Comfortably Numb

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Premessa:

Cara Lettrice o - se sei un maschietto ed hai avuto il buon gusto di arrivare qui, complimenti! – caro Lettore,

sento la necessità di confidarti che i file di questo racconto risalgono al 2007, epoca in cui nulla di simile era riportato dagli articoli di cronaca ed io, pigra e negligente verso me stessa, ammonticchiavo parole, dimenticandomene, in una pagina di Word.

 

Chiudo gli occhi e ritornano sotto le palpebre le immagini di ieri: un controluce, i sassi dell’Atlantico che nella fuga dall’acqua si sgranavano sotto i piedi, i muscoli di gambe e braccia tesi controcorrente. Controvento. Controrespiro. Contro qualsiasi cosa. I miei capelli negli occhi, i suoi davanti ai miei. Un profilo. Mille occhi sul molo. L’oceano formicolava d’uomini e la nave scricchiolava arenata nella bassa marea.

 

Ci penso oggi con calma. Ne scrivo. Perché forse è vero che nulla è veramente accaduto finché non se ne scrive.

Quale migliore invito di un taccuino incustodito? Forse era di una delle sue sorelle. Ho provveduto a eliminare gli esercizi di calligrafia nelle prime pagine ed ora ho tutto il bianco delle restanti per me.

Mi è sembrato di avere, quando non me l’aspettavo più e quando più ne avevo bisogno, finalmente uno spazio in cui correre. Forse da solo, forse con la compagnia migliore che la mia immaginazione avrebbe saputo inventare.

Col tempo rimarrebbe solo la forma dell’emozione, il colore svanirebbe e sarebbe, ad ogni ricordo, come rigirarsi fra le dita una conchiglia vuota dalle magnifiche striature attenuate da mille giorni di sole.

 

 

Questa casa è vuota per numerosi e lunghi mesi all’anno oramai, da quando siamo cresciuti. Fino a non moltissimi anni fa noi ragazzi affollavamo queste vecchie stanze durante l’estate. Poi le sorelle più grandi, una ad una, sono diventate donne e si sono sposate. Oscar crede d’essere diventa uomo, beata illusa, ed è così che io e lei siamo rimasti gli unici a considerare che in Normandia esiste ancora questa casa.

Non ricordo negli anni trascorsi un profumo di salsedine intenso come quello che irrompe ora dalla mia finestra. Fa ogni giorno meno caldo e questo vento fresco mi investe in pieno mentre scrivo, mi flette il foglio contro, sotto la penna. Ma io resto fermo. Continua a spingermi i capelli negli occhi e mi culla con una strana sonnolenza. Continuo anch’io, ma quando il sole sarà una lama piatta a ridosso dell’orizzonte so che cederò e, forse, dormirò come una naufrago su questi fogli. Un naufrago privilegiato, se penso a ieri. Ch’io possa essere perdonato...

 

Mi sono fermato per un attimo nella mia corsa ed ho alzato lo sguardo sull’oceano.

Quando non abbiamo risposte cerchiamole in qualcosa di immenso e azzurro come un dio.

Aspettiamo che onda per onda ci suggerisca una soluzione. Anche se la soluzione non arriva. Che onda per onda ci lasci scivolare verso il pensiero più giusto da fare, quello che mai ci trarrà in inganno.

Da qui non si vede ieri, ma se chiudo gli occhi torna a galla per lasciarsi incatenare alle parole che consegno al bianco del foglio.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Scrive come un forsennato. Sarà stato ieri?

Il vento lo investe, lui non se ne importa. L’anta della finestra si apre ancora di più. I fogli volano via ed è come se non li vedesse.

Ogni mio pensiero di oggi è per ieri, così suppongo sia per lui.

La nave è ancora accasciata sulla battigia. E’ un immenso animale ferito, una borsa abbandonata, un guscio vuoto. È la traccia di una storia triste, ma i bambini del paese già la usano come una porta per un mondo di meraviglie.

Dalla mia finestra li vedo giocare col nuovo giocattolo di tutti e di nessuno.

Scriverà di questo?

Non lo interromperò, andrò in cerca di un pensiero diverso, per ora.

