Inside -

Essere una donna

IX

Warning!!!

 

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L’incontro con Fersen non si fece attendere: lui l’aspettava nel corridoio di fronte agli appartamenti della regina. Ciò la fece infuriare, anche se al trovarselo davanti il suo controllo per un attimo vacillò: Dio, le sembrava di non vederlo da mesi, di non toccarlo da mesi...

“Se avete un appuntamento con sua Maestà, conte di Fersen, vi potete accomodare: io ho finito,” lo informò, glaciale, prima di iniziare a fendere il corridoio a lunghe falcate.

André la aspettava in cortile: voleva mostrargli che era calma, che era andato tutto bene.

“Non devo vedere la regina, Oscar,” chiarì lui, dapprima seguendola e poi affiancandola. “Sapevo che eravate qui. Volevo parlarvi.”

A quel punto, chi se ne fregava della diplomazia.

“Andate al diavolo, Fersen,” lo troncò, accelerando il passo. “Non ho niente da dirvi.”

“Ma io ho qualcosa da dire a voi!” controbatté lui incollerito, afferrandole un polso per bloccarla.

Per un istante sospeso si fronteggiarono, occhi negli occhi, lividi in volto, i muscoli tesi. Fersen non le lasciò andare il polso e le ricordò così la sera in cui tutto era iniziato. Una scena simile, solo che ne era seguito un bacio. Ma anche adesso, è rabbia o desiderio? Attorno a loro stava iniziando a radunarsi una piccola folla di curiosi cicaleccianti e scandalizzati, che occhieggiavano e bisbigliavano incuriositi dietro i ventagli spiegati.

“Lasciatemi andare o incroceremo le spade,” lo informò in un bisbiglio reciso.

“Ho fiducia che un tale scandalo si possa evitare,” mormorò lui pacatamente, senza abbandonare la presa. “Cosa direbbe vostro padre?”

Non mi interessa quel che direbbe. Ma, effettivamente, sarebbe una scena ridicola.

“E sia,” concesse lei, liberando il braccio con un brusco strattone. “Ditemi cosa volete.”

“Non qui. Seguitemi nel parco.”

“È proprio necessario scendere nel parco?” titubò.

André li avrebbe visti uscire assieme.

“Non credo preferiate parlare qui.”

Nonostante le incertezze sulla direzione, si mossero per sfuggire all’assembramento dei cortigiani, che non osarono seguirli se non con lo sguardo. Oscar percepì i termini ‘duello’ e ‘sfida’ rimbalzare di bocca in bocca. Poco male, ormai è fatta.

Fersen mal interpretò la sua riluttanza: “Mi dispiace dovervi condurre in un luogo in cui avete dovuto assistere a una scena tanto... spiacevole per voi. Ma la reggia ha occhi e orecchie, ed il parco è un luogo che considero sufficientemente discreto.”

Era quasi frustrante la trascuratezza con cui le porgeva l’occasione di fare ironia: “Ho avuto modo di constatare la vostra predilezione per tale scenario. Vi prego, però, di non angustiarvi col pensiero di poter ferire i miei sentimenti: l’episodicità di questa vostra preoccupazione mi confonde le idee.”

Lui dovette sorridere con riluttanza, ammettendo: “Per Dio, Oscar, mi siete mancata…

“Anche voi mi siete mancato,” ammise con triste distacco. “Quando me ne accorgo, penso che non vorrei più vedervi. È davvero una disgrazia che Versailles, nella sua opulenza, sia diventata piccola al punto da non potervi evitare, conte.”

“Oscar...” mormorò solo lui, colpito da quella cruda dimostrazione di astio. “Ve ne prego, lasciate che vi spieghi…

Emersero dalla reggia per attraversare la spianata ghiaiosa che precedeva le fontane, dirigendosi in fretta verso i giardini. Oscar cercò di evitare gli sguardi e squadrò le spalle per parodiare un incedere marziale e sbrigativo, ma le sembrò di sentire lo scrutinio di André che le scavava dei solchi nella schiena a unghiate. 

Mi sento male perché gli dimostro di non avere una dignità? Ormai l’avrà capito da tempo: credo che il suo giudizio di me non possa più peggiorare. Lo ferisco, facendomi vedere in compagnia di Fersen... ma anche questa non è una novità. Eppure adesso è diverso: se una volta mi sentivo eroicamente in colpa per il dolore che gli davo, ora mi sento... semplicemente stupida.

Si persero fra le aiuole curate dei giardini di Versailles, che rifiorivano rigogliose nella brezza primaverile, ritagliando angoli di eden a poche miglia di distanza dall’inferno parigino. Oscar teneva le mani intrecciate dietro la schiena per impedirgli di cercare di afferrargliele. Procedevano affiancati, senza badare a dove andassero.

