Rumore d'ali

(De insania)

Parte XI

 

Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

“Si sono piazzati lì all’improvviso. Sono arrivati giorno e hanno preso il possesso dell’intera villa. La villa era la residenza estiva della contessa Beaumarché che è morta due anni fa, lasciandola in eredità a uno dei nipoti che la usa una volta all’anno come appoggio per le battute di caccia. Il guardiano se li è trovati di fronte ed ha tentato di capire cosa volessero. Ha chiesto se monsieur fosse d’accordo… sono completamente fuori di testa,  piuttosto che rispondere gli hanno piantato il piombo in fronte. Lo ha visto uno degli aiutanti del giardiniere, che era oltre la siepe a sarchiare le aiuole… è stata una fortuna, perché altrimenti avrebbero riempito di piombo anche lui. Dice che il tipo che li comandava era un bestione… forse era alterato, ma non ne è sicuro… sbraitava come una iena, tanto che anche i suoi soldati se la facevano sotto… sembrava però che qualcuno gli desse ordini… si avvicinava con una faccia da cane bastonato ad un maggiolino con i vetri scuri. Forse lì c’era qualche superiore. Fatto sta che hanno preso possesso non solo della villa che vedi, ma dell’intera tenuta che si estende per ettari alle spalle dell’edificio… Sembra che ne abbiano fatto un porcile, con rammarico delle persone che lì ci lavoravano e che ora hanno paura di metterci piede”.

“Questa è la dinamica. Bene. Ma perché lo hanno fatto? Non avevano i loro quartier generali? A che pro un casino del genere? Non so come stiano esattamente le cose, ma non credo che Petain li privi degli alloggi”. La storia mi puzzava e mi piaceva sempre meno.

“Anzi, come vedi tutto il sistema collaborazionistico è stato pronto a insabbiare la storia senza fare complimenti” puntualizzò André.

“Alcuni hanno delle mezze idee… o mezze paure, ad essere precisi”.

“Del tipo?”.

“A Watteau c’è un gruppo di persone che si occupa di nascondere gli ebrei. Nel vecchio cimitero sulla strada di St. Michel hanno nascosto una decina di persone… vive intendo. I primi tempi riuscivano a farle fuggire in Inghilterra, ora è un vero casino, sembra che tutto inizi a girare male per nazisti e francesi venduti, c’è chi senza mezzi termini gli fa capire che gli farebbe la pelle, così i controlli sono più serrati e quelle persone sono bloccate lì. Credono che abbiano avuto qualche sentore di quello che faceva la gente di Watteau e si siano piazzati lì per tenere la situazione sotto controllo e scoprire… se c’è qualcosa da scoprire”.

Non trattenni il rammarico: “Ecco cosa si ottiene ad agire ognuno per i fatti propri, senza un minimo di coordinamento…”.

“Uhm… sarebbero lì solo per tenere d’occhio la zona? Hanno degli obiettivi poco ortodossi, è vero,  ma, in genere, nel fare quel che devono sono ligi al dovere… Quest’episodio è strano… al di là della volontà di tenere tutto nascosto, poteva creare un incidente diplomatico anche con gli scagnozzi di Petain… Un gruppo di sodati si presenta di punto in bianco in una villa… ammazza un francese per farne un bivacco… C’è qualcosa che non mi quadra” riflette André. Braccia conserte e sguardo basso, come se seguisse il percorso immaginario dei suoi pensieri.

Sì, era vero. Era strano.

“È vero, André… un motivo può essere quello che sospettano i maquisards di Watteau, ma c’è come una nota stonata…”.

“Già… quattro colpi di pistola! Altro che una nota stonata, comandante!” convenne Alain.

“Dobbiamo fare in modo che non scoprano mai la storia degli ebrei al cimitero. Questo innanzitutto, poi mi interessa scoprire cos’altro c’è sotto. Che diamine fanno dentro quelle mura, possibilmente. Ma l’attuale proprietario non ne sa nulla?”.

“Sembra che sia impossibile rintracciarlo; ma vista la fine che ha fatto il custode, magari si è reso irreperibile”.

“Inutile dire che voglio agganciare contatti coi tipi di Watteau. Se hanno bisogno di noi per proteggere o aiutare i fuggiaschi, noi ci saremo. Intesi?”.

Ci guardammo. Era tutto chiaro. Come in un meccanismo perfetto in cui le parole non sono fondamentali.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Ricordo bene i volti dei fuggiaschi. O forse, più che i volti, le espressioni: gli occhi e la bocca di chi ha perso ogni cosa e ha le mani rassegnate lungo i fianchi perché ha rinunciato alla speranza di ricevere.