Sono stanca e non ho carta.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Il sette novembre del 1779, ieri, una sagoma nera trascinata dalla furia dell’acqua si è accasciata come un animale ferito sulla spiaggia.

Il paese è andato in subbuglio mentre l’ombra le si avvicinava sempre più veloce con un fianco aperto come un’enorme ferita. Poi sarebbe rimasta lì sulla sabbia come se in passato non si fosse mai mossa.

Alcuni passeggeri erano riusciti a salire sulle barche di salvataggio, altri no: solo corpi e bocche urlanti fra i flutti violenti e malevoli che li trascinavano via come anime dell’inferno.

Noi sfidammo l’inferno, senza sapere se ne saremmo usciti, senza sapere se mossi dall’incoscienza o dal senso di dovere, da buoni militari, o dall’altruismo o, ancora, da una ignota e inspiegabile molla che scatta a tradimento in questi due cuori.

 

 

ΩΩΩΩΩ

 

“La ragazza l’ho vista stamattina. Se ne sta zitta. Mi è sembrato impossibile”.

“Perché dici così?”.

“E’ un resoconto...”.

“Sì ma è crudele”.

“Perché?”

Rimasero a guardarsi l’un l’altra senza parlare. Lei guardò  l’oceano come per trovare la frase giusta fra miliardi di gocce.

“Non è da te definire crudele un’affermazione così blanda” le disse lui, le braccia incrociate, voltandosi nella stessa direzione. Le parole diventavano piccole nuvole e il cielo era bianco, appena segnato da un tramonto anonimo.

“L’altro giorno urlava perché stava male. Non è bello che tu dica che ti sembrava impossibile che stesse zitta”. Pensò, mentre lo diceva, a quanto era priva di eleganza quella frase netta ed esplicita.

“Non so come la vedi... volevo solo dire che non credo che abbia esaurito tutto quel dolore. E che il suo tacere...”.

“Va bene. Ho capito. Basta” gli impose con un segno della mano per troncare il discorso.

 

In che terreno arduo ci stiamo impelagando?

 

André tacque e continuò a tenere lo sguardo sul mostro. Gli sembrava proprio un mostro: tentacolare e azzurro, splendente e traditore. Bello da morire l’oceano. Bello da morire continuò a pensare.

“Lui lo hanno trovato?” chiese lei all’improvviso.

“No... non lo hanno trovato da quel che ho sentito giù in paese”.

Lei scosse il capo. A lui sembrò stesse per piangere, ma finse di non notarlo.

“Quanto urlava... è vero” disse stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo sulla punta dei piedi. “Ho creduto che non ce l’avrei fatta a portarla a riva. Temevo mi trascinasse a fondo e l’ho anche odiata. Ho rimpianto il momento in cui mi sono gettata in acqua”.

“Non colpevolizzarti per questo...”. Non era facile trovare parole giuste. André si sentì incapace di continuare.

“Cosa si prova quando si perde una persona cara... si diventa come lei?”.

 

In che terreno ci stiamo impelagando?

 

“Senti basta... ti prego!” la interruppe lui ad un tratto. Le mise un braccio sulla spalla e iniziò a trascinarla lontano dalla scogliera. La sagoma del palazzo si faceva più vicina a ogni passo. Poi si ricordò di togliere il braccio e gli sembrò normale che lei non se ne accorgesse.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Il tempo è cambiato in fretta. Già non si può respirare senza la sciarpa sul viso. L’aria intorpidisce le narici e si sbriciola in ghiaccio sulla stoffa.

Così, all’improvviso. Come se l’incidente della nave avesse creato un solco nel tempo oltre la riva.

La stupida è in vena di colpi di testa. Mi dispiace dirlo. Ma non posso non scriverlo.

Mi prudevano le mani a vederla davanti al camino e lei lo sa. Se ne stava lì ad aspettare che le ciocche dei capelli indurite dal ghiaccio si sciogliessero al calore del fuoco.

“Non guardarmi di traverso” mi ha detto col tono più gentile che ha potuto. Come fa quando sa di avere torto marcio.

“No... no... io ti guardo negli occhi Oscar” le ho detto sedendomi di fronte a lei.

Un lampo ha illuminato il riquadro della finestra e con calma, tremendo, è arrivato il tuono.