“Vi siete stupito della mia reazione, conte?” esordì lei, per spezzare il silenzio che era calato. “Sinceramente, non riesco a capire che cosa vi aspettaste di diverso. Questa conversazione mi è talmente penosa da spingermi a supplicarvi di porvi fine il prima possibile.”

“Cosa mi aspettavo? Non lo so. Probabilmente della comprensione, Oscar.”

Quando queste parole la raggiunsero, lei per un attimo non riuscì a ricollegarvi un senso: erano assurde. “Della comprensione?” scattò incredula. “Io avrei dovuto dimostrare comprensione?”

“Voi sapevate che tipo sentimento mi legasse a lei, siete sempre stata a conoscenza della nostra storia. Certo, era finita, ma... come può finire una cosa che non è mai cominciata? È finita, sì. È ancora finita. È sempre finita. Non esiste. Sinceramente non credevo che vi sareste stupita, se fosse capitato qualcosa di simile. Forse non volevo pensarci troppo. Quando Antonietta mi chiese di vederci, non avrei saputo come né perché rifiutare. E non pensavo di dovervelo riferire, perché non avrebbe avuto conseguenze sul nostro tipo di rapporto. Perché avreste dovuto sentirvi minacciata da lei?”

Fungere da testimone e garante per la sua pacifica e serena autoassoluzione la fece trasecolare. Per un attimo si sentì la stupida vittima della burla di un dio sconosciuto, non tanto sadico, quanto beffardo. Ma allora quando affermavi e spergiuravi di voler fare sul serio con me, cosa diamine intendevi, si può sapere? Era solo un messaggio in codice per chiedere di vedermi più spesso o per tratteggiare un orizzonte di durata? E quando ti preoccupavi per il rapporto fra me e André? Semplice questione di convenienza o curiosità, desiderio di chiamare le cose col proprio nome? Io non riesco a capire...

Non riuscì a impedirsi di balbettare, smarrita: “Ma io e voi... avevamo una relazione! Io mi aspettavo fedeltà, mi sembrava naturale pretenderlo, non credevo di doverlo specificare!”

“Infatti,” convenne lui, fermandosi e appoggiandosi con le mani a un albero, la testa china in avanti. Perso il tono indifferente e leggero di poc’anzi, sembrava affaticato. “E io non l’avevo neppure preso in considerazione, questo. Non ci pensavo perché non contavo sulla vostra... innocenza. Oscar, io non ho mai vissuto una relazione in cui mi venissero domandate e offerte fedeltà, sincerità e lealtà. Né tanto meno fiducia. La vostra reazione, oltre a gettarmi nello sconforto più totale, mi ha costretto a guardarmi dall’esterno e a rendermi conto di che razza di uomo io sia diventato. Non penso che voi, Oscar, abbiate compreso fino in fondo quanto io sia… vuoto e cinico. Avrei forse potuto diventare un uomo degno, se cresciuto in un ambiente differente. Il punto è che penso di non aver mai incontrato nessuno come voi: siete una persona leale e integra... diversa da chiunque, nel nostro mondo. Chi pretende o si aspetta fedeltà in un rapporto, al giorno d’oggi? È già tanto che si accetti di prenderlo sul serio. Ma avrei dovuto saperlo che siete diversa... solo che non lo sono io, capite? Non lo sono io. Ve ne sarete accorta, me ne sono accorto anch’io. Eppure voi mi fate aspirare a diventarlo, voi... io vorrei diventare un uomo degno di stare al vostro fianco, Oscar.”

Era un discorso che aveva dell’inverosimile: non riusciva a capirlo né tanto meno a crederci. Ma, al sentire che una parte di lei avrebbe sinceramente voluto fidarsi di quel che le diceva, si disprezzò. A quel punto lui le lanciò un’occhiata colma di desiderio sofferente, non sapeva se autentica o simulata, che la fece vacillare. Si rese conto che le mancava toccarlo, baciarlo, stare assieme a lui, anche se la loro storia non era stata perfetta, anche se lui l’aveva... tradita? Ma da troppo tempo, ormai, i suoi sentimenti erano incardinati su di lui: al loro posto, ora, c’era soltanto il vuoto. Eppure, qualcosa nel suo atteggiamento, nella sua persona, la repelleva: voleva al contempo che le stesse a distanza, che non la toccasse. Non era più come prima, e il suo discorso non faceva che confermarglielo.

Mi ripugnano le sue parole, ma sono veramente la persona retta e adamantina di cui va tessendo gli elogi? Guarda come mi sono comportata con André. Cos’ha fatto Fersen di diverso da me? Solo ora capisco come deve essersi sentito André. No, non è vero: dovrò perdere un occhio e un'esistenza intera prima di poter dire di comprenderlo.

