del pollaio, a giudicare dall’odore, e di un edifico che sembrava un fienile.

Marron Glacée sfaccendava in cucina. Forse per strada lo aveva scambiato per un malintenzionato, ma le conveniva correggere l’impressione, perché un nuovo cliente faceva comodo anche a lei. Non che pensasse che a farle segno da dietro la finestra si sarebbe entusiasmata, ma non immaginava nemmeno quello che sarebbe successo!…

Successe che lei si mise a urlare: spalancò la bocca con le mani sulle orecchie e iniziò a emettere ultrasuoni. La prima cosa che pensò André fu: “Devo farla stare zitta e spiegarmi!” La seconda che non le venisse un infarto! La terza fu “Merda!”.

D’istinto si intrufolò in cucina dalla finestra, radendo al suolo con gambe e ginocchia una serie di pentole, posizionate sul mobile sottostante, che caddero facendo un baccano tremendo, per completare il caos. Agguantata la nonna, le tappò la bocca con una mano. “Zitta! Zitta… per pietà! Lasciatemi spiegare!” tentò di dirle nell’orecchio.

Le preoccupazioni e gli scrupoli lo abbandonarono in coincidenza con un tremendo oggetto freddo e duro che gli piombò sulla testa un istante dopo essersi accorto che l’anziana signora gli era sgusciata dalle mani.

“Cazzo!” pensò mentre l’oggetto continuava ad abbattersi sulle falangi delle dita con cui tentava di proteggersi il cranio.

“Brutto scostumato!… Robespierre! Robespierre all’attacco!” urlò la voce delle donna, mentre André credeva di identificare nell’oggetto dolorifero un mestolo. Non fece in tempo a chiedersi che cavolo ci facesse lì pure Robespierre, che si trovò spinto a terra sulla schiena da un peso massimo. Rimpianse di non avere con sé armi. In fondo sapeva bene quanto poteva essere tremenda quella donna, ma non avrebbe mai pensato che si sarebbe spinta oltre le mestolate. Il peso massimo gli si bloccò sul petto e, ancor prima di riaprire gli occhi, André fu distolto dal dolore della botta da qualcosa di umido che gli colava in faccia. Lo spettacolo che vide con la schiena incollata al pavimento non lo terrorizzò, ma gli provocò una notevole sensazione di disagio: sul suo petto c’erano le enormi zampe di un enorme cane marrone, dal cui muso colava una copiosa bava; dietro il primo piano del cane, minacciosa sullo sfondo, la nonnina brandiva ancora il mestolo, disgrazia degli afflitti. Con quelle zampe sulla cassa toracica era difficile anche sospirare per la sconsolatezza.

“Brutto ceffo scapestrato…” iniziò con gli improperi la nonna.

“Posso spiegare… se non mi fate sbranare dal cane” disse a fatica, constatando che il cane si limitava a bloccarlo e a guardarlo senza dire bau. Doveva aver capito che uno come lui non era pericoloso. Il mestolo fermo a mezz’aria lo era molto di più…

“Sono qui perché ho bisogno del vostro aiuto. Mi hanno detto che potete procurarmi della penicillina… è urgente!” sputò fuori, mentre il cane Robespierre lo scavalcava, poco interessato, per andare ad accucciarsi altrove.

“Volete la penicillina?” chiese la nonna dall’alto.

Si guardarono un attimo negli occhi. André tentò di alzarsi con movimenti lenti che non la inducessero a colpirlo ancora.

“Potevate dirlo subito giovanotto!” disse, come se niente fosse, abbassando il mestolo.

“Se non mi fai parlare!” pensò André.

“Quanta?”chiese.

André rimase disorientato. Preso dall’angoscia, aveva pensato solo al modo in cui procurarsela, la penicillina. Il particolare della quantità, quello del dosaggio non li aveva considerati.

La donna lo guardò perplessa. “Giovanotto… a che vi serve la penicillina?”.

“A curare… mia moglie” disse esitando un attimo. Perché certe verità devono passare per bugie? “E’ malata. Ha la tisi… e da quando siamo qui al mare sta peggiorando, e io ho paura” confessò.

La donna lo scrutava da dietro gli occhialini, in silenzio. Lo stava esaminando.

“E non sai quanto ti serve?”.

“No”.

“Non hai pensato nemmeno al pagamento, vero?” disse all’improvviso, ma non sembrò che lo rimproverasse, se non per una questione di disorganizzazione.

“No… mi dispiace… ho pensato solo… che ne abbiamo bisogno”. Stava per scoraggiarsi, ma non gli importava più di tanto apparirle un uomo molto ingenuo. E molto sprovveduto.

“Chi è il vostro medico?”.

“Duval non ci vuole…”.

“Ossignore! Duval! Quello c’ha la laurea finta ed è uno scalzacani!” esclamò giungendo le mani.

“Non potevo saperlo… non sono di qui… vengo da Parigi…”.

“Te lo indico io un buon medico e digli che ti mando io!” disse, sparendo nelle stanze e tornando con delle scatole.

 

Era ormai buio pesto. I muri della casa erano rischiarati da lumi ad olio e il caldo non era pressante come all’aria aperta.