“Cavolo...” ha esclamato eludendomi. “Che schifo di tempo” è ho visto che il brivido salito su per la schiena le ha sfiorato il labbro.

“Veramente un cazzo di tempo no?” ho commentato sfiorandole una ciocca mezzo sbrinata che ha lasciato andare una goccia. E la goccia le si è adagiata sui pantaloni. Mi ha guardato male come per dirmi “Ma che confidenze ti prendi?”

“André...” ha detto. Non le piace essere ripresa né colta in fallo. Ed io sono troppo poco diplomatico stasera.

“Non voglio discutere. Ma non è stata una bella idea farsi il bagno con questo tempo. Non mi va di dirtelo con mezzi termini...”.

Ma non mi dà soddisfazione, mi guarda impassibile. Come se mi guardasse attraverso.

“Lo so” assicura passandosi una mano fra i capelli che cedono e quasi tornano morbidi.

“Ma perché le fai... certe stupidaggini...? Vuoi prenderti un accidente?”. Mi sono sentito mia nonna: le sue parole dalla mia bocca. “Non è normale fare il bagno a novembre!”.

“Non ho calcolato il freddo... non ho calcolato il rischio...”  e si passa una mano sul viso. Nervosa?

Un ramo si spezza nel camino. Il fuoco scintilla. Fuori la bufera. La mano sul viso in quel modo affannato non la posso guardare.

“Non voglio che ti senta in colpa” le dico. “L’hai salvata. Abbiamo fatto quel che potevamo”.

“Ci provo... per te è facile”.

 

No che non lo è. Ma non mi va di insistere. Mi fa ancora rabbia rivederti uscire dall’acqua coi vestiti che non si distinguono dalla pelle nel gelo. Dall’oceano grigio, contro il cielo vuoto di una giornata di merda!

Mi fa rabbia ma una scintilla si accende e vorrei rivederti così ancora.

 

Fuori il vento è sempre più indiavolato. Mentre affondavo i piedi nudi nell’acqua ho avuto come una scossa ed ho maledetto il freddo spietato e la mia stupidità. Ho pensato che se solo fosse accaduto oggi sarebbe stato ancora più terribile, perché sarebbe stato più difficile gettarsi in acqua. Più difficile tutto. Più tremendo per chi, all’improvviso, s’è trovato a doversi dibattere ed a lottare con la forza smisurata dell’oceano.

Ci penso ora che sono nel mio letto, avvolta come un fagotto nelle coperte e le estremità del mio corpo bruciano nel passare dal ghiaccio al caldo.

Aspetto di riscaldarmi e poi andrò a vedere cosa sta facendo.

Ma il passaggio è lento, il calore improvviso mi stordisce ed è un piacere troppo grande. Impossibile rinunciarvi. Impossibile non cedere al sonno. Rifiutare il rifugio.

È come tornare alla vita in qualcosa di così simile a una breve morte.

 

ΩΩΩΩΩ

 

 

È passato un altro giorno e siamo ancora qui. E, chissà perché, a chiederci cosa ne sarà di noi.

Egoisti.

Ho posato la penna sul diario e l’inchiostro ha sbavato senza pietà. L’ho fatto per fretta e necessità, mentre guardavo la nave nera come una vedova; mi sono portate le mani agli occhi e mi sono chiesto e l’ho chiesto ad alta voce a lei, senza sapere perché, “Cosa ne sarà di noi?”.

Nel buio delle mie mani c’erano delle stelle colorate che, senza ch’io me ne rendessi conto, forse si sono aggrappate alle mie ciglia. E, mentre aspettavo la risposta che tardava, mi sono ricordato che devo essere io quello che porta sempre coraggio. Che stavo sbagliando tutto e che su queste pagine ho scritto che lei è stupida.

Ma la risposta è arrivata.

“A noi interessa oggi. Come ogni giorno André. Quando andiamo in paese?” mi ha detto mentre mi teneva una mano sulla mia spalla.

 

Sei tornata dai ghiacci?                          

 

ΩΩΩΩΩ

 

Che sarà? Che sarà mai?

Devo andare in paese e sapere. Capire che fine hanno fatto tutte le storie che erano nell’acqua. Sentire come le loro urla siano finalmente tornate voci. Com’è sopravvivere.

Che sarà mai?

È un sortilegio. È come un sortilegio. Guardiamo la sagoma cupa e pensiamo senza fine.

Questa storia è entrata nelle nostre storie come un sortilegio.

Per i bambini che gli giocano attorno il ventre della nave è un mistero che è meraviglia. Per me e André, che bambini non siamo più, è il mistero di una risposta impossibile da interpretare. Lì a portata di mano e insondabile.

Che sarà mai? Lo dico con aria di sufficienza per farmi forza. Perché devo affrontare la realtà.

 

“È come quando andò a fuoco il covone” esordì André.

“Quando?” gli chiese. E in un attimo ebbe l’impressione di rivedere delle immagini. O solo di immaginarle.

“Sì... non ricordo. Ricordo le immagini. Ma non il momento. Ad Arras... o qui. Era mattina presto e non c’era neanche il sole. Forse le cinque...” disse dubbioso.

“Qui non poteva essere... i covoni dove li mettevano, in spiaggia o in scogliera?”

“Eppure mi ricordo di te...”.

“Sarebbe difficile il contrario visto che abbiamo passato ogni giorno della nostra vita insieme”. Si stupì di averglielo detto, eppure era esattamente così. Le sembrò che lui ne fosse felice ma che non volesse soffermarsi.

“Volevo dire che ricordo qualcosa... il covone che bruciava... forse non è proprio possibile che fosse sulla spiaggia in effetti...” constatò alzando le sopracciglia. Oscar abbozzò un sorriso.

“Il fuoco in lontananza si rifletteva nell’acqua dell’oceano e c’era del fumo... tutto era sullo sfondo e tu eri di fronte a me nella luce delle lampade dei pescatori, nel retro... nel cortile... quello che ora cade a pezzi...”

“André il covone credo sia andato a fuoco ad Arras quando eravamo molto piccoli...”.

“Ma tu ricordi?”.

“No... veramente no... ma il fuoco sull’acqua nel buio lo ricordo. Il fumo... Non riesco a capire cosa fosse...”.

“Allora se lo ricordi anche tu è successo”.

“Sì. Ma cos’era?”.

“Qualcosa che abbiamo dimenticato in due” concluse lui aprendo le mani in segno di resa.

“Sempre nello stesso posto?” chiese lei alludendo alla nave.

“Non te lo saprei assicurare. Mi ricordo di te, del fuoco e che tirava una brezza che muoveva le lampade e sperdeva il fumo. Tu guardavi l’incendio e poi me... Non è molto”.

“E perché ci pensi ora?”.

“È questo posto che mi fa pensare. È quello che è successo”.

“Allora andiamo a vedere com’è la situazione. Andiamoci domani... ora è già troppo buio”.

L’oceano schiumava attorno alla sagoma nera e la luna si sostituiva agli ultimi raggi di sole.

Lei attese con le mani in tasca. Un lembo della tenda era rimasto chiuso fuori dalla finestra e si dimenava nel vento crescente. Poi rimase fermo come attratto da una forza costante. André aprì la finestra e la raffica di vento scaraventò in volo i fogli per la stanza. La tenda si allargò, si srotolò come una vela in alto oceano.

Oscar rise fermandosi con una mano i capelli. Guardò i fogli che saettavano mentre André imprecava.

Fulmini bianchi nella mia casa pensò.

 

ΩΩΩΩΩ

 

 

Era la notte. Era l’alba. Era al confine indefinito fra le due.

Non ricordo quel che venne prima né quel che venne dopo. È un punto isolato in un flusso di memoria: qualcosa che è stato e basta. Ricordo solo che tu eri di fronte a me. Alle tue spalle accadeva qualcosa di immenso. Eravamo piccoli, credo; ma forse non abbastanza o credevamo di non esserlo.

Ardeva qualcosa sulla riva, splendente e violenta alle tue spalle.

Mi chiedevi, attratta e spaventata, cosa accadesse ed io guardavo le tue labbra muoversi senza udire. Capivo senza riuscire a immaginare la risposta.

