Rumore d'ali

(De insania)

Parte XIII

 

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Tracciò alcune linee nella terra smossa. Rimase fermo un attimo a guardarle e, con un’espressione di disappunto, le cancellò col piede. Capivo bene quello che stava facendo. Tentava di fare qualcosa che lo faceva stare bene e lo innervosiva non averne più la padronanza di un tempo. Ridisegnò qualcosa e rimase a guardare con le dita intrecciate, le braccia sulle ginocchia e un’aria che diceva “Così non va…”.

“Ehi?” gli feci appoggiandomi al tronco dell’albero vicino.

“Ehi…” rispose sollevando lo sguardo e seppellendo l’opera che riteneva indegna.

“Non va?”.

“Non va per niente, tesoro” commentò. Tentò di scantonare e aggiunse “Si dà una mossa Bernard?”.

“Ha detto che si darà da fare… Dagoût sa dove può trovare una ricetrasmittente” risposi laconica. Non mi andava di riprendere quel discorso. Gli accarezzai capelli e mi sedetti sul suo ginocchio, circondandogli con un braccio le spalle. Si passò una mano sull’interno del braccio e confessò: “Ormai ho la mano di travertino…” e rise.

“Che scemo!” esclamai toccata. Come consolazione gli concessi un bacio sulla fronte.

“Oh che roba… è un’indecenza… non si può!!!”

C’era una voce fuori campo che rompeva. Sempre e per nulla. Fastidiosa come una zanzara.

E dire che l’avevo beccata mentre implorava André di lasciarle i suoi panni da lavare… con lui che faceva “No, ti ringrazio. Grazie veramente. Ma che credi? Io lo so fare il bucato…”.

Non mi ero trattenuta: gli avevo sottratto la camicia, sotto lo sguardo di quella, ed avevo detto ben chiaro “Lo so fare perfino io il bucato” e mi ero allontanata col maltolto. “Oscar…” aveva commentato André, intenzionato a fermarmi. “Guarda che a Parigi me li lavavo da sola i panni! Sono capace sa’?!”

 

“Andiamo” disse. Il flusso dei miei ricordi rancorosi si interruppe. Si alzò, mi prese per mano e ci avviammo. Mi passò per la mente un pensiero banale: che era bello che la mia mano fosse nella sua.

Sovrappensiero inciampai in una radice che non avevo visto.

“Ops…” disse André, trattenendomi per la vita.

“Non l’ho vista” feci io, continuando a camminare. Un gesto da nulla, un fatto da nulla, eppure come una valanga tornarono alla mente i ricordi del tempo in cui non era stato così.

 

 

ЖЖЖ

 

Parigi. L’inverno e l’incertezza…

 

“E tieni a posto le mani!...” gli avevo sibilato di traverso, voltandomi di scatto.

Non aveva detto nulla e aveva fatto un passo indietro, lasciandomi la vita. Avevo sentito il distacco delle mani che lasciavano presa.

“Se non ti teneva ti spaccavi i denti” aveva commentato, tagliente, Alain.

Avevo guardato di traverso anche lui e, scavalcata una pila di libri franata per terra, mi ero allontanata, ingrata. Lo avevo fatto con la schiena dritta, in modo solenne: per non lasciare intuire che stavo tremando.

“La solita ingrata”. La solita voce di Alain.

“Tu sei troppo disordinato” lo lapidai di spalle.

“Lasciala stare”. La voce di André.

Avevo tentato di ignorarli ed ero entrata in cucina dove Diane rimestava in una pentola.

“È quasi pronto il minestrone. Lo mangi? Però non c’è molto dentro…” mi aveva chiesto.

“Sì. Lo mangio. Posso stare qui?”.

“Sì… certo… Perché me lo chiedi?”.

“No… nulla, preferisco stare qui”.

 

Era successo mesi fa, una sera. A Parigi. A casa di Alain. Giorni dopo essere tornati dall’obitorio per riconoscere il cadavere di Jeanne. Erano i primi giorni della nostra contro–propaganda. Le prime attività occulte. Il tempo in cui Bernard era vitale e focoso, Alain sognava di offrirci cene a base di arrosto e André era per me un mistero ed al contempo non lo era.

L’entusiasmo ci faceva volare e ci stringevamo a cerchio fra noi per abituarci alla paura e alle incertezze. I sogni a base d’arrosto di Alain erano utopie in un paese in cui si penava in lunghe code per avere un pezzo di pane nero… se andava bene; si erano pertanto adattati alla scarsezza di cibo e assunto le sembianze di “tristi minestroni”. Tristi minestroni che tutti mangiavamo voracemente, benché dentro navigassero, raminghe, sparute verdure. Sempre meglio di quei tempi in cui in un minestrone al massimo ci potevi trovare il cucchiaio.