C’era una specie di cripta sotto la chiesa del cimitero e loro trascorrevano le giornate respirando là dentro. Aprire la botola e trovarsi di fronte quei volti, in quell’abbandono, fra i rovi sulle pareti, sugli altari devastati della chiesa e il buio umido che da sotto terra balzava contro i nostri occhi, dava l’impressione che si trattasse di uno stano miracolo. Un miracolo buio, riuscito a metà, che salvava vite conferendogli la posizione dei morti.

Parlammo con loro, ma quel che dicemmo non dovette aver gran significato, perché le parole sotto terra, in fuga e nella disperazione non valgono nulla. Me lo avrebbe sussurrato con le mani fra le mie André, sulla strada di ritorno.

Sì, le parole sotto terra, in fuga e nella disperazione non valgono nulla.

Alcune bambine piangevano perché avevamo lasciato entrare la luce che feriva gli occhi, si calmarono solo quando Alain gli offrì dei pezzi di pane raffermo. C’erano solo due feritoie che consentivano un lento ricambio dell’aria. Non avrei creduto potesse esistere un posto del genere e ora vorrei credere di non averlo visto. Ma quel che so per certo dopo quel giorno è che, a volte, l’inferno può salvare o forse che bisogna aspettare a parlare prima di decidere qual è l’inferno.

 

Quel giorno accaddero delle cose strane ed apparentemente senza significato, che mi avrebbero fatto riflettere più in là. Spesso i tasselli ti capitano in mano senza che te ne accorga.

“La shiksa… la shiksa porta guai all’uomo che la segue… solo guai per il figlio di Israele” disse un uomo vecchio e magro con una gamba sola. “Solo guai quando l’uomo le cede…” ripeté, ossessivo, scandendo le parole e guardandomi insistentemente, mentre batteva il bastone sul pavimento.

“Che vuol dire… la shiksa?” chiesi ad André, mentre l’uomo continuava a parlare a ruota libera.

“Non lo so” mi rispose perplesso.

“La shiksa è una donna non ebrea… è una sorta di leggenda… gli uomini ebrei spesso si invaghiscono di donne completamente diverse dalle loro madri, come fece Re Salomone pagandola a caro prezzo” rispose il ragazzo che lo sosteneva.

“La shiksa… perdizione!” disse l’uomo con aria solenne, puntandomi gli occhi addosso. Aveva un occhio bendato e la bocca sdentata. Nell’unico occhio ardeva una luce strana: mi intimoriva, ma non era sinistra.

La cosa mi mise a disagio.

“Ma che vuole da me?” chiesi perplessa e mortificata ad André.

“Chissà che vuol dire… parla per fatti suoi. Forse non si riferisce neanche a te” mi rispose, provando a tranquillizzarmi. Ma ne io né lui ci saremmo tolte dalla mente quelle parole.

Ci allontanammo verso l’uscita. I due soliti ragazzi fumavano nell’ombra la  solita sigaretta di fortuna con aria da uomini vissuti. Non li avrei distinti se non fosse stato per la brace luminosa dell’oggetto del loro desiderio.

“Ehi voi!” feci, avvicinandomi e togliendo dalle mani di uno di loro quell’unica sigaretta. “Avete intenzione di fare in modo che ci becchino?” chiesi polemica, mostrandogli la brace della sigaretta luminosa nel buio quanto bastava da segnalare una presenza.

“Ma… e le torce allora?” chiese, lamentoso, uno dei due.

“Le torce le usiamo quando siamo sicuri, quando percorriamo i nostri sentieri… o, se è necessario, impariamo a camminare al buio. Fare salotto qui a quest’ora vuol dire destare sospetti e farsi sparare addosso. Significa l’altro mondo per voi e per tutti. E’ chiaro?”.

Tacquero delusi, mentre io continuavo a reggere il maltolto.

André, come sempre intervenne, protettivo.

“Dai… potreste imparare a fare come i contrabbandieri sudamericani…” al che le mie orecchie iniziarono a dubitare di quel che sentivano. “Intendevo… per non farsi scoprire fumano con la brace dalla parte della bocca…” aggiunse, fugando la perplessità del mio sguardo. Poi mi venne da ridere e abbandonai l’idea di innervosirmi, ci allontanammo e strizzò un occhio ai ragazzi. Dopo pochi passi udimmo un piccolo urlo, molto prosaico: “Mannaggia alla puttana!” ed uno scalpiccio per il pestaggio della sigaretta.