Fersen, non riesco bene a intendere quel che state dicendo. Mi sembra soltanto di capire che siamo troppo diversi per poter portare avanti quel che abbiamo iniziato. Forse avete ragione voi, forse non vi conosco, o forse non conosco il mondo, la società, la vita,” riconobbe con amarezza. Sentiva una specie di ronzio alle orecchie: non riusciva a rendersi pienamente conto di quello che stava facendo. Stava cercando di lasciarlo? No, non ce la faccio, non voglio… Le sembrava di stare per gettarsi nel vuoto, come la sorella di Rosalie quella notte di anni fa, e un velo di sudore freddo le bagnò le tempie. “Ho sempre vissuto mettendo a repentaglio la mia esistenza, ma... dentro una campana di vetro. Eppure non posso abdicare alle mie idee su come penso dovrebbe essere un rapporto, su quello vorrei da una relazione, e mi sembra che voi non possiate condividerle. Credo che sia stato tutto un errore.”

Perché lo faccio? Non voglio fare a meno di lui, non riesco neanche a pensarci. Forse è solo per cercare di fargliela pagare per la gelosia e il dolore che mi ha costretto a provare. Ma non posso continuare con lui dopo quello che è successo, dopo quello che ha detto, no, non posso. Perderei ogni rispetto per me stessa. Non riuscirei più a fidarmi di lui. E cosa penserebbe André di me? Cosa devo fare, cosa? Lasciarlo, rimanere? Seguire la testa o il ventre?

Restare sola…?

“No, Oscar, non fatelo...” tentò di interromperla lui, sollevando inconsciamente una mano a intimarle di tacere. “Non è vero che non riesco a condividerlo...”

“Quando abbiamo parlato di iniziare qualcosa di serio, io non pensavo a progetti per il futuro,” proseguì senza dar segno di averlo ascoltato. “Mi aspettavo sincerità, invece. Che non mi è stata offerta, perché più volte mi avete assicurato di voler dimenticare Maria Antonietta, di voler voltare pagina, e non è mai stato vero. E mi aspettavo fedeltà. Ma mi rendo conto di essere stata un’ingenua. A questo punto mi chiedo con quante altre donne io vi abbia condiviso in questi mesi.”

Il silenzio che accolse la sua amara constatazione fu un’eloquente risposta.

No, basta, deve finire. Basta.

Non può funzionare.

“Conte, abbiamo commesso un errore.”

“Non è vero, Oscar: io ho sbagliato, e soltanto io,” si affrettò a interromperla. Si voltò e con impeto le andò di fronte e la afferrò per le spalle, gli occhi fissi nei suoi. “Quando ho capito, proprio grazie alla vostra delusione, quanto valore attribuivate a questo rapporto avrei voluto picchiarmi! Sono stato uno stupido a non vedere quel che avevo fra le mani. Sto rischiando di perdervi, Oscar, e ho capito che non sono disposto a farlo. Voglio diventare un uomo diverso. Voglio... tentare di nuovo, con voi. Alle vostre condizioni.”

“No, Fersen,” lo respinse lei, scuotendo il capo. “Lo fareste per me, non per voi. A voi non interessa abbastanza, non capite nemmeno cosa vi sto chiedendo. Quello che è naturale per me, per voi non ha senso. Voi non provate nulla per me, quindi a che pro…

“Che ne sapete voi? Cosa ne sapete! Non pensate che è solo perché non potevo avere la donna che amavo che sono diventato così? Un donnaiolo riprovevole e fatuo, per cui le donne erano il normale antidoto alla noia e alla frustrazione... Lo facevo senza neppure rendermene conto! Ma alla fine tornavo sempre da lei. Solo che da lei… non potevo restare. Ho continuato a vivere così anche mentre c’eravate voi... forse avevo paura di rendermi conto che la vostra presenza cambiava tutto... che potevo tornare da voi, sì, ma che voi non eravate lei: con voi sarei potuto restare! È cambiato tutto nella mia vita, e mi fa... paura!” confessò stupefatto, gli occhi sbarrati sul niente. Per un attimo tacque, come a cercare le parole per farle capire qualcosa di fondamentale, ma non ne trovò di adatte e si arrese a usare le frasi usurate da tutte le volte in cui le aveva pronunciate sul serio o per finta: “Io vi amo, Oscar. Ho sbagliato, lo so. Non vi chiedo di perdonarmi, ma permettetemi almeno di vedervi! Voglio dimostrarvi che ho capito e che posso essere diverso. Dio, come mi mancate! Non potete... Oscar, non puoi farmi credere che riesci a farcela senza di me! Non ti senti anche tu… sola da morire? Se solo tu sapessi come riempi le mie giornate, ormai, e i miei pensieri...”