Erano anche i giorni i cui lottavo con qualcosa di strano che mi si agitava dentro. Delle sensazioni troppo forti e ribelli che prendevano forma e rischiavano di avere un nome nei momenti in cui avevo accanto una certa persona. Dai brevi momenti passati fra le sue braccia nel perimetro freddo dell’obitorio la confusione si era ridimensionata: il problema erano le certezze che ne venivano fuori. Non sapevo gestirle. Non sapevo gestirle se non con crudeltà e distacco. Credevo io…

Avevo inaugurato la serata rifiutandomi categoricamente che mi desse un passaggio con la MG. Mi ero fiondata a piedi a casa di Alain e Diane quanto prima possibile. E continuavo nel migliore dei modi.

 

“Non è un cattivo ragazzo… non l’ha fatto per allungare le mani… è molto rispettoso” aveva detto Diane che dalla cucina mi aveva visto inciampare nella pila di libri e inveire contro André che aveva osato sorreggermi. Mi ero trovata in imbarazzo. L’avevo scrutata al di là dei vapori della pentola.

“Lo so… ma non è per quello…” erano state le uniche parole che avevo detto; poi non avevamo più parlato e gli unici suoni in quella stanza erano stati suoni di pentole, coperchi e posate.

Gli uomini erano sul balcone. La serata non era molto fredda, anzi piuttosto piacevole. Le loro parole si intrufolavano fra i rumori di pentolame vario. Per quanto fossi nervosa, a disagio e poco propensa all’ascolto, si intuivano stralci di discorsi.

La voce di Bernard aveva detto “È troppo sensuale. Mi fa impazzire!”. Mi ero chiesta di chi parlasse. Qualche tempo dopo, non avrei avuto difficoltà ad indovinare che si trattava di una certa ragazza rimasta incinta.

“Davvero? Mi è sempre sembrata una ragazza… triste” aveva puntualizzato Alain.

“Non è vero!”.

“Allora deve essere una che si commuove molto” aveva continuato a controbattere alle proteste di Bernard. André non parlava. Mi sentii in colpa.

Bernard rientrò a curiosare fra i libri impilati in salotto. La casa era molto piccola, animata da un confortevole disordine e da tinte calde. Era un piccolo guscio. Tempo prima in un angolo c’era una radio di legno bordeaux; poi quando i tempi si erano fatti difficili l’avevamo trasferita nel rifugio e Alain aveva detto in giro di averla venduta. Era rimasto un leggero alone contro il muro.

“Non sei del tuo solito umore”.

“Forse” aveva risposto André alla domanda che Alain gli aveva rivolto appena soli.

“Sei sicuro che sia proprio lei?”.

“Sì”.

“Nonostante tutto?”.

“Sì”.

“Non vorrei essere nei tuoi panni”.

“A volte neanche io”.

Ero rimasta ferma coi tovaglioli in mano. Se fossi entrata nel salotto mi avrebbero visto e non avrei saputo dove guardare. Per qualche istante non avevano detto nulla. Ed avevo temporeggiato anch’io, mentre Diane sfaccendava. Per qualche istante ero rimasta col respiro sospeso.

“Hai ancora quelle piastrine?”.

Non avevo capito cosa volesse dire Alain con quella domanda. Piastrine? Non avevo compreso di quali piastrine si trattasse. Né avevo capito se André le aveva ancora.

“La volta che mi facesti quella richiesta pensai che stessi impazzendo. Che oltre a litri di sangue avessi perduto buona parte del senno”.

“Può darsi che sia pazzo senza recupero”.

“È un’eventualità. Ma mi sei simpatico”.

“Grazie”.

“Prego”.

“Anche tu hai molto da raccontare e da nascondere… vecchio Alain” disse, ironica, la voce di André.

“Hai ragione. Lo sai” assentì stiracchiandosi.

Bernard sfogliava le pagine del libro. Diane poggiava sul tavolo il pentolone fumante.

“Gliel’avresti consegnata vero?”.

“Col carattere che ha Françoise… o Oscar – come si fa chiamare lei e come blateravi tu - mi avrebbe preso per scemo per anni… però gliel’avrei consegnata. Lo sai. Per essere uno che era caduto con l’aereo, si era rotte tutte e due le gambe e che respirava a stento, eri molto convincente”.

“Avrebbe capito invece… me ne sono reso conto l’altro giorno”.

Non riuscivo a comprendere invece. Ero avanzata quanto bastava per scorgerli sul balcone. E intuii.

André teneva in una mano una catenella con le due piastrine che portano al collo i militari. Se il soldato muore, una serve ad identificare il cadavere; l’altra si consegna alla famiglia per comunicare la perdita. La morte del congiunto.

Avrebbe voluto che l’avessi io. E a quel tempo non mi conosceva.

“Non so… forse ho sbagliato qualcosa… e deve essere tutto così e basta” disse André.

Le medagliette rotearono sospese alla catenella. Le nascose tintinnanti sotto la camicia.

Lanciai i tovaglioli sulla credenza  e annunciai a Diane che avevo bisogno del bagno. Non le diedi il tempo di spiegare dove fosse che ero già sul pianerottolo. Sentii solo che diceva che stava per servire in tavola.