Forse non è il tempo questo per esser sentimentali, ma, nella catastrofe, quella scena era splendida. Tu e qualcosa di infinito e irrimediabile sullo sfondo.

Il discorso di un pazzo... me ne rendo conto.

Il fumo denso, distorto, plasmato e sfatto dal vento scorreva alle tue spalle. Si adagiava sull’oceano.

Tu muovevi le labbra e le lampade oscillavano. Le immagini passavano dall’ombra alla luce.

Solo vento e crepitio avevano voce in quell’altalena.

Forse eri un po’ ubriaca, perché, stufa di non avere la tua risposta o eccitata dal miraggio dell’avventura, corresti via.

E io forse, povero diavolo, rimasi lì fermo per un po’ a vederti fuggire, reggendo ancora in mano la bottiglia. Temendo e senza capire.

Poi sabbia sabbia sabbia e sabbia. Dura da percorrere a divorarmi le ginocchia. Mi bruciavano i muscoli e tu sempre più lontana. Sempre più verso quella luce, calda e immensa. E ridevi. Correvi ed ridevi. Ed io, sui tuoi passi, temevo quella bellezza.

Ecco cos’era... sorrido al pensiero. Tutto sta tornando a galla. Non riesco a raccontare i fatti recenti, ma rendo grazie che mi restituiscano il passato.

 

Ma è già tardi e sei, ora, sulla porta e le tue labbra si muovono ed, ora,  posso udirti.

“Allora andiamo André? Mi accompagni?”.

Domanda retorica.

Lascio con piacere la penna nel calamaio.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Decisamente cielo nero. Tempo tremendo. Le nubi si accalcano ad ovest, allargano le ali come un rapace in volo.

Decisamente pioverà, infurierà un’altra bufera. I rami secchi si muovono a scatti, spettrali, al soffio del vento.

 

Guardò Oscar che procedeva imbronciata al suo fianco. Fissava la strada apparentemente calma a testa bassa. In silenzio.

Alzò lo sguardo per osservare l’arrivo del temporale che inghiottiva il giorno. Tornò con lo sguardo a lei.

“Si sta preparando una bufera ancora peggiore” si disse, notando come stringeva le dita attorno alle redini.

“Oscar...” s’azzardò a dire. Ma lo sguardo che gli si posò addosso lo dissuase dal continuare.

Si morse un labbro, consapevole che ogni tasto toccato sarebbe stato un tasto dolente.

“Se non vuoi parlarne ora ne parleremo dopo” disse prudente.

“Vada per dopo...” commentò lei, laconica, assecondando il movimento del cavallo.

E sia.

Speriamo che non te la prenda con me, pensò.

Che la tua personale bufera non mi atterri e lasci freddo sul selciato dopo gli eventi giù in paese.

Sono vulnerabile. Lo sospetti?

 

Arriverò alla fine di questo sentiero. Arriverò alla fine di ogni cosa. Ma oggi non avrò pace.

Non voglio dare spettacolo. André se lo aspetta e per questo non ne darò.

Non posso essere ai suoi occhi sempre così prevedibile. Per questo compio la mia strada in silenzio e il dolore e la rabbia li terrò per me e la mia incapacità.

Periodicamente crollo. Sempre di fronte alle difficoltà altrui. Quel che riguarda me, riguarda me e basta. So controllarlo: l’ho ammansito durante una vita di esercizi.

Ma quel che è ingiusto no. Non posso ingoiarlo.

 

 

ΩΩΩΩΩ

 

“La divina Oscar tutto può e nulla può” disse André allargando le braccia.

“Smettila... piantala di fare lo scemo!”.

Gli lanciò contro un cuscino senza centrarlo e si accovacciò offesa sul divano. “Il tuo atteggiamento mi sta veramente innervosendo stasera!” gli rispose caustica. Colse con la coda dell’occhio uno dei servitori, perplesso, che si defilava.

“Sto dando spettacolo...” pensò portandosi una mano alla fronte.

“Se ti innervosisci, se per un po’ mi odi, tiri fuori quello che ti stai facendo macerare dentro”.

Le si sedette di fronte, mentre lo guardava con gambe e braccia incrociate, completamente sulla difensiva.

“Quando avrai fatto, starai meglio e io sarò tranquillo”.

Lo guardò sorpresa come per dire “Tu sei matto...”.

“Anzi: se tu starai meglio io sarò felice. Completamente felice” aggiunse notando il sorriso che stava per sfuggirle.

Chissà perché era sempre imbarazzata quando lui parlava del suo affetto per lei.

“Finiscila” disse, dandogli un buffetto, sulla gamba, mentre osservava il solito servitore che si muoveva perplesso.

“Cosa ti ha fatto arrabbiare...” chiese cercando di afferrarle la mano.

“E me lo chiedi?” rispose perplessa tirandola indietro. “Hai visto come li tengono? Sono lì... ammassati come bestie.

 

“Salta salta!... vola vola! Arriva la morte col cuore in gola. E di quello che hai passato ne faremo fascine da bruciar a cuore armato.

Salta salta!... vola vola! L’acqua cresce, sguscia e spande pezzi di voce per queste lande. Voce calda, soffio fino e la sfregheremo come un cerino, scabra e nuda su queste lande dove solo un baratro di fuoco si spande, dove la donna ha nel petto una molla e il respiro piano si incolla all’onda sciolta dal dio del mare che chiede solo il naufragare.

Salta salta!... vola vola! L’uomo sprofonda col cuore in gola. L’acqua si apre, il fuoco si espande, il cielo crolla su misere lande.

Miserere misere! Miserere nobis miserere nobis....!”

Miserere nobis! Urlò la donna agitando le braccia con gli occhi al cielo. Miserere nobis! Urlò con voce che frantumava le orecchie.

Oscar rabbrividì alla macabra filastrocca e si ritrasse contro la propria volontà, ma quando se ne rese conto aveva già fatto un passo indietro.

André taceva. Proiettava lo sguardo oltre la donna con le braccia aperte al cielo gli occhi immensi che sembravano non potersi nemmeno socchiudere, come bloccati dal dolore. Cercava l’oltre per non violare la sofferenza. Guardava gli altri naufraghi tacere o sussurrare.

Miserere! Gridò ancora la donna.

Oscar sobbalzò. È matta pensò e temette che glielo leggesse in viso. E glielo lesse.

“Strega! Figlia di una biscia!” urlò la donna. Gli altri naufraghi finsero di non sentire. Erano immagini sullo sfondo come in un presepe.

“Figlia di una biscia! Dovevi lasciarmi in fondo al mare!” le sentì dire ancora e sentì un argine interno che cedeva e le venne quasi voglia di piangere.

 

 

 

ΩΩΩΩΩ

 

 

 

E’ un giorno ambiguo, un altro ancora, che vira in questo color fuliggine stanco nei miei occhi.

Sorrido piano e la clessidra, non si accorgerà di me.

Da questo rifugio proiettato nel blu guardo il cielo, con una speranza indefinibile: una stella marina sul cuore.

Non so.

Assenza di luce sul mio capo ed è come se la mia strana speranza, debole, scivolasse lungo le braccia e giacesse qui, fra le mie dita.

Non lo so...

Ora più di questo non posso. Più di sperare, stancarmene e ricominciare ancora.

Fino ed oltre le mie tenebre.

 

“André non sopporto le ingiustizie!” mi ha detto con cattiveria.

“Lo so Oscar” le ho risposto fissandola mentre, coi gomiti sulle ginocchia, mi premevo gli indici delle mani l’uno contro l’altro, come se dovessi contenere qualcosa.

“Non posso pensare a persone tenute come animali!” sempre più dura.

Ho continuato a premere gli indici. È vero, ma non è questo il punto ho pensato.

“Oscar... so che non è bello, ma questa situazione sarà solo provvisoria. Prima o poi verranno rimpatriati. La gente giù in paese fa quel che può... Vuoi da bere?” le ho detto, porgendole un bicchiere già pieno.

“No... Anzi sì...” e lo ha afferrato con un po’ d’indecisione e un’aria scura in volto.

“Che merda ‘sta roba...” ha commentato a mezza voce.

“A me sembra buona” ho ribattuto praticamente certo di andare incontro a morte sicura. Ma stranamente, non ha replicato ed ha continuato a fissare il fuoco.