La confessione la colpì con violenza: si sentì fisicamente impallidire. Fu un attimo di confusione totale: qualcosa in lei gioì per quelle parole, qualcos’altro si contorse maligno e bisbigliò: e allora? Pensi che ti stia dicendo la verità? E credi che, anche se fosse, farebbe la differenza? Ha ragione André: la amerà sempre e la vedrà ancora. Forse ama anche te, sì. Ora. O forse gli sembra. Come fai a esserne sicura? Non lo senti. È strano, vero? L’amore di André lo avverti fisicamente: ne senti il peso, ti accerchia, ti protegge, ti scotta, ti soffoca, mentre quello di Hans... non sapresti dire cosa sia né cosa voglia dire.

Se siano solo parole.

Non sapeva cosa rispondere. Il suo istinto supplì con un’autodifesa, un rifiuto automatico: “No, Fersen, non credo che sia giusto. Non funzionerebbe mai. Come posso fidarmi dopo quel che è successo…

“Non ce la faccio a restare senza di te,” protestò lui, stringendola. Lei rimase rigida, riluttante. “Non mi interessa delle altre: sono solo un vizio, e lei… lei è la mia rovina…! Credimi, ti prego, se ti dico che voglio diventare come te... qualcuno che tu possa amare, capire. Aiutami a liberarmi davvero di lei, anima e corpo, e a non cedere più...”

Come posso aiutarti io? Devi essere tu a farlo! E come osi presentarti a me come una vittima? Sei tu che hai scelto quel che hai fatto, tu che hai scelto di tornare da lei!

“No, lasciatemi andare...” protestò a quel punto, irritata. “Non potete chiedermi questo!”

“Non ti lascio andare, Oscar. Non credere che sia pronto a lasciarti. Ho sbagliato, ma sono disposto a tutto pur di riconquistarti. Solo ora ho capito cosa vuoi e cosa mi offri... ed è qualcosa che nessun’altra potrebbe darmi. E io lo voglio, devi credermi!”

Dio, vorrei crederti. Che sia solo paura della solitudine, bisogno di calore umano? Sono diventata una donna, non sono più un meccanismo, per colpa mia sua tua, e per sopportare la fatica e il peso di esserlo ho bisogno di un uomo al mio fianco. Un uomo a cui pensare, che mi impedisca di pensare a me. In fondo come faccio a sapere cosa sia l’amore? Ma André, perché non André? Perché sarebbe usarlo, sì, è vero. E non posso farlo. Anche se ormai non so più se sarebbe usarlo, ma lo ripeto perché almeno qualcosa non deve cambiare, deve continuare a avere un senso, a essere una certezza. E l’abbraccio di Fersen è soffocante, il nostro idillio era ridicolo e insincero e mi manca la sincerità di André, le sue parole che dicono esattamente quello che significano, e forse anche la voglia che – almeno quella – era soltanto per me. Se sono solo capace di usare e non so provare nulla perché non dovrei usare?

Fersen le sfiorò le labbra con timidezza e lei rimase fredda, separata, paralizzata, a scrutare la scena dall’esterno. Respingerlo dopo una schermaglia verbale che l’aveva prosciugata senza approdare a niente avrebbe richiesto un’onestà ed una chiarezza di sentimenti che, nel caos dei suoi ragionamenti, lei proprio non riusciva a trovare. Ma era presto per perdonarlo e in fondo lei già sentiva, con certezza annichilente, che non ci sarebbe mai riuscita. 

Al sentire una mano su un fianco venne scossa da un lungo fremito che la fece istintivamente indietreggiare, fino ad andare ad aderire con la schiena a un albero. Si irrigidì e provò a liberarsi; diedero inizio a una sorta di confusa colluttazione e lei avvertì le gambe farsi molli, un languore pungente invaderla. Lo sentiva duro contro di sé. “Mi manchi, quanto mi manchi…” le mormorava lui sulle labbra, senza sosta, con un’intensità così disperata da sembrare un ricatto, come se fosse lui quello che soffriva, che aveva subito il torto e andava consolato. “Ti prego, non mi respingere…” Dio, e lei aveva pensato che non si sarebbero più baciati… aveva temuto… che non l’avrebbe più potuto toccare, e invece…

Parli a tutte così? Le tocchi tutte così come tocchi me?

In uno scatto improvviso, gli diede due schiaffi alla cieca contro il petto, si divincolò con violenza e fuggì via, i capezzoli induriti che sfregavano contro la camicia inamidata, il cuore che martellava nel petto.

Non poteva tornare alla reggia in quegli stati. Si acquattò dietro un cespuglio, si asciugò le lacrime e cercò di ricomporsi. Si costrinse a prendere alcuni profondi respiri, in ginocchio, gli occhi chiusi, lottando contro la nausea.

Un crampo improvviso la fece torcere su se stessa, la fronte imperlata di sudore.