Sul pianerottolo ci rimasi quanto bastava per ricompormi, controllarmi, dichiarare guerra alle lacrime che avessero osato sfuggirmi.

Tempo dopo avrei capito che era per spezzoni di sogni che sembravano cuciti alla carne e al cuore. Allora erano solo all’inizio e invece di legarli fra loro li negavo.

Fu una serata strana. Sia io che André fummo insolitamente silenziosi. Bernard inarrestabile. Parlava di come deve essere la donna fantastica. Ritratto che effettivamente non combaciava con la sottoscritta, che quella sera si sentiva particolarmente poco fantastica. Un’imbarazzata Diane e un Alain divertito e perplesso partecipavano. Bernard iniziò a chiedere ad André di varie ed eventuali modelle che avesse più o meno conosciuto. Delucidazioni di carattere generale che si capiva intendessero altro. Lui deviò le domande, ma mi era sempre più chiaro che Bernard, ormai disinibito dall’alcol, intendeva parlare di conoscenza in senso biblico. Temetti che il discorso diventasse peculiare. Mi consolai pensando che in caso di degenerazione assoluta avrei potuto estraniarmi con l’aiuto di Bacco. Grazie a Bernard riuscivamo ad avere sempre più alcool che cibo.  Quell’insano discorso mi spinse poche sere dopo a fare ad André stupide domande sulle modelle per poi tenergli il muso peggio di quanto non avessi fatto fino ad allora. La notte in cui, mentre fuggivo da lui, mi salvò dal vecchio ubriaco.

 

La serata era scivolata via troppo veloce, come acqua fra le dita. Eppure in ogni istante, in ogni gesto di quella sera c’era stato tanto di tutti noi: era così densa che sarebbe potuta durare in eterno.

Alla fine mi ero abbottonata stretta nel cappotto dal taglio maschile, sotto lo strano sguardo di Diane. Col capo chino avevo dovuto accettare di essere riaccompagnata a casa con l’unica auto a disposizione. La notte era tersa e sotto il suo blu cupo la MG sferragliava discreta con tre passeggeri a bordo: io, André e il Bernard innamorato.

Dalla mia postazione sul sedile posteriore avevo osservato come si muovevano le mani di André sul volante e sul cambio. Avevo ascoltato, svogliata, dalla voce di Bernard i programmi d’azione per la settimana dopo. Ero con loro, ma sarei tornata a casa più sola di prima.

 

 

ЖЖЖ

 

 

“Mi spiegheresti perché porti ancora queste al collo?” chiesi giocherellando con le piastrine fra le labbra. Tirò la catenella e tintinnando gli caddero in mano. Le guardò per un po’, come se fossero degli oggetti più complessi di quanto sembrasse. Gli richiusi la mano e mi feci più vicina; le labbra sul collo poi dietro l’orecchio. Un fremito leggero e sentii le sue dita sulla pelle sotto la cintura dei pantaloni.

“Non vuoi rispondere?” gli sussurrai nell’orecchio e lo sentii ridere.

“No… è che non c’è un motivo preciso”. Mi posò una mano sulla nuca e all’improvviso mi trovai immobilizzata sull’erba, il seno schiacciato contro il suo petto; una sensazione di calore che aumentava al premere del suo bacino contro il mio. Forse avrebbe risposto se non lo avessi baciato e se non gli avessi lasciato fare altro con le mani sotto la camicia. I pantaloni mi scivolarono lungo i fianchi.

“Veramente… Rispondimi” feci d’un tratto, staccandomi e fermandolo prima che non fosse più possibile. Lo sentii tentare di respirare più piano, con gli occhi chiusi e le labbra arrossate. Le piastrine oscillavano al ritmo del respiro. Volevo a tutti i costi che mi desse una risposta. Non aveva molto senso chiederlo in quel momento a un uomo mezzo nudo, con le mie gambe attorno ai fianchi e sotto di sé una visuale tutt’altro che pudica. Infatti non si fermò. Lo strinsi forte perché mi venne in mente che dovevo proteggerlo. Inarcata sotto il suo peso, lasciando finalmente andare il gemito che trattenevo, sperai che non ci trovasse nessuno. I ragazzi del Maquis andavano in giro per il bosco. Forse non eravamo abbastanza lontani. Poi cominciai a lottare e non me ne importò più nulla. Lo strinsi a me, sull’erba, sotto gli alberi, come se stessi morendo.

 

“Non c’è…. un motivo… preciso” disse mentre eravamo scivolati nel torpore, senza più forza. “Forse perché sono convinto di non aver mai smesso di far parte dell’esercito”.

Non ebbi la forza di rispondere, né avrei potuto fare altre domande. Non ne avrei fatte comunque. Lasciai scorrere le dita sulla pelle bagnata per dirgli che avevo capito.

“Non c’è più una Francia… con un esercito… Solo alcuni uomini che sentono di farne parte”.

Temporeggiavamo prima di ritornare dagli altri.

“Scusami…” disse dopo un po’. Aprii gli occhi stupita. Non capivo.