André cercava le parole per ringraziare.

“Non credere di cavartela!” disse la donna. “Mi pagherai. Ho bisogno di qualcuno che si occupi del giardino, delle galline e dei cavalli. I giovani di oggi sono tutti scalzacani! Ne ho licenziati tanti, ragazzo mio!”.

André scrollò il capo, rassegnato. “Grazie!” disse. “Per tutti e due”. E si avviò verso l’uscita.

“Ragazzo…” disse la donna. “Farai meglio e non passare di là…” lo avvertì. “Ho detto ai gendarmi che un brutto ceffo malintenzionato, vestito di marrone e con un occhio bendato, mi stava seguendo fin dalla chiesa…”.

“Lo sapevo che c’era la fregatura…” mormorò André. Rimasero in silenzio per l’imbarazzo.

“Non posso passare di nuovo attraverso i giardini… è troppo buio. Non mi resta che questo…” disse togliendosi la giacca per risultare meno riconoscibile e sbendandosi il capo.

“Oddio!” disse la donna, come se quel gesto le causasse dolore.

“Lo so… sono orrendi quei fiorellini” sdrammatizzò, alludendo ai disegni che venivano fuori svolgendo le lenzuola che Oscar aveva convertito in bende. “Ma me le ha fatte lei queste…” disse dolcemente, mentre le bende cadevano a terra. Si voltò: sapeva che quell’occhio non era uno spettacolo per niente bello. E poi gli confondeva la vista che diventava sfocata e tremante. Abbassò la maniglia con decisione. “Grazie ancora” disse.

“Ragazzo… è tua moglie? L’hai sposata?” gli chiese.

“Io la amo” disse e se ne andò.

 ЖЖЖ

 

Era molto tardi. Molto buio. Avevo la febbre molto alta; avevo tossito molto e pianto molto. Louise era salita su e aveva tentato di parlarmi e di darmi una mano. Non ricordo cosa avesse detto, perché mi parlava e non sentivo. Nella tosse la mia rabbia non si sfogava abbastanza. Mi ero guardate le dita di nuovo sporche e mi ero messa a gridare perché se ne andasse, sparisse, e se lui non c’era che rimanessi sola, perché di altri non me ne fregava niente. Era sparita, terrorizzata credo. Nell’allungare la mano per prendere il bicchiere, lo avevo colpito ed era rotolato sul mobile e poi a terra. Era schizzato via in mille frammenti.

Iniziai a pensare le cose più assurde. La febbre e la frustrazione covavano ipotesi tremende. Che si fosse stufato e fosse andato via, per essere felice altrove e con qualcun’altra: una donna sana che lo curasse, che non fosse costretta a respingerlo per proteggerlo… Che lo avessero preso i nazisti…  Che lo avessero ucciso. 

 

In uno dei vicoli in cui si era impelagato sentì dei passi alle spalle. Affrettò l’andatura, poco tranquillo e gli sembrò che quei passi si allontanassero. Non si tranquillizzò. All’improvviso, si trovò un fascio di luce puntato in viso. Fu come una puntura alla vista. “Altolà” urlarono i gendarmi. Ma, di fermarsi, non se ne parlava neanche per scherzo. Schizzo via nella direzione opposta, senza vedere nulla per alcuni attimi, fidandosi solo delle gambe, mentre i due gli stavano alle calcagna.

 

Stavo scivolando verso l’incoscienza per la stanchezza e l’esasperazione: smettevo di percepire il mondo circostante.

Poi sentii dei passi su per le scale; voci maschili; la voce di Louise che diceva “Grazie al cielo!”. La porta dell’abbaino cigolò, le assi del pavimento scricchiolarono. Due mani mi afferrarono per le braccia e mi voltarono lentamente. “Oscar…” disse André sottovoce.

“Perché sei stato via per tanto tempo?” chiesi, intuendo l’immagine fra le ciglia. Ero felice.

“Shh!” fece con l’indice sulle mie labbra.

Altre persone, forse Louise e Maurice erano intorno al letto. La luce era poca ed illuminava solo parte dei volti, che la febbre mi faceva apparire lunghi e gialli. Ombre deformi guizzavano sulle pareti. Odore nauseante di cera e calore della fiamma delle candele nel calore di un’estate torrida. Qualcuno mi sfilò un braccio da sotto le lenzuola.

“Sta’ tranquilla… non lo farò più. Ora il dottor Lassonne deve farti un’iniezione” disse André e mi scostò le ciocche di capelli bagnate di sudore dal viso.

Un uomo robusto con barba e occhiali alla mia destra preparava una siringa. Avrei voluto chiedere qualcosa ad André, ma non ne avevo la forza. Non capivo bene. O meglio: mi sembrava impossibile quello che stavo intuendo. E se fosse stato solo uno scherzo della febbre? Come diavolo poteva averla trovata la penicillina?

“Signora… prima però la devo visitare” disse il medico, dopo avermi posato una mano sulla fronte.

Nessuno mi aveva mai chiamata signora.

Le altre persone uscirono dalla camera. Solo André rimase al mio fianco.