Credo che mi sia iniziato il ciclo.

Forse è solo sangue, allora… forse non mi sono bagnata. Forse non faccio totalmente schifo.  

Sentiva ancora le sue mani, e la propria confusione. Una sorta di affronto intimo, ingenuo, nel non sentirsi rispettata. Eppure, per un attimo rapidissimo, quasi aveva pensato che avrebbe potuto non importarle: qualsiasi cosa pur di non perderlo, pur di non restare da sola. Ma non ce l’aveva fatta a sopportare il disgusto né tanto meno il piacere.

Non può pensare che sia così semplice. Non è così semplice! Non sono a sua disposizione, non può trattarmi in questo modo. È diverso ora. Lui non può pensare, dopo quello che è accaduto, di potersi comportare come prima, non può davvero credere di potermi toccare, baciare, come niente fosse successo…

E io… io dovrei non volerlo più vedere. Dovrei volerla far finita…

Vorrei che fosse facile.

 

A partire da quel giorno Fersen prese a giocare secondo nuovi schemi. 

Si presentava ufficialmente a palazzo Jarjayes ogni sera, sollecito e rispettoso, domandando di essere ricevuto da madamigella. A volte veniva accontentato, altre no: dipendeva da quanta rabbia, solitudine, compassione, paura e turbamento lei provasse in quel momento. Se veniva ammesso alla sua presenza si intratteneva con lei in genere non a lungo, dando prova di sapersi comportare come un perfetto gentiluomo: la informava sugli ultimi intrighi di corte, sugli andamenti della politica interna ed estera (dimostrando una prospettiva retrograda e reazionaria a tratti insopportabile), e tentava di solleticare il suo interesse discettando di musica, libri, opere liriche. A volte provava a invitarla, con scarso successo, a qualche evento mondano parigino. Non tentò più di baciarla né azzardò altri approcci più spinti: forse sentiva d’istinto che lei non avrebbe gradito. Oscar ne era sollevata, perché ciò la liberava dall’incombenza di doverlo respingere; al contempo, non poteva impedirsi di scoprirsi indispettita e disorientata di fronte al dominio di lui, a quella distanza di sicurezza che la confondeva e la privava della fisicità come strumento di controllo della situazione e dell’altro. 

Spesso si rifiutava di riceverlo. Se la sua capacità di respingerlo da un lato la inorgogliva, restituendole l’illusione fuggevole di essere in grado di reggere saldamente il timone della propria vita solitaria, dall’altro si trovava subito costretta a ricredersi: ogni volta la sgomentava scoprirsi incapace di apprezzare la solitudine come un tempo. Si sentiva sola e basta, ormai; i passatempi di prima – leggere, suonare, allenarsi – non arrecavano più piacere né consolazione: erano solo modi diversamente frustranti e diversamente vuoti di stancare corpo e cervello, di impegnare le ore pregando che passassero in fretta. Il lavoro era il suo unico rifugio: la costringeva a non restare sola quando stare sola significava pensare a lui. Hans le mancava. Lungi dall’accettarlo come una fisiologica conseguenza dei loro trascorsi, questo fatto la colmava di un orrore quasi elementare: abituata a avere ragione dei propri impulsi, a domarli e vincerli anche a costo di essere brutale, ora si sentiva spossessata, alienata, quasi violata da un bisogno di lui che le toglieva il fiato e non riusciva a accettare.

Di colpo non poteva più organizzare le giornate attorno a loro due ed era come galleggiare su una zattera in mezzo all’oceano senza terra in vista.

In poco tempo era diventata dipendente dal suo desiderio, dalle sue parole, dalla sua compagnia, anche se tutte queste cose alla fine, se doveva essere sincera, non erano mai state abbastanza, non avevano saputo soddisfarla pienamente. Come aveva potuto investire così tanto su di lui? Si trattava solo di amore? O era la sua vita di prima, che lui aveva così imperfettamente riempito, ad essere stata troppo vuota? Ora la asfissiava come se vivesse in un eremo: lavoro, doveri, nessun progetto, niente da attendere, solo autocontrollo e privazioni. Solitudine. E l’assenza di lui graffiava come sentirsi persa in un bosco o abbandonata in un angolo ad una festa, anche se sapeva bene che averlo accanto non l’avrebbe fatta stare meglio. Non la faceva mai stare meglio: in sua presenza non faceva che ripensare a quella scena a Versailles, lui e lei abbracciati, e con una morsa allo stomaco riviveva l'irritazione di tutte le sue mancanze, le sue ambiguità, i discorsi formali e opachi, forse veri, forse falsi. Queste contraddizioni la riempivano di rabbia: non trovava pace, divisa com’era fra l’odiarlo e il rimpiangerlo. In un modo o nell’altro pensava a lui e non poteva che provarne vergogna.