“… per prima. Sei piena di luce… A volte penso alle farfalle notturne che seguono le nostre lanterne. Se penso a te mi sento come loro: volano nel buio e impazziscono davanti alla luce”.

“Esagerato…” sdrammatizzai, rossa come certi tramonti.

“No… davvero!” protestò vivacemente. “Davvero!”.

Sono sicura che non potei fare a meno di sorridere.

 

Guardai le piastrine. Ne presi una fra le dita.

“Io… se per qualche motivo… mi dovesse essere consegnata… non terrò mai una di queste” gli dissi guardandolo negli occhi.

Si spaventò.

“Sai cosa intendo…” dissi ancora, ma sapevo che aveva capito. Volevo che lo sapesse dalla mia voce.

“Smettila! Non dire queste cose neanche per scherzo…” protestò.

“La terrei il tempo di raggiungerti”.

Sospirò. Come se non potesse scacciare un fantasma. Avvolsi la catenella attorno al dito e chinai il capo sul suo petto.

Passò ancora un po’ di tempo.

 

ЖЖЖ

 

 

“Ci stanno mettendo tanto… vacca la miseria!”.

“Rilassati!”.

“Non mi rilasso proprio per nulla”.

“Sono via da cinque minuti. Dovrei essere io quella che si allarma subito”.

“Io mi allarmo perché di Bernard non mi fido, ultimamente. Non lo fa apposta, ma vive da mesi nel mondo dei cazzi astratti”.

“Nemmeno André si fida, per questo lo ha seguito”.

“Anche lui ci sa fare… ed è in forma. È quasi una garanzia”.

“Vorrei capire com’è che ci sa fare… Agli aviatori e ai pittori mica insegnano le tecniche del furto”. Era una domanda che mi ronzava in testa da un po’.

“Nemmeno ai giornalisti, eppure Bernard quando è al suo meglio è un’artista. Tu sei una giornalista, non ne consegue che abbia la sua stessa attitudine…”

“Alain… Tu sei un tipografo coi nervi logori che fa sillogismi senza senso”.

“Diciamo che sono un tipografo”.

 

“Mi sembra che ci stiano mettendo un po’…”.

“No… che dici”.

“Mi prendi in giro? Hai iniziato tu a preoccuparti per primo!” sottolineai a braccia conserte.

“Se ci stanno mettendo un po’ di più sicuramente il Grandier ha preso la situazione in mano”.

Deduzioni da Alain…

L’attesa nell’abitacolo del camioncino andava a nozze con l’ansia. Quella notte eravamo sul retro della famigerata bocciofila di St. Michel, il muso della vettura fra i cespugli e le armi in pugno per le evenienze. In quel luogo di svago per pseudo nazionalisti o, come preferisco io, “venduti a Hitler”, sindaco e camerati disponevano di varie comodità… più o meno moderne e funzionanti… Ma era lì, al circolo della bocciofila, che dovevamo attingere per avere quello che ci serviva. Si vociferava che in uno scantinato ci fosse una ricetrasmittente usata da sindaco e adepti per comunicazioni urgenti ad alti funzionari vassalli o stranieri.

Al di là di rami e cespugli non si vedeva granché dell’edificio, solo la parte posteriore e l’uscita secondaria. Oramai, abituati al buio costante in cui ci muovevamo, avevamo occhi da gatti che riuscivano a intuire quello che ci serviva.

La vista monotona di quello spicchio di buio oltre il parabrezza iniziò a darmi ansia. Le foglie stormivano nel vento tiepido e deciso. Una mano sulla gola, come se servisse ad aiutarmi a deglutire.

“Cazzo Alain…” dissi dopo alcuni minuti insopportabili, colmati dal solo suono delle foglie.

“Oscar… annoiati! Le attese non devono per forza dare l’ansia, sai?”.

“…”.

 

“Alain… ascolta…”. Fra silenzio e buio avevo composto una domanda che covavo da tempo. Da mesi. Sentii che mi guardava come se temesse che avrei parlato.

“Ascolta… tu conosci André dal ’40… io e te ci conosciamo da un paio di anni… perché… perché…”.

Sguardo che non era, come speravo io, imbarazzato: imbarazzava me.

“Stai forse per chiedermi perché non te l’ho presentato prima?”.

“No! E in ogni caso non me l’hai presentato tu!” precisai.

“Beh comandante… se te l’avessi presentato anche solo qualche mese prima” continuò come se non avesse udito la mia protesta “… non l’avresti notato. Eri innamorata del biondino…”.

“Non ti ho chiesto questo!” esclamai con voce trattenuta e gli diedi una botta sul braccio.

“Va bene…. Mettiamola così… Vuoi sapere perché pur essendo lui mio fraterno amico ed io uno che vedevi ogni santo giorno al lavoro e che frequentavi anche al di fuori con annessa moglie…”.

“Voglio sapere perché non ho mai visto né saputo nulla di André fino a questo gennaio… e vorrei sapere perché… invece… lui sapeva di me… ho la sensazione che…”.