“Certo ci vuole un po’ di esperienza… non è una cosa che ti viene bene subito” sdrammatizzò André, all’insuccesso degli allievi.

Anche l’impensabile è un tassello.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Ero stanca. Ma alla stanchezza era legata una sensazione di lucidità spaventosa, uno strano benessere che mi lasciava vedere le cose in modo così nitido da sembrare fasullo. Ebbi la sensazione che i colori fossero più limpidi, le immagini più nette, eppure qualcosa, una sorta di dolore stemperato mi premeva sulle tempie. Qualcosa di simile alla quiete divina che accompagna i malati di epilessia all’attacco che li scuote, mi sembrò di rivangare fra i ricordi delle mie letture... forse uno scrittore russo? Un quesito buttato lì per distrarmi.

Ad un tratto lo capii: la pugnalata stava per arrivare. Le immagini stavano per irrompere e questa volta si facevano annunciare. Mi veniva concesso il tempo di alzare la guardia, di proteggermi per quel che potevo. 

Erano calate le ombre e la foresta era già più buia di quanto non lo sarebbe stato qualsiasi altro posto. In quello strano stato di esaltazione e quiete le ombre mi sembravano sfumate di un colore bluastro e profonde. Asciugai il rivolo di sudore che scivolava lungo la guancia.

Volevo André. Ma era di sentinella. E poi avevo paura di spaventarlo. Avrei aspettato da sola i miei fantasmi, dopotutto sapevo già che sarebbero arrivati. Era un vantaggio rispetto alle volte in cui li aspettavo all’improvviso.

Mi stesi sulle travi in una delle camere destinate alle donne. Mi coprii le ginocchia con una coltre di lana grezza e, col capo posato su un sacco semivuoto, attesi. Sperai che tutto arrivasse e passasse in fretta, ma non accadeva nulla. Solo le ombre si facevano più compatte. Forse preda di paure infantili, estrassi dalla mia sacca il candeliere ed accesi la candela sgocciolante che lo sormontava. Luce gialla rischiarò il mio angolo. Non accadde nulla. Accadde solo che scivolai in un sonno profondo, gioendo mentre sentivo di assopirmi, perché speravo che così un dolore mi venisse risparmiato. In un abisso colmo di buio.

 

 

Rumori fuori dalla porta, cadenzati, come passi che percorrevano il selciato tutti con lo stesso ritmo. Ordini gridati e un caldo soffocante; l’afa spegneva i miei respiri.

La testa mi doleva nell’affiorare dal sonno profondo alla coscienza. Mi sollevai per tentare di capire cosa stesse succedendo là fuori, ma non mi sollevai da un letto improvvisato per terra. Levai il capo indolenzito dal piano di legno di una scrivania. Quel gesto, differente da come lo avevo previsto, mi confuse. Rimasi con le mani aperte sul legno e i miei occhi tentarono di riconoscere il posto in cui mi trovavo. Da fuori continuavano ad arrivare i rumori ed il calore di una giornata infuocata.

Immobile su una sedia. Una stanza grigia con mobili severi, penne d’oca, calamai, scartoffie sul legno sotto le mie mani. Fuori, nella canicola, marciavano degli uomini vestiti di blu.

Mi sollevai dalla sedia col cuore in gola, le mani ancora ferme sul legno. Un tessuto rigido e sudato sfregò sulla pelle delle gambe, sul torace: il corpo stretto un abito pesante, serrato fino alla gola. Sentii rivoli di sudore scivolare lungo la schiena, per la paura ed il caldo. Con un dito tentai di allentare il colletto che aderiva alla gola. Non accettavo. Non accettavo…

Mi precipitai verso la porta, la spalancai per trovare una via d’uscita. Era il mio ufficio lo sapevo… era il mio ufficio. Non volevo starci.

La porta si aprì e lo spostamento d’aria mi gelò il sudore sul viso. Quale miseria si vive se è questo a dare un sollievo momentaneo? Due persone mi osservavano perplesse.

“D’Agoût…?!” esclamai, con la voce tremante e stupita, nel vedere il barbiere.

“Agli ordini Comandante. Posso esservi d’aiuto?” mi rispose nel suo abito blu, mentre l’altro vestito nello stesso modo lo imitava mettendosi sull’attenti.

La mia mano rimase, debole, sulla maniglia. Ripresi fiato un attimo, mentre mi osservavano in attesa che dicessi qualcosa.

“No… nulla… non c’è bisogno di nulla. Riposo” dissi, come se per me rispondesse un’altra che conoscevo bene e che sapeva come agire in quelle situazioni.