Se rinunciava a vederlo lui non insisteva: le lasciava una rosa rossa con un messaggio e se ne andava. Il biglietto, in genere, conteneva aforismi amorosi o altre simili banalità talmente trite da lasciarle l’amaro in bocca e da portarla a dubitare dei suoi sentimenti perfino più di quanto non avesse fatto quel che era successo fra lui e la regina. 

A corte, se la incontrava, il conte si soffermava e si inchinava di fronte a lei; non le baciava la mano perché sapeva che, con ogni probabilità, sarebbe stato sfidato a duello, ma non si peritava di palesare a sguardi e parole l’interesse che provava per lei. Versailles assisteva stupita e incredula: ormai si vociferava apertamente che Hans Axel von Fersen corteggiava Oscar François de Jarjayes. Tutti volevano sapere come sarebbe andata a finire. Quel che nessuno si sarebbe aspettato era l'atteggiamento di madamigella: il colonnello si guardava bene dall’assecondare le avances di cui era oggetto, ma neanche le respingeva con la fermezza che ci si sarebbe attesi. Si fosse trattato di una donna normale, si sarebbe detto che era… imbarazzata.  

Gli occhi che non erano puntati su loro due scrutavano la regina: sua Maestà, però, non dava segno di accorgersi di quello che stava succedendo e posava sull’amato e sulla rivale il medesimo sguardo condiscendente, vuoto, apparentemente stolido. Un ulteriore e ridicolo risvolto della già ridicola situazione fu che, incoraggiati dal suo comportamento non già conciliante, ma neppure così intransigente come ci si sarebbe aspettati, decine di insospettabili pretendenti presero ardire ed iniziarono a loro volta a fare la corte al colonnello delle guardie reali: il primo della fila era il capitano Victor Clément de Girodel.

Oscar non aveva assolutamente idea di come comportarsi in un frangente talmente grottesco; avrebbe voluto strozzare Fersen perché tutto era iniziato con lui, ma non le pareva un gesto utile né maturo, tutto sommato. Provò a indurlo a desistere almeno da questa farsa inconsistente, con scarso successo.

“Conte, non capisco cosa pensiate di ottenere col vostro comportamento inqualificabile,” lo apostrofò una sera, in piedi, il frustino in mano e gli stivali inzaccherati ancora addosso, stanca dopo una lunga giornata, in un salotto di palazzo Jarjayes.

“Voglio dimostrarvi che stavolta faccio sul serio, Oscar,” replicò lui, fissandola con serietà mortale.

“Potreste dimostrarmelo in altro modo, senza ricorrere a sciocche pantomime ad uso altrui.”

“E come? Scavalcando mura in piena notte, tendendovi agguati in corridoi deserti e pagando il fitto di locande pulciose? L’ho già fatto e non è il modo giusto, Oscar. Noi non dobbiamo nasconderci da nessuno. E voi avete il diritto di essere trattata come una donna: è quello che siete.”

“Non so se lo sono,” ribatté brusca, distogliendo lo sguardo.

“Sì che lo siete. Siete una donna fantastica, e io voglio diventare vostro marito. Questo mi rende, di conseguenza, un vostro pretendente, e come tale debbo comportarmi. Tanto più che sono circondato da rivali, a quanto pare!”

A quelle parole non seppe cosa rispondere: si limitò ad uscire in silenzio dalla stanza, come da suo stile.

 

Com’era prevedibile, il generale non tardò a convocarla per un colloquio privato. Oscar si recò nel suo studio con il cuore serrato da foschi presagi e poche cupe certezze: un paio di schiaffi erano sicuramente da mettere in conto, ma oltre a quelli? Ora che suo figlio stava venendo trattato come la donna che era, come avrebbe reagito il generale? Le avrebbe riso in faccia o l’avrebbe accusata di essere un fallimento, una svergognata, una macchia sul suo onore? L’avrebbe privata di gradi e titoli e confinata in un convento?

“Mi avete fatta chiamare, padre?”

“Sì, Oscar. Ti prego, vieni qui. Avvicinati. Siediti.”

Dietro la scrivania, suo padre aveva un’espressione indecifrabile. La stava scrutando con fronte aggrondata, ma non con sdegno: piuttosto, come se stesse cercando di sdipanare un arduo dilemma.

“Oscar, vorresti avere la cortesia di spiegarmi che cosa sta succedendo?” la apostrofò bruscamente.

“Non ne ho idea, padre,” rispose con sincerità, senza abbassare lo sguardo.

“Pare che tu abbia dei pretendenti,” prese atto il generale, affrontando il discorso alla lontana. “Parecchi pretendenti. Ho ricevuto delle offerte di matrimonio, mi sembra corretto informarti di ciò. Le più interessanti paiono essere quelle del capitano Girodel e del... del conte di Fersen.”