Ecco. L’avevo detto. Mi era costato fatica. Avevo scandito, incerta, le parole a voce bassa senza completare il pensiero. Pregando per la risposta e temendola. Sapendo che nel fare quella domanda sfidavo…. Chissà cosa… sfidavo.

“Oscar, ascolta me ora. Tu mi piaci…”

Ebbi paura che il discorso avrebbe preso una piega assurda.

“… cioè se non avessi trovato una come Diane, forse mi piaceresti…”.

Respiro di sollievo.

“… ma hai un caratterino tale che non ti presenterei al mio migliore amico! Per il suo bene, capisci?”.

A questo punto ero viola. Purpurea. Gli avrei dato un pugno sul naso.

“Hai ragione” feci signorilmente ed incassai il colpo, riprendendo a guardare dritto. Era pur sempre un’imboscata e non era il caso di fare casino e rovinare tutto. stavamo pur sempre lavorando.

Trattenne una risata. “Che sciocca… ci hai creduto! Questa risposta è la punizione per aver chiesto a me quello che dovresti chiedere a lui”.

“Va bene. Ho sbagliato. Se sentissi che mi risponderebbe… lo farei. Sento che gli costa fatica. Lo sento…” lo dissi con la tristezza che tagliava il cuore.

“E perché?” chiese Alain. Ci fu un minuto di silenzio.

“Che stupido… non dovrei chiederti il perché. Oscar… chi cade con un aereo abbattuto in volo, non si alza in piedi qualche giorno dopo… nemmeno qualche mese dopo. Ed anche quando è in piedi per lungo tempo è come se non lo fosse”.

Sì, era di quello che avrei voluto sapere.

“Quattro anni non sono pochi per uno che era destinato a morte sicura. Hai capito? Pensa a questo. Io non posso dire altro” disse con l’aria di voler chiudere il discorso e posò il braccio sul volante.

“Io ci penso. Ci penso… e penso a molte cose assurde che tu non sospetti” dissi abbassando lo sguardo e trattenendo le lacrime. I miei incubi: le uniformi, il caldo, la tosse, le cicatrici, le lenzuola nel vento… la cicatrice che André aveva sul petto. Ed era reale.

“In quanto a cose assurde che puoi pensare o aver visto… non credere di esser l’unica” disse secco.

Mi attraversò il dubbio che le mie parole fossero risultate meno oscure di quel che credevo nel pronunciarle troppo liberamente. Rimase con lo sguardo fisso di fronte a sé e il braccio in bilico sul volante. Lo fissai con sospetto, senza dire nulla. Ripresi a guardare lo spicchio di notte che avevo di fronte.

Sobbalzai a un botta sul retro del camioncino.

“Avanti. Muoviamoci!” intimò la voce di André. La ricetrasmittente era sul retro.

Il camioncino oscillò sotto il nuovo peso. Erano tornati.

“Avanti, sbrigati!” intimai ad Alain che mise in moto e partì.

André si sistemò sul sedile posteriore con un’aria nera. Così nera che si percepiva attraverso il buio della notte. Bernard al suo fianco.

“Com’è andata?” chiesi, mentre scivolavamo nella notte a fari spenti.

“Bene” fu l’unica laconica risposta di André.

 

Ci fermammo sul retro della casa di Dagoût. Avremmo nascosto lì la ricetrasmittente e lì avremmo operato, perché nel bosco era impossibile.

Alla luce della lanterna che il barbiere reggeva per illuminarci il tragitto, Bernard e Alain trasportavano l’oggetto giù per la scalinata per il sottoscala.

Afferrai istintivamente la mano di André. “Che ti sei fatto?” chiesi.

Si tamponava con un fazzoletto un rivolo di sangue.

“Nulla… è una sciocchezza” archiviò calmo, stringendosi attorno il fazzoletto. Afferrai i due lembi che non riusciva a congiungere e strinsi un nodo.

“Che ha fatto Bernard?” chiesi sospettosa, guardando la macchia rossa che si allargava nel tessuto bianco del fazzoletto.

“Un cazzo!” fu la succinta risposta. Mi sembrò arrabbiato giusto il tempo di pronunciarla.”Questo è il problema” aggiunse calmo, guardandoli trascinare quella specie di cassettone giù per le scale.

 

 

ЖЖЖ

 

“Francesi! Ho dovuto chiedere al nemico di porre fine alle ostilità”. Questo aveva detto il traditore Pétain nel giugno del Quaranta. Non ci si ripara dietro tesi di impossibilità per fare il proprio comodo. A volte pensavo alle sue parole e a quelle di altri come lui e mi indignavo. “Il popolo francese non contesta i propri fallimenti. Tutti i popoli hanno a loro volta conosciuto successi e il loro contrario. È il modo in cui reagiscono che dimostra se sono deboli o grandi. Trarremo insegnamento dalle battaglie perse”. Non si ascrivono al popolo i fallimenti dei capi. “Siate al mio fianco. La battaglia resta la stessa. Si tratta della Francia, del suo suolo, dei suoi figli”.

E magari qualche coglione aveva anche applaudito a questo discorso.

“Te lo facciamo vedere noi cosa sanno fare la Francia e suoi figli!” giurai fra me e me.

“Bisognerà muoversi al più presto. Direi stanotte. Siamo in grado di farlo stanotte? Mi appoggiate?” chiesi mentre il sole sorgeva e rientravamo al maquis. La solita sala era buia e vuota. Un guscio che conteneva i tutti nostri propositi di rivalsa.

Avevo faticato tanto per convincere quel gruppo di ragazzi ad agire secondo una strategia, coperti dalla collaborazione fra i maquis di Libération, resi più forti dall’appartenenza al M.U.R. (1) Mi ero fatta accettare a furia di testardaggine e sopportazione. Non avevamo perduto più nemmeno un uomo. Ed era arrivata l’ora di dimostrare quello che valevano i figli della Francia e mettere fine alle violenze gratuite.

“Certo. Prima archiviamo questa storia meglio è per tutti” disse Alain.

“Io sono pronta. Ho controllato la piantina di villa Beaumarché e credo…”.

“Un attimo” interruppe André. “Non vorrai andarci tu?”.

“Io… Che vuoi dire…”.

“Oscar, ci deve andare qualcuno che abbia ben chiaro quello che deve fare. Tu distingueresti un cavo telefonico da un cavo di un altro tipo?” chiese, troppo serio per i miei gusti. Sapevo bene che con quegli argomenti mi avrebbe incastrata, perché aveva ragione.

“Vuoi farlo tu?” gli chiesi. Il fazzoletto attorno alla mano era completamente rosso. Intriso di sangue. “Come vuoi fare?”. Gli presi la mano, controllai la fasciatura e mi accorsi che il taglio saliva su per l’avambraccio. Tirai su la manica del maglione scuro e vidi la pelle sporca di rosso, quasi nero, lungo il taglio. Ebbi un giramento di capo. “E dove vuoi andare? Dove?”. Non ricordo il tono. Non so se fossero parole di rabbia o mi mancasse la voce. Forse sentii che mi mancava la voce, perché se ci penso ora mi sento così.

Non ebbe il coraggio di rispondermi. Rimase a guardare la ferita. Non so se la stesse nascondendo o se non si fosse subito reso conto di quanto fosse grave. Mi guardò negli occhi però.

“André… mi dispiace” disse Bernard, sulla soglia, titubante e vestito di nero.

“Tra moglie e marito non mettere il dito…” sentenziò, giusto per sentenziare, Alain; e per tentare di allontanare Bernard.

Una vertigine….

“Stronzo! Guarda cosa gli hai fatto!” urlai. Gli ero già addosso, con le unghie. Aveva schivato per miracolo un pugno, lo avevo sfiorato sul viso.

Quel sangue, la faccia di bronzo di Bernard… l’istinto feroce che sentii… Sentii Alain e André gridare di calmarmi. Era tutto molto confuso, come se le immagini mi girassero attorno. Afferrai un bastone abbandonato nell’angolo della saletta umida delle riunioni. Vidi solo quello. “Ora lo farò a te!” mi sentii urlare.

Bernard che alzava un braccio per pararsi. Alain che gridava “Fermala!”. Un peso attorno alla vita e caddi sbattendo le ginocchia per terra.

Sentii il rumore secco del bastone sul pavimento. Fu come se si interrompesse la scena.

Sentii Alain che diceva “Stupido! Andiamocene”. Si chiuse la porta. Erano usciti.

“Cosa credevi di fare?” disse André alle mie spalle. Mi teneva ancora per la vita. “Non lo so…” dissi, rabbrividendo sul pavimento gelato. Mi voltai a guardarlo. Il suo sangue dappertutto, sui suoi abiti, sulla mia camicia bianca. Sulla mano ferma sul mio fianco.

Mi girava ancora il capo. Era quel sangue. All’improvviso alle domande senza risposta si sovrapposero altri pensieri. Mi voltai di scatto e gli presi il viso fra le mani. “Tu… tu ci vedi André?” balbettai.

Mi guardò serio. Spiazzato. Un sorriso triste.

“Non essere sciocca. Ho un taglio alla mano… Oscar. Certo che ci vedo”.

Chinai il capo confusa.

“Non essere sciocca”disse piano. La mano sulla nuca mi lasciò reclinare la testa sulla sua spalla.

Per un attimo avevo creduto che tutto quel sangue… l’occhio… ma era tutto diverso. Non eravamo sotto gli alberi nel cuore della notte. Non c’erano né spade, né gioielli.

“Devo solo pulire la ferita… vedrai, sembra così grave solo perché è sporca”.

“Non dire sciocchezze… dobbiamo cercare un medico che richiuda il taglio” risposi. Avevo ritrovato parte della mia presenza d’animo.