Nella piazza d’armi il manipolo di uomini continuava ad esercitarsi. Richiusi la porta alle spalle e vi rimasi con la schiena posata contro per non so quanto. La strana sensazione di energia delle ore precedenti era scomparsa. Non mi sentivo bene. Dovevo avere la febbre alta. Gli occhi mi bruciavano, avevo l’impressione di avere la testa avvolta in un panno bollente e quell’uniforme non mi aiutava a respirare. Forse era tutto quel che avevo intorno ad impedirmi di respirare.

 

 

Il calore del giorno era andato scemando ed io avevo fatto tutto quel che c’era da fare, sapendo esattamente cosa c’era da fare, tentando di trarre un respiro più profondo quando mi sentivo morire. Quando il sole, ancora nel cielo, si nascose dietro i tetti che si scorgevano dalla finestra del mio ufficio, uscii.

Attraversai la piazza d’armi, temendo di sbagliare strada. Ma la strada la conoscevo. Accolsi il saluto di alcuni soldati e mi diressi verso quelle che erano presumibilmente le scuderie.

Vicino al portone attraverso cui si arrivava alle camerate dei soldati due figure si volsero a guardarmi. Mi fermai non sapendo se render grazie o maledire, ma mi sentii felice, in tutto quel torpore, quel senso di soffocamento. In quel limbo senza via di fuga. Fu come capire che c’era una possibilità ancora, per continuare a respirare… a vivere.

André e Alain mi rivolsero il loro saluto. Io rimasi ferma lì, nella polvere che aveva bruciato nel sole per tutto il giorno e guardai con insistenza André, senza trovare parole da dirgli. Ed invece avrei voluto corrergli incontro.

Si scambiarono uno sguardo. Alain rientrò. André scese dai gradini adagio, come se temesse di non aver capito bene quello che gli chiedevo con lo sguardo.

“Cosa c’è Oscar?” disse, fermo ad alcuni passi da me. La pelle del viso arrossata dal sole, i lineamenti tirati e una ciocca di capelli che copriva parte dello sguardo. Quella ciocca che insistentemente io gli scostavo dall’occhio, nei momenti in cui nessuno ci vedeva.

Capii che non si sarebbe avvicinato più di così. Come se ci fosse un muro. E questo mi fece perdere l’orientamento e le parole che mi stavano affiorando alle labbra. E che parlavano d’amore.

“Io… nulla, non preoccuparti André” dissi e chinai il capo di fronte alla consapevolezza della distanza.

“Bene” rispose lui laconico, ma si vedeva che non lo pensava. Accennò un sorriso prima di allontanarsi.

Io rimasi lì qualche attimo ancora a tentare di negare tutto quel che succedeva.

 

Finì quel giorno e sarebbe trascorsa la notte che lo seguiva.

Una stanza grande e piena di stucchi, dorature e drappeggi; le fiamme si moltiplicavano riflettendosi negli specchi da cui si diramavano le braccia dei candelieri ed il caldo estivo, nonostante l’oscurità, era intenso. Dalla finestra aperta sul buio del parco il canto dei grilli e il rumore della notte. Le tende oscillavano impercettibilmente in una brezza che si portava dietro odore di foglie languenti in rivoli ormai disseccati. Un odore di fine che mi si aggrappava alle narici, tedioso.

Tutto era così soffuso e pesante. Forse per la febbre pensai, stesa sul letto con gli occhi gonfi e la camicia inzuppata di sudore. Mi passai più volte la mano sulla fronte, sperando che il bruciare della pelle non fosse che un’impressione.

La mia immagine nello specchio… no, non ci volevo pensare…

Un uomo dalla parrucca grigia, formale e perentorio, aveva cenato con me. Io avevo eseguito tutti i gesti necessari alla perfezione. Ero stata ubbidiente e sintetica. Mi si era rivolto usando sempre il maschile ed io non avevo protestato. Avevo parlato di cose che credevo di ignorare, ma che conoscevo benissimo, scendendo fino nel dettaglio. Quando, dopo un commiato convenzionale, in una stanza di una casa gigantesca e che sembrava disabitata nonostante lo stuolo di servitori, mi ero trovata da sola, mi ero guardata nello specchio ed avevo visto un viso troppo magro, troppo pallido. E quel viso aveva perso ogni tratto della sua inflessibilità quando, fra tutte quelle fiamme che si moltiplicavano e tremavano nell’afa, mi ero chiesta: “Cosa ti hanno fatto credere?”.

Era la mia voce. Ed era quella di un’altra. Voleva solo sapere chi era con quella domanda. Ma lo sapeva: sapeva che una rosa è sempre una rosa, nonostante il colore. E le rose candide nel vaso di cristallo, impietosamente, lasciavano cadere i loro petali sulla mensola.