Ormai Oscar non si sentiva più capace di sorprendersi: entrata con il timore di venire degradata, diseredata, rinchiusa in un monastero, ora si trovava d’improvviso incapace di gestire il terrore di poter venire concessa in moglie senza il proprio consenso.

Aveva voluto essere una donna? Eccola accontentata.

Suo padre si alzò dal tavolo da lavoro e andò ad affacciarsi alla finestra, per poterle voltare le spalle mentre le parlava di argomenti che, a rigore, non aveva mai contemplato di dover affrontare con lei: “Sono ambedue buoni partiti. Se dovessi esprimere la mia preferenza, prediligerei il capitano Girodel: è di antica nobiltà, ricco quanto basta e di ramo cadetto, per cui non farebbe ombra né a te né ai nostri... eventuali interessi. Il conte di Fersen non ha una buona fama, per quanto sia un soldato stimabile. Le ignobili dicerie sul conto suo e della regina ormai sono di pubblico dominio e vengono riguardate come verità indiscussa, sebbene prive di fondamento. Tuttavia, è ricco, molto più ricco di Girodel, sfarzosamente blasonato e gode del favore sicuro delle loro Maestà. Per cui, non mi sento in diritto di influenzare la tua scelta, Oscar.”

La situazione era talmente inverosimile che non poté impedirsi di chiedere: “Mi avete cresciuto come un uomo e adesso invece volete darmi in moglie? Perché?”

Suo padre doveva nutrire la sua medesima avversità per gli interrogativi scomodi, come anche per l’idea che qualcuno potesse anche solo suggerirgli di avere sbagliato qualcosa nella sua vita. Al tono francamente sorpreso della sua domanda, le sue spalle si irrigidirono in uno spasmo e le mani gli si serrarono in una stretta convulsa sul davanzale. Lasciò passare qualche istante prima di rispondere con tono teso: “Mi sono reso conto che... è stato un errore da parte mia, Oscar, allevarti come un maschio. Me ne sto pentendo immensamente, credimi. In questo modo, ti ho privata di tutte le gioie che le tue coetanee possono provare realizzando e assecondando la loro natura, per condannarti invece a un’esistenza aspra, dura, piena di pericoli. Ma ho compreso il mio sbaglio e intendo rimediare.”

Ascoltare suo padre rivolgersi a lei usando il genere femminile, per la prima volta da che lei ricordasse, fu l’apoteosi e il coronamento dello stato di alienazione in cui versava da tempo.

“Non è come dite, padre. Penso di dovervi ringraziare per avermi allevata come un figlio: in questo modo, mi avete permesso di svolgere mansioni che non sono alla portata delle altre donne.”

“Sì, Oscar, ma ti ho impedito anche di gustare le gioie che rallegrano tutte le altre donne. A questo punto dovresti toglierti l’uniforme, vivere come una donna e assaporare così tutte quelle cose che ti ho proibito per un mio assurdo capriccio. Voglio che... che tu sia finalmente felice, Oscar. Fra i tuoi pretendenti ve ne sarà sicuramente qualcuno di tuo gradimento: sei libera di scegliere secondo le tue inclinazioni. Se poi tu riuscissi ad avere un figlio maschio, potremmo allevarlo e fare di lui il legittimo erede della nostra casata: credo che si possa ottenere una deroga apposita dalle loro Maestà per trasmettere a tuo figlio il nostro patrimonio e i nostri titoli. È quel che mi aspetto, Oscar, e sono certo che anche tu converrai che si tratta dell’unica soluzione praticabile, a questo punto.”

E così si trattava di questo: suo padre si era finalmente reso conto che la sua follia era un vicolo cieco. Per naturali motivi di incompatibilità biologica, sua figlia non avrebbe potuto unirsi a una donna che avrebbe generato la prole in grado di proseguire il sacro lignaggio dei Jarjayes. Gli erano occorsi così tanti anni per capirlo? Poco male, ormai ci era arrivato. Quindi, era il caso di cambiare tattica e convincere lo strano ibrido di erede che ormai si ritrovava fra le mani ad abbracciare la sua imprescindibile natura di donna ed a procreare come una donna, giacché non si poteva fare in altra maniera, ricavando il meglio dalla scomoda situazione: il sovrano, pratico deus ex machina, avrebbe steso su tutta la faccenda una parvenza di normalità e legalità.

“Ci penserò, padre. Ma non intendo abbandonare l’uniforme e le mie mansioni ordinarie.”

Compromessi, rinvii, elusioni. Che altra scelta aveva?

 

Si sentiva un burattino legato a mille fili.

Da una parte la regina, che la invitava a incontrare il suo amante con la propria impositiva benedizione, ma senza che fossero chiari gli auspici connessi a questa operazione: avrebbe dovuto rendere felice l’uomo che lei aveva fatto soffrire, conferirgli una parvenza di rispettabilità (di cui non sarebbe stato il solo beneficiario) oppure legarlo a Versailles (e, quindi, alla regina) in maniera ancor più inestricabile e definitiva, vincolandolo alla propria persona indissolubilmente assoggettata a Maria Antonietta per via del proprio incarico? Chi poteva dirlo.

Dall’altra Fersen, che la costringeva continuamente a umiliarsi di fronte alla nebbia dei propri sentimenti, in una lotta in cui non c’era mai vittoria. Le mancavano quei momenti sospesi in cui le era sembrato che esistessero soltanto loro due al mondo, momenti che forse – soffriva da cani nel riconoscerlo – non c’erano mai stati se non nei ricami della sua mente. Era ferita e umiliata dal fatto che lui riuscisse a restare lontano da lei e non sembrasse struggersi poi tanto, calmo nell’attenderla, in fondo sicuro che sarebbe stato riaccolto, e lei non sapeva cosa fare, dimagriva non dormiva beveva, nascosta dietro una maschera di impeccabile autocontrollo, perché si sarebbe uccisa pur di non fargli vedere cosa le faceva. A volte lo odiava talmente che si riprometteva di respingerlo in maniera definitiva: in fondo, cosa poteva uscire di buono da quella situazione confusa e corrotta in partenza? In ultimo, però, cedeva. Procrastinava. La sgomentava l’idea che se lo avesse lasciato non lo avrebbe più rivisto: sarebbe finito tutto così, in un attimo, come se nulla fosse successo. Soffriva già per come sarebbe andata: lui l’avrebbe dimenticata e avrebbe amato altre donne, e lei… sarebbe rimasta sola. Fersen era l’unico uomo che fosse riuscita a stimare e amare, il solo per cui avesse mai provato qualcosa: non le pareva probabile che il futuro le riservasse delle novità in tal senso, considerata anche la fauna di Versailles. Si sentiva come se lui fosse la sua unica possibilità: o lui o nulla. 

E suo padre? Suo padre che si aspettava che abbandonasse l’uniforme e iniziasse a vivere da donna, procreatrice di figli a tempo pieno, non importava con chi? Avrebbe voluto dirgli che si rifiutava, opporsi apertamente, disobbedire: non avrebbe dovuto essere così difficile. Eppure, per qualche motivo, lo era. Lui non concepiva neppure l’idea che lei avrebbe potuto non chinare il capo e consentire, tanto era avvezzo alla disciplina inappuntabile di Oscar, a essere soddisfatto da lei, a sentirsi gratificato nel suo ruolo di  pater familias. E renderlo orgoglioso era sempre stato un punto fermo per lei, il tacito riferimento di qualsiasi azione, la misura che le consentiva di dimostrarsi di valere qualcosa. Ora presentiva la sua delusione e la sua rabbia di fronte a un’eventuale ribellione e le si stringeva lo stomaco per l’angoscia.

E lei. In tutto questo, lei dov’era? Non c’era più? Le sembrava di vivere in un incubo in cui veniva torturata da legacci di emozioni e paure ignote senza potersi proteggere. Aveva perso, una dopo l'altra, tutte le proprie armi: la capacità di essere autonoma, di prendere decisioni coerenti senza incertezze, di leggersi dentro, di gestire le aspettative altrui. Non avrebbe mai pensato di arrivare a dirlo, ma rimpiangeva l’adolescenza, i giorni lontani in cui non provava nulla, in cui era indipendente, sola, integra, e non soffriva. Era meglio essere un orologio che ticchettava a vuoto che un’ombra in balia delle insicurezze e del dolore. Diventare una donna significava perdersi?

Non ne posso più della mia vita. Come si fa a scappare?

Ma, al di sopra di tutto, aveva un timore: il timore di alzarsi la mattina, scendere nelle stalle per recuperare Cesar prima di andare al lavoro e non trovare più André ad aspettarla, muto e calmo come uno scoglio in mezzo alla tempesta, le briglie in mano.

 

Era inutile: il sesso per lei non era mai solo sesso. E non diventava veramente amore, no, nemmeno con Fersen lo era stato. L’aveva sempre usato come uno strumento per ottenere qualcosa: conoscenza, autostima, sicurezza, legami, fuga dalle responsabilità, scacciapensieri e scacciangosce. Non riusciva ad abbandonarsi ai sentimenti, neppure se c’erano. Non sapeva se questo significasse che diventare una donna era un’impresa al di là della sua portata o che, semplicemente, lei era uno schifo di donna.

Anche quella notte, non andò a letto con André perché lo amava.

Ci andò per provare a sentirsi se stessa.

 

Fine IX parte

Sara mail to ultimegocce@hotmail.com


 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016

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