 

Alla fine fu Dagoût che lo medicò, di nascosto, nel sottoscala. Allora i barbieri, all’occorrenza, sostituivano i medici in fatto di tagli e medicazioni varie. Il medico non era affidabile: era amico del sindaco e frequentatore del circolo della bocciofila. Già al mattino si era sparsa la voce che dei ladri erano penetrati nel circolo, avevano fracassato i vetri e rubato l’orgoglio del Sindaco: la ricetrasmittente, il gioiellino che sicuramente nessun comune della Francia meridionale, ma certamente anche settentrionale, aveva. Così diceva il Sindaco. I vicini non avevano sentito nulla. Unico indizio una traccia di sangue.

C’era un certo disordine in paese. Motti come “Dio, patria e famiglia” in certe situazioni non funzionano più. La gente è nervosa e diventano palesemente ipocriti.  Iniziò a vociferarsi che fossero stati i nazisti della tenuta Beaumarché. Fortunatamente, a noi non pensava nessuno. Con le nostre carte d’identità false e i nostri sotterfugi avevamo lavorato sapientemente nell’ombra.

André rise di gusto a quell’osservazione, ma il viso troppo pallido non si illuminò. Troppo sangue perso. Socchiusi le palpebre mentre lo pensavo. Era la seconda volta che si feriva una mano. Aveva ancora il segno della ferita che si era fatto lungo la strada del ritorno per Parigi, per venire a prendermi.

Dagoût gli ricuciva la ferita. Lo vidi stringere di nuovo i denti.

Ero ferma, in piedi con la schiena alla porta. Dalla finestra, socchiusa perché nessuno guardasse all’interno, entrava solo la luce sufficiente. Lo osservai in quella luce. Sapevo quante cicatrici aveva. Conoscevo bene la sua pelle. La più terribile quella da arma da fuoco al centro del petto. A quella non potevo pensare. Mi resi conto solo allora di quante fossero.

Dopotutto un uomo che cade dal cielo, con l’aereo, non si tira su dall’oggi al domani, come aveva detto Alain. E non può cancellarne i segni. Tutti quei segni… Ebbi la sensazione che raccontassero chiaramente che cercava di resistere a qualcosa di più forte di lui. Aveva una strana forza, una forza di cui a primo impatto non ci si avvedeva, che gli permetteva di sopravvivere al colpo, ed al colpo successivo, come se avesse deciso di doversi prendere dalla vita qualcosa di cui la vita tentava sistematicamente di privarlo.

Dagoût ripose i ferri e nascose la borsa sotto un mobile. André in piedi si infilò la camicia prima che lo potessi aiutare.

Troppo persa nei miei pensieri.

Una volta gli avevo detto che nonostante l’autocontrollo e la calma mi dava l’impressione di sfidare la sorte. Mi aveva risposto che, invece, la sorte era stata generosa a dargli un’altra possibilità…

 

“È per avere un’altra possibilità che andiamo avanti ogni giorno?” mi chiedevo silenziosa sulla via del ritorno. L’aria era tiepida e gli uccelli cinguettavano. La strada era calma e lunga.

Erano le stesse parole che avevo udito nell’ultimo sogno. Una seconda possibilità per chi sbaglia.

“Non credo questo sia sbagliare” mi dissi mentre sincronizzavo i miei passi ai suoi.

“Come ha fatto a ferirti?”. L’avevo rimandata troppo quella domanda.

“Stavamo scendendo al piano inferiore, all’improvviso abbiamo sentito dei rumori al pian terreno, dove ci trovavamo. Non so cosa gli sia preso… credo che abbia i nervi a pezzi… ha pensato che ci avessero scoperti, che fossero addirittura i nazisti. Si è messo a lamentarsi ed è corso via. L’ho seguito per fermarlo e dirgli di non fare casino perché ci avrebbero scoperti… erano solo dei gatti… dei gatti che hanno fatto cadere le scope messe in un angolo nel corridoio. Li ho visti bene e mi sono passati fra le gambe, erano più spaventati di quello stupido di Bernard… e poi un essere che miagola è inequivocabilmente un gatto…”.

Non me l’aspettavo un racconto del genere. Ero poco propensa a scusare Bernard per i suoi problemi, per i suoi nervi a pezzi o per tutto l’alcol che aveva in corpo. Era più questa ipotesi che mi innervosiva.

“Non so come non ci abbia sentito nessuno. L’ho seguito giù per le scale… e mentre varcavo una delle porte del piano inferiore mi ha chiuso la porta di vetro contro…”.

Ero ferma e muta.

“E il vetro si è sfracellato contro la mia mano…”.

“Ti poteva tagliare le vene…” mormorai incredula. Lui non disse nulla.

“Non credevo sarebbe arrivato a questo punto…” aggiunse dopo qualche passo in silenzio.

“Non mi importa se soffre. Non mi importa se l’alcol allevia il suo dolore… Non deve vedere alcolici per nessun motivo… e chi glielo procura se la vedrà con me. Questo deve essere chiaro a quei mocciosi… ” conclusi indignata.

“Non è un modo eroico di ferirsi… vero?” commentò lui buttandola sullo scherzo e contemplando la fasciatura.