Stesa sul letto trattenni un colpo di tosse e un altro e un altro ancora. Non ce la feci più e mi piegai in due sotto quei colpi, sentendo gli addominali che tiravano fino a bruciare e gocce di sudore che correvano sulla schiena.

Mi guardai le mani sporche di sangue. Sì, sapevo anche questo. Cercai un fazzoletto e me lo premetti sulla bocca, con gli occhi chiusi, aspettando che finisse.

André… André dove sei?

Lo avrei urlato fino a spellarmi la gola, ma non potevo. Tremavo e premevo il fazzoletto sulla bocca.

Cosa mi avevano fatto credere nei panni pesanti in cui mi trovavo, stesa su un letto a sputare sangue? Che quella era una vita perfetta?

Ricordai, rivoltandomi sulle coltri, che c’era stato un momento in cui non avrei potuto distinguere un cielo azzurro dal dolore. Il paradiso dall’inferno. Ora sì, li distinguevo, ma mi chiedevo dove fosse lui. Perché lui non ci fosse. E perché ero lì, sola, fra ceneri bollenti e sognare lo stormire degli alberi.

Era dovuto succedere e la strada del ritorno, la chiave per il mondo con André accanto, lontani dalle menzogne travestite da regole, non l’avevo con me; era quasi un ricordo che sbiadiva sotto i colpi della tosse. Come se un film risucchiasse la realtà.

Quando sentii di poter fare affidamento sulle gambe mi alzai. Tentai di pensare a un modo per nascondere quel fazzoletto o per far sparire le tracce di quello che era successo. A volte si tratta di dover anche mentire a se stessi. Distrattamente lo posai nel catino e vi versai dell’acqua, sperando di riuscire a lavarlo. Il sangue fresco si sciolse e l’acqua diventò rosa. Tutta la vita avevo tentato di nascondere e far finta che non esistessero altre tracce di sangue, che, innocue, rimanevano sulla stoffa della mia biancheria. Mi diedi della stupida a quel pensiero e cercai un altro fazzoletto.

Tutto sarebbe andato avanti così. Dovevo sospettare che sarebbe successo. Tutte quelle immagini in agguato dietro gli occhi erano solo un avvertimento.

Mi concessi le lacrime, dedicando ogni pensiero ad André. Maledicendo la sua lontananza. Rendendo grazie che fosse in quell’incubo con me. Chiedendo come avrei potuto più vivere così, così lontano e così vicino, se la sorte mi aveva concesso, per beffa, di sapere quale sapore avesse la vita accanto a lui. Poi chiesi solo di dormire.  

Un altro giorno e il sole allo zenit, ancora una volta, sulla piazza d’armi.

Gridare ordini, imperturbabile, e dissimulare l’istinto di cercarlo in continuazione con la coda dell’occhio.

Qualcuno potrebbe accorgersene.

Ma chi? Ma come?

Qualcuno potrebbe accorgersene, mi ripetevo e controllavo che l’ordine arrivasse il più secco e diretto possibile. Ancora una manciata d’ore e sarebbe arrivata la fine del giorno.

Sapevo che, per un giorno di licenza, saresti tornato a casa con me; perché nonostante tutti gli errori, quando tornavamo a casa, tornavamo sotto lo stesso tetto.

Vicini e lontani come sempre. Lui in camera sua e io in camera mia a cercare di dare un senso a tutto, senza mai trovarlo. Tutte le giornate sembravano uguali: lunghe all’alba e brevi al tramonto, con uno strascico di rimpianti e velleità per il giorno dopo. Tutte le giornate sembravano uguali: io a meditare di fronte a quel muro, con sempre meno forza e sempre più rabbia; sicura che non fossero gli occhi della stratega del maquis a vedere tutto questo, perché era la stratega in uniforme blu che prendeva lentamente e inesorabilmente il dominio nel chiedersi con che cosa avesse scambiato la vita quando creduto di viverla nel modo più giusto.

 

Hai scambiato una comparsata in una guerra con un ruolo da protagonista in una gabbia? (1)

 

Tenersi occupata era l’unico modo per fuggire a pensieri senza soluzione. Muovevo caoticamente le carte sullo scrittoio, illudendomi di riordinarle. La mente macinava veloce e lasciando sempre meno scampo i miei pensieri per lui, mentre le mani si affannavano a riordinare vecchie carte. L’unico risultato era che cambiavano posto e spuntavano nuovi fogli fra i fogli. Alcuni di dimensioni più piccole, più gialli forse perché più vecchi. Spostai un plico, con una gesto brusco, pensando che la privazione di una persona amata che giace ignara non lontano da te è un’agonia. Toglie il fiato e, se ti osservi le mani, pensi che sono inutili se sono lontane dalle sue.