Ho preso un’altra sorsata lunga. Poi ho vuotato il bicchiere e, lasciandomelo ciondolare fra le dita, ho deciso che, se non vuotava il sacco lei, lo avrei fatto io.

“Sei tornata di ghiaccio?”.

“Lo sono sempre stata” mi ha risposto fissandomi, senza sfida. Solo una precisazione.

“Perché non parliamo di quello a cui stai pensando davvero?”.

“Che sarebbe?”.

Era veramente tornata di ghiaccio. E, per un istante di fronte a quella costante chiusura, non ho saputo cosa dire. Solo le ho accarezzato una guancia col dorso delle dita. Lì è scoppiata la tempesta.

“André!” mi ha fatto nervosa scostandomi la mano. Sono rimasto gelato. “Piantala!” ha detto alzandosi e scaraventando il bicchiere nel fuoco. Il vetro è scoppiato e l’alcol ha alimentato una fiammata più forte.

Si è alzata con le mani sulla fronte e io lì, una statua di sale.

 

Tira la corda, André... tirala finché vuoi e finché puoi. È sempre più di quel che ti permetterei e sempre meno di quanto vorrei.

Lascio che la parola sia violenza che spezza il silenzio.

“Piantala!” grida la mia voce e il vetro va in pezzi.

Metto in fila parole nel silenzio della mia testa.

Il vetro va in pezzi perché ho pensato. Il vetro va in pezzi perché ho osato pensare.

Il vetro va in pezzi perché ho osato pensare che la brutalità dell’oceano mi abbia svelato qualcosa.

Il vetro va in pezzi perché ho osato pensare che la brutalità dell’oceano mi abbia svelato l’essenza del dolore.

Il mio dolore sul volto di un'altra. Mentre trascinavo quella donna nell’acqua, mentre le stringevo il braccio e le gridavo sul viso di lasciarmi fare, perché altrimenti saremmo andate a fondo tutte e due, ho avuto la netta sensazione che quel dolore sarebbe potuto toccare a me. Il lampo che colpisce l’albero e lo schianta all’improvviso. La guardavo e lei mi guardava con odio e mi odiava perché la strappavo alla morte. La strappavo alla morte per un uomo. La sceglieva e non la subiva, come credevo. Me ne sono accorta tardi e il suo lampo mi correva come una scossa nelle vene, su fino al cuore, per contaminarmi sangue.

E la cosa peggiore sai qual è? E non la sentirai dalle mie labbra mai!

È che io... senza rendermene conto, pensando all’apice dei possibili dolori... ho pensato a te!

 

 

“Mi scocciano queste mani addosso!” gli dice.

“Sono pulite...”. Sarcasmo. “A me scocciano i cocci di vetro che scoppiano nel fuoco. E mi scoccia il tuo rifiuto di comunicare con me che - che strano! - potrei sentirmi leggermente offeso dalle tue reazioni premestruali e dalla tua scarsa considerazione nei miei confronti”. Tutto con la massima tranquillità.

Lei incrocia le braccia sul petto. La comunicazione fra loro si è incanalata in un percorso che non porterà da nessuna parte. Oscar si chiede se davvero ha finto così bene da illuderlo di essere uno zero. Probabilmente sì. È fin troppo in salvo dai suoi dubbi e può abbassare la guardia. Socchiude gli occhi e sospira.

“Scusa. Mi sto comportando da sciocca”.

“Non volevo dirlo. L’hai detto tu”.

“Sì l’ho detto io. Non ho una scarsa considerazione di te. Spero tu lo sappia”.

“Ogni tanto potresti ricordarmelo... Ad ogni modo non posso costringerti a parlare, anche se sento che stai covando qualcosa che ti fa male”.

“Vorrei fingere che gli ultimi giorni non siano esistiti. Vorrei fingere che quella nave non sia lì sulla battigia a farmi pensare a quello a cui penso”.

André capisce che non vuol dire di più e annuisce. In fondo ha già detto tanto. Per un istante, secondo un fuggevole comune accordo, si stringono l’uno all’altra e si separano fingendo che non sia accaduto.

Silenzio…

Pubblicazione del sito Little Corner del novembre 2013

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