“Non voglio che ti ferisci nemmeno in modo eroico…” dissi passando il mio braccio sotto il suo.

 

 

ЖЖЖ

 

 

“Dannazione… sono nervoso… ho finito le sigarette… questa è l’ultima…” aveva mormorato nervosamente Claude, il ragazzo, e aveva lasciato andare una boccata di fumo.

“Avanti. Ti sembra il momento?” gli avevo chiesto. Ero molto tesa, ma non me la sentivo di essere dura. Poi nel buio era sparito attraverso i campi che circondavano la tenuta. Noi non potevamo avvicinarci più tanto e ci fermammo ad aspettarlo.

La luna era alta nel cielo. Era gigantesca. E si muoveva veloce sopra gli alberi. Il tempo di vederlo sparire in fondo al campo, nel punto in cui si intravedevano nell’ombra i primi alberi che circondano il palazzo, ed alzai lo sguardo: era già bassa sulla collina e incredibilmente gialla. Avevo sospirato chinando il capo sotto lo sguardo di Alain. “Speriamo…” avevo detto. Lui invece non aveva detto nulla.

Pensai ad André abbandonato sulla stuoia e pallido. Quando eravamo rientrati al maquis era così debole che non si reggeva in piedi. Troppo sangue perso, troppa tensione e troppa stanchezza. Mi ero sentita colpevole. Sbagliavo ogni cosa che facevo. Lo avevo lasciato lì addormentato. Era raro che dormisse in pace e a lungo. Me ne ero accorta da quando avevo iniziato a dormirgli accanto. Da tempo dormivo male anch’io perché avevo paura dei sogni. Ne avevo anche voglia, ma faticavo ad ammetterlo perché significava accettare un elemento troppo irrazionale.

Avevo spento la candela e chiuso per qualche istante le mie mani sulle sue, strette su un lembo della coperta sul petto. “Ci vediamo dopo” gli avevo sussurrato, ma sapevo che non mi avrebbe sentito, ed ero andato via.

Bernard era inaffidabile ed era tagliato fuori dal piano. Gli portavo un rancore immenso. Non volli neanche vederlo.

Alain per corporatura non passava inosservato nemmeno al buio e non aveva, nel muoversi, la delicatezza necessaria.

Diane non era il caso di coinvolgerla.

Io ero manifestamente incompetente in materia tecnica.

Se non poteva farlo André, il lavoro doveva farlo uno dei ragazzi che avevano seguito le lezioni di sabotaggio. Avevamo deciso questo ed avevo chinato il capo a questa necessità.

“André non la prenderà bene quando scoprirà che ci siamo già mossi…” aveva detto Alain. Lo sapevo, ma non volevo coinvolgerlo in nessun modo.

Non c’era vento e la luna era sempre più bassa. Mi accorsi che stavo sudando. Alain si allargò, con un gesto impaziente, il fazzoletto attorno al collo. Gli altri due ragazzi che erano con noi quasi non respiravano.

Era l’una di notte e i campi sotto il cielo buio erano immutati. Scomparve la luna dietro la collina: da quel momento tutto sarebbe rimasto identico fino alle luci dell’alba. Erano passate tre ore. Cercavo le parole.

“Qualcosa è andato storto…” disse Alain, dando finalmente voce al pensiero di tutti.

Mi portai una ciocca fastidiosa dietro l’orecchio. “Devo andare a vedere” dissi.

Alain mi prese per un braccio. “Dove vuoi andare?” disse. “Che credi di fare? Sarà meglio che torniamo indietro prima che ci cerchino e che ci trovino. Abbiamo già aspettato più di quel che impone la prudenza”.

Mi sentivo responsabile, ma tacqui. Non era giusto.

“Non possiamo lasciarlo lì…” obiettai.

“Comandante… questa è la guerra, non una missione pia. Non lo puoi aiutare da qui… e se trovano noi nessuno tornerà indietro per dire agli altri che le cose sono andate male… e di mettersi al sicuro” disse fulminandomi con lo sguardo.

Non replicai.

“Siamo dei pivelli” disse, gettando il cappello per terra. Era scoraggiato e addolorato a morte. Lo sentivo. “Jacques, prendi tutto e metti in moto” ordinò mettendosi il fucile in spalla.

Mentre salivano sul camioncino guardai il campo coperto dal buio. Oltre gli alberi c’era la tenuta. Non pensai tanto. All’improvviso mi trovai a correre a perdifiato sull’erba. Il buio totale degli alberi sempre più vicino spariva passo dopo passo.

“Oscar… Oscar…” sentii gridare alle mie spalle. “André mi ucciderà!” gli sentii dire e poi la voce si perse nella distanza.

Estrassi la pistola e scivolai cauta fra i rami.

 

1)      Mouvements Unis de Résistance (M.U.R.) costituito da tre gruppi: Combat, Libération, Franc-Tireur. 

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1)      Mouvements Unis de Résistance (M.U.R.) costituito da tre gruppi: Combat, Libération, Franc-Tireur.

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