Una catena per essere legata a lui e un’altra per tenermi lontana da lui. Tutte e due le catene incardinate  al cuore.

Le pagine del plico si allargarono e fuoriuscirono dei foglietti che si sparsero pigri sul pavimento. Li raccolsi e li osservai automaticamente, alla luce delle candele.

Era la mia scrittura. Mai avrei voluto che fosse la mia.

 

Fersen siete il solo solo uomo che io potrei amare invita mia. L’unico. Vi prego, tornate, tornate Fersen, senza voi le giornate non hanno alcun senso. Tornate. Anche solo perché io possa rivedervi. Non chiedo altro. Forse non merito altro….

 

Annientata, con quei fogli fra le dita, mi chiesi mille volte, con un senso di vergogna, se fosse possibile che la mia mano avesse scritto quelle frasi. Ricordai un uomo dai capelli chiari che conversava indolente e mellifluo. Non ne sentivo la voce. Quell’uomo mi aveva fatto danzare per lasciarmi fuggire in lacrime da un salone rococò. Quell’uomo mi aveva baciata, disgustandomi, in un locale notturno parigino fra la musica jazz e il fumo. Era lo stesso uomo. Le due Oscar che mi portavo dentro si sovrapponevano di nuovo. Ero io quella che posava per il quadro del dio della guerra. Ero io la proprietaria del quadro che copriva, impietoso e tracotante, l’intera parete di un piccolo appartamento parigino. Avevo creduto di amare, sbagliando, chiudendo gli occhi, lo stesso uomo in epoche diverse. E quell’uomo non era André: questo mi parve impossibile. Osservai atterrita quei fogli, rifiutando di leggere altro, li feci in mille pezzi e li lasciai cadere nel camino spento.

Erano false quelle parole. Erano una bugia immensa. L’illusione di una folle. Non era quello l’amore. Dovevo dimenticare che mai fossero esistite.

Il passato è un rimorso. O un rimpianto. Quando il presente non è che quello che dovrebbe essere. André.

 

 

Che cosa stai facendo André?

 

Una fiamma tremò scossa da un sospiro, poi tornò ad ardere in verticale. Le mani sul volto e il capo rovesciato all’indietro. Poi i gomiti sul piano del tavolo.

La fiamma oscillò ancora sul candeliere degli amanti e lui ripeté lo stesso gesto, portandosi ancora una volta una mano sul viso, rimanendo fermo, a pensare. Come se trattenesse i pensieri, come se potessero fuggire via sotto forma di corvi gracchianti. Una mano accarezzò una pagina, incerta. Allontanò il candeliere con un sospiro grave di dolore.

Ebbi paura al compiersi di quella sequenza di movimenti e volli distruggere tutto con il suono della mia voce, svelando la mia presenza.

“André… Che fai? Non dormi?” sussurrai nel vano della porta aperta.

Fu come se fosse costretto a risvegliarsi da un brutto sogno; allontanò le mani dal viso e con un gesto veloce e deciso richiuse il libro e lo pose in un angolo della scrivania. Aveva come segnalibro un nastrino azzurro che rimase illuminato nell’aura della candela.

“Oscar… No. Non ho ancora sonno. E tu?”.

“Anch’io. Fa troppo caldo” dissi timidamente. La mia voce non aveva più la decisione con cui poco prima aveva attraversato il silenzio.

Sorrise.

“Se vuoi puoi entrare. Se vuoi… invece di rimanere sulla porta, intendo”. Neanche lui era tanto sicuro nel parlare.

Avanzai, come se non entrassi in quella camera da molto tempo, ma la conoscessi bene; non come se non vi fossi mai stata.

Nella sagoma del candeliere si delinearono più nitide le due figure: l’uomo e la donna che si tenevano per mano, schiena contro schiena. Il libro era lì al margine della scrivania.

“Tu faresti meglio a dormire però: domani hai una guardia di notte e se leggi il sonno va via definitivamente…” dissi quelle banalità accennando al libro.

“No… non preoccuparti. Non leggevo. E poi sono abituato a rimanere insonne…” rispose alzandosi in piedi. Voleva essere una scusa, ma assunse il suono di qualcosa di triste; un senso di sradicamento. Io sentii che era un’accusa nei miei confronti, anche se sapevo che non l’aveva pronunciata con quell’intento. Chinai il capo.