La sensazione di sonno e spossatezza stava svanendo. Quando il medico, dopo la visita, si accinse a farmi l’iniezione, strinsi la mano di André. Lo guardai nella penombra, col viso rischiarato a metà dalla luce della candela. Sorrise un attimo solo, davanti ai miei occhi spalancati che tentavano di dare un senso a tutto quello che accadeva e che mi sembrava irreale. Sotto il ciuffo di capelli che ricadeva sull’occhio sinistro scorsi la pelle arrossata e la palpebra gonfia. Allora sì che sperai che fosse un sogno.

“André… la medicazione?”, ma una mano mi rimise giù sul cuscino. Sentii l’ago.

“Fa’ la brava Oscar…” fu tutto quello che seppe rispondermi.

 

ЖЖЖ

 

Passarono alcuni giorni. Stavo un po’ meglio. Non fui felice come speravo.

Guardai con la mascella serrata le fasce sistemate in un angolo sul comò: le fasce ormai inutili.

“Questa è una cosa che non riuscirò mai a perdonarti…” gli dissi, mentre sedeva curvo coi gomiti sulle ginocchia, sulla sponda del letto. “E non trovo giusto… che per me… tu…”.

“Non perdonarmi. Non fa nulla. Ho scelto io quello che dovevo fare” fu la risposta.

“André… io non voglio sembrarti un’ingrata…”.

Poi non seppi come continuare. Una conversazione iniziata con quel tono non prometteva nulla di buono, ma io non volevo litigare. Era difficile parlare. Gli dovevo la vita per un gesto che speravo non compisse mai. Su un piatto la mia salute, sull’altro il suo occhio sinistro ormai cieco. Me l’aveva detto il dottor Lassonne: la debole luce di candele e lampade era bastata a sforzare l’occhio e a comprometterlo.

Si voltò a guardarmi con una mano sotto il mento. Cercavo le parole per uscire dall’intrico di pensieri in cui mi ero cacciata.

“Ho capito quello che vuoi dire” rispose. “Ma era l’unica soluzione… e parlarne non cambierà le cose”. Mi strinse la mano.

“La versione più corretta… è che io non me lo perdonerò mai…” sussurrai guardando fuori. I gabbiani volteggiavano e poi piombavano in picchiata sul mare.

“Non essere sciocca… Se devi preoccuparti di qualcosa, preoccupati che la vecchia signora mi lasci tornare a casa con tutte le ossa al loro posto, perché credo che il suo giardino, il cane, i cavalli, le galline e i suoi traffici illeciti mi prostreranno alquanto! ”.

Mi venne da ridere e gli strinsi di più la mano.

“Se fai la brava un giorno ti porto da lei” disse alzandosi ed accostando la tenda. Il sole smise di pungermi gli occhi.

“Credo… che ti darei un bacio se fosse possibile”.

“Te lo do io” disse e mi baciò sulla fronte. “Vedi di dormire un po’ ora. Perché quando starai meglio ti assicuro che non ti lascerò molto tempo per farlo!”.

Credo di essere arrossita.

“A buon intenditor poche parole!” disse sedendosi a scarabocchiare su alcuni pezzi di carta.

Il vento tirava forte e i gabbiani cantavano.

 

ЖЖЖ

 

13 luglio 1944.

Radio Londra aveva annunciato: De Gaulle ad Algeri. Dieci giorni prima era stata proclamata la Repubblica del Vercors: i francesi erano sempre più divisi per tentare di essere liberi e per sperare di essere uniti. Dio solo sa come sarebbe finita quella storia iniziata per rendere onore alle parole pronunciate il sei giugno da De Gaulle in occasione dello sbarco in Normandia: “È la battaglia di Francia, ed è la battaglia della Francia”. Pochi giorni dopo avremmo pianto tutti amaramente.

Dei nostri amici nessuna notizia: non sapevamo se avevano preso parte a quell’evento. Nemmeno Louise sapeva nulla di suo fratello.

13 luglio. Che brutto giorno quel giorno… Lo odiai fin dall’alba anche se non avevo che qualche linea di febbre. Ci pensavo e mordevo le lenzuola.

André si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta.

Gli avevo chiesto di non lasciarmi sola e di non andare da Marron Glacée quel giorno. Lui mi aveva assecondata distrattamente ed aveva continuato a scarabocchiare su foglietti che, invariabilmente, finivano nella spazzatura.

Quando si alzò ed abbassò la maniglia per uscire mi assalì l’angoscia. E se lo prendono? E se gli succede qualcosa? diceva una voce.

“André… dove vai? ” saltai su a dire con un’espressione che non era propriamente tranquilla. Mi sembrò un po’ spaesato, ruotò lo sguardo e cercò le parole.

“Non me lo vuoi dire… non andare…” incalzai ansiosa.

“Se proprio ci tieni te lo dico…” fece lui con un’espressione strana. “Devo andare in bagno”.

Mio imbarazzo totale.

“Vuoi anche i particolari?” mi provocò.

“No! Va’ pure!” conclusi. Ripiombai sul materasso e mi coprii la testa col cuscino.

pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2004

Continua...

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