“Sei sicuro che vada tutto bene?”. Lo rividi mentalmente mentre lasciava oscillare la fiamma davanti agli occhi ed ebbi un altro brivido di paura.

Rimase disorientato dalla domanda; stupito che gliel’avessi posta. Ma la prontezza di spirito tornò in guardia in un attimo.

“Tutto bene. Non preoccuparti per me. Sei molto pallida dovresti riposare… non vorrei dover essere costretto a portarti in caserma in braccio. Sono passati i bei tempi in ancora cui ci riuscivo” rispose buttando sullo scherzo un discorso troppo formale per essere fra me e lui; un discorso fra due persone intente a mentirsi nel modo migliore.

Sorrisi. Mi sembrò di riavere il mio André. Lo guardai. Eravamo più vicini di quanto non lo fossimo stati in quei giorni. Sommersa da un’ondata di tenerezza, confusi il tempo e i gesti da fare. La mia mano si posò delicatamente sulla pelle del petto che la camicia lasciava intravedere. Fu un attimo… la cicatrice non c’era… pensiero fulmineo al contatto con quel calore, e la voglia di stringerlo.

Ma si ritrasse come scottato, come se potesse mancargli il respiro o morire in quel momento. Strinse nella mano la spalliera della sedia alle sue spalle.

Furono istanti. Capii che quel gesto per lui era nato all’improvviso, immotivato, dove c’era stato solo dolore ed io non ero in grado, legata alle mie due catene, di lasciargli comprendere il significato che aveva. I gesti che avevo imparato con lui nei tempi della seconda possibilità, qui non erano consentiti.

Mortificata, mi ritrassi e distolsi lo sguardo.

“Scusami, è meglio che vada” mormorai a mezza voce, dirigendomi col il viso in fiamme verso la porta.

“No, Oscar… scusami tu…” lo sentii dire, addolorato, ma uscii dalla stanza ed andai via senza voltarmi.

 

Mi faceva male tutto, ogni volta che tossivo. Quando il dolore finiva rimanevo spossata dallo sforzo e mi girava la testa. Avevo di nuovo la febbre alta e sentivo il sangue pulsare nelle tempie, come se avessi il mio povero cuore sotto le dita con cui sfioravo disperatamente la fronte. Quando almeno mi fui calmata ed ebbi il ritmo del respiro regolare, decisi di lasciare l’ufficio e uscii stringendo con forza nel pugno il fazzoletto intriso di sangue. All’impatto col buio del corridoio, gli occhi non videro, mi girò il capo e mi appoggiai al muro. Sentii la stoffa pesante dell’uniforme sfregare sulla pelle del corpo e stringere intorno alla gola come se il colletto fosse una mano crudele. Ma anche quella sensazione di prigionia del corpo stava diventando familiare.

“Non ti senti bene?” chiese la sua voce. Lo sentii vicino a me e non osava toccarmi.

“Non è nulla… Sono passata della luce al buio, per un attimo non ho visto più nulla.” risposi, cercando un tono calmo.

“Sì. So come succede…” mi rispose, facendomi rabbrividire. “Vai via?”.

“Sì. Torno a casa. Ci vediamo domani.. domani mattina presto sarò qui…”.

“Va bene” rispose senza muoversi. Riuscivo a vederlo bene ora, nella penombra. Percorsi i lineamenti del viso con uno sguardo veloce: la pelle era scurita dal sole e sudata, la ciocca ancora nascondeva quel segno maledetto sull’occhio sinistro. Era lui. Così triste.

“Sei arrabbiato con me?…” chiesi, non so neanche io come, con un fil di voce.

“Perché?” mi chiese con lo stesso tono, facendosi più vicino. Il viso a pochi centimetri dal mio e sentivo il respiro sulla pelle. Avevo la schiena al muro. Ci guardammo ed ebbi l’impressione che il suo sguardo stesse tentando di rubare ogni tratto del mio volto per portarlo via, per dirmi tutte quelle cose che rimanevano sospese nel silenzio. Sentivo lo sguardo insistente sulle labbra, come se fosse materiale. Rimanemmo così. Fermi. Immaginai il bacio.

Contorsi il fazzoletto nella mano.

“Tu credi… che ci possano essere seconde possibilità per chi sbaglia?” mi chiese, all’improvviso.

Sentii tutto il sangue, il sangue che mi era rimasto, che mi inondava il cuore.

“Io spero… spero…” gli dissi, con la voce sempre più leggera, temendo di cedere, sorretta solo dal muro.

Passi si avvicinavano. Allontanò il viso dal mio, io mi riscossi. In fondo al corridoio apparve un gruppo di soldati.

“Vado” gli dissi e mi regalò un sorriso pieno di tenerezza.

Mi allontanai stringendo un fazzoletto, il buio del corridoio era sempre più fondo, una muraglia solida, ma io camminavo lo stesso.

Devo correre dal medico. Devo vivere. Io devo vivere.

Corsi senza vedere nel buio e quando fu buio ovunque ebbi paura di essermi perduta.

“Oscar…”

Udii il suono della voce di André e mi aggrappai come ci si aggrappa alla vita, finché non diventò nitida e vera.

“Ti vuoi svegliare?”

 

 

ЖЖЖ

 

Fu come tornare a respirare ossigeno. Sentii il fresco del bosco sul viso e le travi di legno scabro sotto le ossa, al tatto, sotto le mani, la stoffa grezza che fungeva da coperta.

“E’ molto tardi… forza, piccola, svegliati…”.

Quando aprii gli occhi ero nella stanza del rifugio. André mi teneva il viso fra le mani. Dietro di lui Diane con una strana espressione e le mani sulla bocca.

“Hmmm” mugugnai. Loro due si guardarono rassicurati.

“Che mal di testa!” esclamai portandomi una mano al capo e richiudendo gli occhi.

“Oscar dormivi così di sasso che Diane si è preoccupata, non reagivi a nulla… mi stavo preoccupando anch’io, sembrava che non volessi svegliarti”.

Gli afferrai una mano e continuai a guardarmi intorno, stupita, ma felice. Anche se la felicità rimaneva invischiata nel dolore sordo che avevo provato per tutto quel sogno, che avevo creduto fosse durato settimane, e a una sensazione di stordimento. André intuì che dovevo dirgli qualcosa, dal mio aggrapparsi alle sue dita e cercare negli occhi.

“Diane… ora veniamo giù. Di’ ad Alain che è tutto a posto, per favore”.

 

“Allora… cos’è stato?” mi chiese piano.

Temporeggiai richiudendo gli occhi.

“Non vorrai dormire ancora?” scherzò.

“No. Non ne ho il tempo né la voglia…”. Sentii la mano sul viso e il pollice che mi sfiorava la bocca. Schiusi le labbra assecondando il gioco e le carezze.

“Ho fatto un sogno… forse era un incubo. Tu non vuoi mai parlare di queste cose, io però devo parlarne con te…”.

“Scusami… non è che non voglio… credevo di proteggerti così…”.

“Ora però… devo farti solo una domanda”.

“Ascolto”.

“Credi… che ci possano essere seconde possibilità per chi sbaglia?”. Lo chiesi posando la mia mano sulla sua e premendomela contro il viso.

Sorrise un attimo. Istintivamente guardammo tutti e due il candeliere, in cui il moccolo si era completamente consumato lasciando colare cera sulle due immagini di metallo.

“Ecco… io lo spero. Lo spero”.

Il tempo era brutto: nuvole scure oltre gli alberi e poca luce nel cielo. La stanza spoglia e polverosa. Qualche raggio debole correva sulle travi secche.

“Non ci sono parole per dire…” spezzò la frase a metà, come se i suoni soffocassero, ma non importava. “Vuoi alzarti?” aggiunse.

“Vorrei, sì… per favore aiutami” chiesi chiudendo la sua mano fra le mie.

“Cos’è successo? Ti ascolto. Se fuggo non credere che fosse perché non volevo ascoltarti”. E la sua voce mi sembrò arrivare con uno sforzo da lontano. “Credevo che il silenzio fosse una medicina migliore. Che se non ne avessimo parlato questo non sarebbe successo. Tu quelle immagini non le avresti viste mai. Non sono cose che fanno bene. Lo so come si sta”.

Mi chiesi se sapesse tutto. L’immagine del fazzoletto intriso di sangue….

E se io sapessi tutto. La fiamma che oscillava muta e vacua nel buio….

“Era come se… tutto… dovesse precipitare. Come se le cose dovessero precipitare” furono le uniche cose che ebbi il coraggio di dire.

“E le persone fingessero di non accorgersene”. Fu come se si completasse tutto quel che avevo da dire.

“Faremo come abbiamo deciso, vero André?”.

“Faremo quello che abbiamo sempre fatto” e mi scostò i capelli  dal volto.

 

(1) Frase tratta da “Whish you where here” dei Pink Floyd cui sono ispirati molti dei pensieri di Oscar.

Continua...

Mail to sydreana@supereva.it

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage