Inside -

Essere una donna

VIII

Warning!!!

 

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Aveva sempre trovato esagerata la parola ‘tradimento’ applicata a simili contesti. Il tradimento c'entrava con la guerra, la politica: cose serie. Trapiantare il vocabolo nel bagaglio del lessico amoroso era quanto meno iperbolico: l’amore con le sue reticenze, ripicche e misere schermaglie non si prestava a discorsi tanto seri. Ma adesso non le veniva alla mente altro termine. Tradimento. Della parola data, della fiducia, delle aspettative. Di tutto il tempo trascorso a costruire qualcosa. Dei sentimenti coltivati controvento, quasi fosse innaturale amarsi, come se farlo fosse costringersi e non farlo uccidersi. Della fatica e dei rischi corsi, del corpo offerto senza riserve e delle difese smantellate con furia.

Non riusciva a crederci, non sapeva che fare. Era come congelata. La sua mente era paralizzata: lenta e ottusa, puntava i piedi contro i suoi tentativi di rielaborare quel che era successo e si inceppava in un senso di sofferenza atroce che aveva l’effetto di un anestetico. Non provava nulla, non pensava nulla. Era seduta su una poltrona davanti al camino acceso, coperta da un plaid di lana, ma ignorava come ci fosse arrivata. André, probabilmente. Rabbrividiva, non per la temperatura, bensì per una sorta di reazione nervosa: le tremavano braccia e gambe e la mascella le si serrava spasmodicamente in un riflesso incondizionato, come se stesse digrignando i denti contro un forte dolore fisico. Una parte ovattata di lei si stupiva di non poter piangere. Stringeva con forza una mano, le dita ghiacciate: la mano di André che, inginocchiato a terra accanto a lei, la fissava attentamente, in silenzio.

Quando a Versailles era stato richiamato indietro con urgenza, la mente già rivolta a casa dopo avere preparato la carrozza in tutta calma, sulle prime non aveva saputo cosa pensare. Aveva corso come un pazzo per trovarla accasciata a terra, circondata dai soldati, Girodel che tentava di sorreggerla: illesa, inerte, distrutta. Aveva scambiato con Girodel uno sguardo muto e preoccupato, compreso del senso di comunione che a volte nasce tra due rivali quando la donna contesa sta male o è in pericolo, poi si era chinato accanto a lei e aveva provato a interrogarla, ma Oscar aveva scosso il capo e aveva risposto soltanto, meccanica: “Portami a casa.”

Durante il viaggio si era abbandonata totalmente a lui: aveva lasciato che la abbracciasse in carrozza, che la accompagnasse in camera e le accendesse il camino; le aveva tolto gli stivali e accarezzato i piedi; l’aveva coperta con una coltre di lana e le aveva frizionato le mani per scaldarle; era andato a prenderle dell’acqua, che non aveva voluto bere. Aveva fatto questo perché la sentiva sconvolta, ma al contempo non aveva potuto non avvertire la fiducia incondizionata insita nel suo abbandono ed esserne turbato. In quel momento era come se Fersen non fosse mai esistito: sembrava che fra di loro ci fossero una familiarità e un’intimità ancestrali, finalmente libere di emergere ora che Oscar aveva abbassato le difese, che non ricordava di dover mantenere le solite distanze.

Ringraziava di avere ancora la vista per potersi prendere cura di lei. Quanto sarebbe durata? Il suo occhio destro gli stava dando sempre più problemi. Da tempo, ormai, accarezzava l’idea di lasciare il servizio presso i Jarjayes: fra un po’ non sarebbe più stato in grado di svolgere le proprie mansioni ordinarie, e non voleva che lei si accorgesse che stava diventando... cieco. Non voleva che si sentisse in colpa o che avesse pena di lui. D’altro canto, considerato come stavano le cose, aveva ancora senso restare al suo fianco? La sua posizione non era più solo imbarazzante, ormai: era diventata pesante. Per entrambi. Non erano più amanti, non erano neppure più amici. Avrebbe dovuto rimanere a guardarla mentre si costruiva una vita con Fersen? E lei avrebbe dovuto sopportare il suo scrutinio straziato e accusatorio?

Eppure, ogni volta che se lo chiedeva, si rispondeva sì. Avrebbe dovuto. Avrebbe voluto. Forse non era che un debole, un uomo privo di dignità e di coraggio, eppure non vedeva il senso di una vita in cui non ci fosse anche lei. In cui non potesse in qualche modo vegliarla, prendersi cura di lei, difenderla dai pericoli. Anche se forse, fra non molto, non ne sarebbe più stato in grado. E anche se la odiava e non poteva che farle avvertire il peso del suo risentimento. Amore e odio? Ma no, non era questo... era qualcosa di ancora più assurdo e inaudito: era amare e odiare e… volere bene. E forse è questo che ci salverà, alla fine.

La sua donna amava riamata un altro, lui stava diventando cieco ed era solo come non era mai stato, eppure non riusciva a credere che ci fosse una via di fuga, che una fuga potesse essere una soluzione praticabile: lei era il suo senso, e una vita trascorsa lontano da lei sarebbe stata solo uno sbaglio o un’impostura. Avrebbe anche potuto provarci, ma non pensava si sarebbe sentito meglio.

E adesso lei gli stringeva la mano come se avesse bisogno di lui. Come se sentisse che chiunque altro, al suo posto, le avrebbe fatto male. Aveva chiesto di lui, a Versailles. Gli aveva domandato di riaccompagnarla a casa. A lui, solo a lui.

Forse semplicemente perché sa che ci sei sempre. Il suo fidato servitore, disponibile per qualsiasi compito, venire ignorato massacrato scopato. Sei sicuro che ti consideri ancora un essere umano?

Basta con questi pensieri. Basta.

“Oscar,” provò a chiamarla, cauto. “Oscar, cosa è successo?”

Lei voltò lentamente il capo per osservarlo ma non aprì bocca. Aveva lo sguardo fisso, vitreo, in un viso dal pallore spaventoso. Le sue labbra erano serrate in una linea sottile, la stessa di quando comandava di fare fuoco contro il nemico in una sortita.

Girodel mi ha riferito che qualcuno ti ha aggredito: è vero? Cosa ti hanno fatto, Oscar? Dobbiamo chiamare un medico?”

Lei scosse brevemente la testa e nel farlo una lacrima le scivolò sul viso. Lo guardava con un dolore tale da sbriciolargli il cuore.

“Non c’entra questo, vero, Oscar?” dedusse, triste, ma quasi senza sentire la fitta. “Ti sei incontrata con Fersen nei giardini di Versailles? È successo qualcosa, avete litigato?”

Altre lacrime mute. Il viso di lei si deformò nel tentativo di contenere i singhiozzi e le mani presero a rabbrividirle in maniera incontrollata.

Era già la seconda volta che la vedeva ridotta a pezzi per colpa dello Svedese. Avrebbe voluto ucciderlo con le sue mani. Perché non l’aveva ancora ammazzato? Non riusciva a sopportare di dover semplicemente rimanere a guardare la sua Oscar che soffriva così per un altro. Come si permette di trattarla così? Di farla stare male? Lo Svedese era un verme, un ottuso demente. Gli farò rimpiangere ogni lacrima, a costo di essere impiccato. Una rabbia insensibile e gelida gli montò dentro come acido. L’avrebbe ucciso, e allora finalmente si sarebbe tolto dalle palle!

“Oscar, per favore...” insisté, imponendosi di apparire calmo: lei ora aveva bisogno di sfogarsi, doveva permetterglielo. “Dimmi cosa ti è successo... ti prego, amore,” gli sfuggì con la voce che gli si incrinava, perché a vederla piangere così veniva da piangere anche a lui. “Amore, parlami. Voglio solo aiutarti, lo sai. Non ti lascio da sola...”

Lei gli strinse spasmodicamente la mano, come ad impedirgli di andare via. Forse alla fine era stato un bene affrontarsi e parlarsi, quella volta, anche soltanto per lanciarsi coltelli addosso: almeno poteva farle delle domande, ora, e aspettarsi delle risposte. E forse era stato un bene perfino essere stato suo amante, perché adesso poteva prenderle la mano fra le sue e accarezzarle le dita senza che lei neppure pensasse di doversi scostare. La difficoltà stava nel capire a che punto fossero arrivati, che razza di rapporto sfocato avessero maturato. E nel ricordarsi di non nutrire illusioni. Ma almeno questo non era troppo difficile.

“Oscar, ti prego, rispondimi...” ripeté, accorato. “Che cosa ti ha fatto?”

Quando lei parlò, finalmente, la sua voce fu un lungo tremito fermo: “Li ho visti, André. Nei giardini. Abbracciati. Erano insieme... Dio, mi sento così stupida! Perché mi ha fatto questo, perché? Mi odia? Io... io mi ero fidata di lui...”

“Mi dispiace,” mormorò soltanto, chinando il capo.

“Non è vero,” ribatté lei, ma senza acrimonia. Ora che era finalmente riuscita a sputare la verità stava piangendo in silenzio, arresa, senza disturbarsi a nascondere il viso. “Tu lo volevi, lo aspettavi...”

“No,” negò lui, scuotendo la testa. “Credimi, mi dispiace davvero. Forse sì, forse una parte di me lo sperava. Ma mi accorgo che non sopporto di vederti stare così male. Preferirei saperti sposata a lui. Che senso ha...? Non sarai mia comunque. Vorrei almeno che non stessi male... che almeno tu stessi bene. Ti voglio bene, Oscar, credimi. Ti voglio tanto bene...”

“Non è vero...” protestò lei, coprendosi il volto con una mano.

Perché dici così? Possibile che vuoi che te lo ripeta?

“Sì che è vero,” insistette. “Lo sai. Io ti voglio bene, Oscar...”

“Scusa. Non so che mi prende,” riconobbe lei. “Se penso che lo sapevi, mi avevi anche avvertito...”

Si ritrovò a scuotere la testa, mentre replicava sommesso: “Non lo sapevo, Oscar. Certe cose nessuno può saperle. Ero incattivito dal dolore, tutto qui… e ti chiedo perdono…

Lei era immobile, e parlava guardando il vuoto davanti a sé: “Perché lo ha fatto? Mi aveva detto che era finita tra di loro. Che faceva sul serio con me. Allora è stata tutta una farsa? Non prova niente, non ha mai provato niente! Mi ha mentito, mi ha sempre mentito… Non valgo nulla. Avevo sperato, avevo sperato che... no. Non ce la faccio. Sono stata una stupida! Voglio morire, solo morire...”

Lui si scoprì imbarazzato da queste confessioni: Oscar non si era mai aperta con lui, non fino a questo punto, anche se lui aveva comunque sempre saputo leggerle dentro. Ma confidarsi così ora... doveva stare davvero male. Qualcosa si era rotto dentro di lei, non le importava più di nulla: esporsi, accusarsi, umiliarsi… Non sembrava più lei.

Avrebbe ucciso Fersen. Lo avrebbe ucciso.

“Il fatto che lui abbia continuato a vederla non significa che non abbia provato niente per te,” provò a ribattere, anche se si rendeva benissimo conto che lei non lo stava ascoltando. “Non sai neppure se lui abbia continuato a vederla, può anche darsi che ti stesse dicendo la verità. Non lo sai. E non basare il tuo giudizio di te stessa sulle mancanze che un altro ha verso di te. Tu sei una donna meravigliosa, Oscar...”

Ad un tratto lei si voltò verso di lui e lo squadrò fissamente. Gli occhi arrossati le facevano sembrare le iridi quasi verdi, un verde scuro, come la lama del coltello di una fata.

“Che cosa devo fare adesso? Cosa devo fare, André?”

Cosa devi fare? E perché me lo chiedi? Lo sai già cosa dovresti fare. Dovresti mandarlo al diavolo e dimenticarti di lui. Andare avanti, trovare la tua felicità in qualcuno che ti meriti, qualcuno che ti rispetti. Ma non lo farai, non ci riuscirai, perché lo ami. Lui ti cercherà e tu ti lascerai trovare, oppure sarai tu stessa a cercarlo. E ti lascerai far male, ancora, e piangerai, ancora, e io soffrirò ancora come un cane... ma tu non vuoi davvero che ti risponda, giusto, Oscar? E allora, ti prego, facciamo di nuovo a gara a stare zitti. Perché hai ricominciato a parlarmi?

Fu lei a interrompere il silenzio: “Non voglio vederlo. Se vado a corte, domani, lo rivedrò. Non voglio, non ce la faccio. Ma non è questo che mi preoccupa adesso,” mormorò, e si alzò, barcollando. Sfilò a malincuore la mano dalle sue e si diresse verso l’armadietto in cui erano riposti i liquori, da cui prelevò una bottiglia di chartreuse. Ne seccò due bicchieri di fila, con gesti tremanti e affannosi, da alcolista consumato in astinenza. Quanto aveva bevuto ultimamente? “No, non è questo che mi preoccupa. Dovrò incontrare la regina, domani, e cosa le dirò? Non so cosa pensa di me, cosa mi dirà, cosa farà... eppure dovrò parlarle, sì, succederà per forza,” commentò sconsolata, la voce già un po’ impastata.

Dovrai parlare con la regina, e giuro che non ti invidio. E dovrai parlare con lui. Ti lascerà perdere o cercherà di riconquistarti? E tu glielo lascerai fare? E noi, Oscar, di noi cosa vuoi farne?

“Non devi farlo per forza domani,” le rispose calmo, ancora seduto davanti al camino. “Posso mandare un messaggio a Versailles per dire che ti senti poco bene. Credo che tu possa permetterti qualche giorno di riposo.”

“Hai ragione. Penso che farò così.”

Non riusciva a capire, in realtà, come ce la facesse a interagire con lei in un modo tanto tranquillo, quasi distaccato. Forse contribuiva a aiutarlo la spaventosa irrealtà della situazione: Oscar si stava confidando con lui sulle sue pene d’amore per un altro uomo. Per un attimo gli venne da ridere, riuscì a trattenersi a fatica. Probabilmente aveva oltrepassato la propria soglia del dolore in quei primi giorni dopo l’incidente: giorni trascorsi a rigirarsi nel letto con un occhio che pulsava come fuoco e la testa trapassata da fitte lancinanti, dentro la paura strangolata di diventare cieco, e intanto pensava a Oscar a letto con un altro, innamorata di un altro, e dimentica di lui. 

Ma sì, parlami pure. A cosa ti servo? A sfogarti. Ridimensioni ora dopo ora le mie mansioni: sono un servo molto versatile. Una cosa flessibile. E rimango qui a lasciartelo fare. Rimango qui, sono qui. Ma tu di me non ti accorgi, vero? Almeno quando ti scopavo me ne veniva un guadagno. Anche se devo ancora capire se tu durante il sesso dai davvero qualcosa.

In quel momento lo fulminò una domanda improvvisa: “Tu non ci vedi, vero, André?”

Il cuore gli mancò un battito. Sollevò di scatto la testa nel tentativo di metterla a fuoco: era seria, di una serietà mortale. Si sforzò di sorriderle, ma non poté impedire alla voce di uscire un po’ alterata, un po’ troppo frettolosa, una grottesca parodia della spensieratezza: “Ma no, non è vero! Perché dici così?”

Lei trangugiò un altro bicchiere. Due.

“È da un po’ che ti osservo,” gli spiegò con voce un po’ strascicata, fermandosi a scrutarlo con attenzione. “È inutile che menti. Se sei in un ambiente poco illuminato procedi a tentoni, e ti muovi con circospezione nei luoghi che non conosci, e poi sei più lento di riflessi... Quanto grave è?”

Lui non rispose, non sapeva cosa dire.

Lei crollò il capo e ricominciò a piangere: “Dio, Dio, è tutta colpa mia...”

“Non dire così, Oscar,” si affrettò a interromperla. Si alzò e le andò incontro, ma non osò toccarla se non per sfiorarle i capelli che le ricadevano su una spalla. “Io non mi sono pentito. Sono contento che non sia successo a te.”

“Sei andato da un medico?” lo interrogò, rifiutandosi di dargli retta.

“Sì, ci sono andato.”

“E che ti ha detto?”

“Che niente è sicuro.” Era più preparato, stavolta, e mentì con prontezza. “Forse si tratta solo di una fase di assestamento, di un affaticamento momentaneo. Va e viene. Non è così grave, Oscar.”

In quel momento lei lo sorprese, appoggiandosi sul suo petto per farsi abbracciare. Sembrava fragile fra le sue braccia. Era rilassata, e lui invece era così teso. Il cuore gli martellava e il suo profumo gli inondava le narici. Per fortuna era talmente nervoso da non poter concepire il minimo pensiero sensuale.

Chi è che sarebbe calmo, adesso?

“Tu dovresti odiarmi, André,” la sentì sussurrare, malinconica.

Non è vero che ti odio. Non deve essere la realtà, non lo voglio. Odio me stesso perché sono debole e non ho la forza di riuscire a sperare che tu possa essere felice con un altro, perché ti vorrei per me. E non ce la faccio a dimenticare quel poco che abbiamo avuto, non riesco a perdonarti per come mi hai trattato, anche se mi rendo conto che non intendevi farmi del male. È difficile, è così difficile… vorrei riuscire a volerti bene più di quanto ti ami. Soltanto così potremmo diventare qualcosa che riuscirei a sopportare, e potrei smettere di avere questi pensieri stupidi in cui ti getto addosso tutto il mio livore infantile. Ma non so se sono abbastanza forte.

Vorrei diventare abbastanza forte per te, perché tu meriti qualsiasi cosa.

“Non è vero che ti odio,” controbatté, incerto. “Dici così solo perché sei tu che ti odi, adesso.”

“Io mi odio, sì, hai ragione,” convenne lei, in un risolino. “Perché so di averti fatto male, e mi pare di non saper fare altro che fartene ancora. Farti male è la cosa che mi riesce meglio, oh sì, sono una stronza!” esclamò istrionica, come volesse fare un proclama, ma subito la bocca le si torse all’ingiù e gli occhi le si riempirono di lacrime. “Non sono nient’altro, e mi merito tutto…

“Sei ubriaca come una botte, ecco cosa sei,” sospirò lui fra l’esasperato e il preoccupato, mentre si chinava ad afferrare e sorreggere meglio il suo corpo vacillante, e un brivido lo attraversò al passarle la mano sulla schiena sudata. “Sei sfatta e predico che avrai bisogno di vomitare almeno tre volte prima di stare meglio: ecco quanto ti conosco, ormai!”

Cercava di farla ridere perché non ne poteva più di sentirla piangere.

“André, senti…

“Cosa?”

“Sono sbronza, quindi ho l’alibi per chiedertelo: resti con me stanotte? Ti prego, non voglio rimanere sola. Mi lasci sempre sola, ormai…

Il peggio che esista sei tu che mi dai speranza.

“Come desideri, Oscar. Posso sistemarmi sul divano.”

Cosa vuoi da me, cosa?

“Ti ringrazio.”

 

Restò a palazzo Jarjayes il giorno seguente, e quello successivo ancora. Mandò un messaggio a corte per scusarsi e riferire che purtroppo non si sentiva bene: avrebbe ripreso servizio presso le loro Maestà quanto prima. Avrebbe voluto lasciare Parigi per rifugiarsi a Arras, ma una fuga non avrebbe risolto nulla, neppure placato le sue ansie: la situazione insoluta che si sarebbe lasciata alle spalle non le avrebbe concesso pace. Meglio allora ritirarsi nel suo salottino, riposare in solitudine e cercare di ritrovare in sé le forze per affrontare il mondo esterno.

Passava le ore suonando il piano, leggendo quel che i classici avevano da dire sulla sua situazione (i Remedia amoris strappavano sempre qualche risata) e piangendo. A volte si affacciava alla finestra per ammirare la natura che, lentamente, a fatica, si risvegliava dal sonno invernale, e pensava a André, a come doveva apparirgli il mondo: i colori sfocati, dolorosi, i contorni indistinti e mangiati dal buio. André che non la cercava, mai: dopo la notte trascorsa sul sofà a tenerle compagnia era svanito e non si era più rifatto vivo.

Le mancava. Avrebbe voluto farlo chiamare, ma si tratteneva: voleva riuscire a trovare un limite al proprio egoismo.

Due volte Fersen si era presentato per chiedere sue notizie e domandare di essere ricevuto presso di lei, ma era sempre stato congedato con cortese fermezza: madamigella Oscar non si sentiva bene e non era in condizioni di incontrare nessuno; no, non c’erano delle comunicazioni specifiche per lui, né risposte ai suoi biglietti.

Il secondo giorno giunse anche un messo della regina, a informarsi delle sue condizioni di salute e a comunicarle che sua Maestà richiedeva con urgenza un incontro in privato non appena si fosse rimessa.

 

La regina era in piedi davanti a una finestra e guardava il parco. Era avvolta in una veste da camera di seta bianca, ricamata e guarnita da pizzi e inserti di tulle: lo stipendio di una vita di una piccola sartina di Parigi. Non c’era nessun altro nel salottino rivestito di damasco verde mela, vasto, sfarzoso sino all’eccesso, dove Maria Antonietta sembrava come sperduta. Tutti sapevano che rimpiangeva il Trianon, più di qualcuno ne gongolava.

Soffocando il nervosismo, Oscar si inginocchiò a pochi passi da lei, il capo chino.

“Maestà, mi avete fatto chiamare,” scandì con voce tersa da contralto. “Sono ai vostri ordini.”

La regina si volse verso di lei con un contegno rigido che tradiva una certa misura di disagio, ma il suo viso delicato esprimeva solo tristezza. “Colonnello, alzatevi, vi prego,” la incoraggiò con gentilezza, per poi prendere un sospiro, abbassare gli occhi e affrontare l’argomento di petto, schietta, come lei non sarebbe mai riuscita a fare: “Lui mi ha detto tutto. Oscar, perdonatemi: io non sapevo nulla.”

Quella capitolazione spontanea la fece render conto che, delle due, era lei la sola a dovere delle scuse. Perché lei, invece, aveva sempre saputo.

“No, perdonatemi voi, Maestà,” mormorò, chinando il capo.

“Perché mi chiedete perdono?” si stupì la regina, un tono che era tutto amarezza. “Io non ho diritti, in questa situazione. Non ne ho mai avuti. Io e lui non abbiamo mai potuto unirci, e ora… ora è come se niente fosse mai stato.”

La sofferenza di Maria Antonietta era palese: si rifletteva nella disillusione della sua voce, nelle parole che sottintendevano assieme accusa e rimpianto, nelle lacrime che non si era mai fatta problemi a versare e che anche adesso scorrevano a profusione lungo le sue guance. Oscar capì di averle fatto male, un male reso più acre dal fatto che sua Maestà si era sempre fidata di lei e non avrebbe mai pensato di dover parare un colpo da quella direzione. L’amore era fatto di tradimenti, ormai lo aveva capito, ma per l’amicizia non avrebbe dovuto essere così: aveva calpestato la stima che la regina le aveva tributato e questo misfatto, si rese conto, era irreparabile. Altro errore. Accecata dal sentimento per Fersen, non aveva tenuto in alcun conto il dolore che, con le proprie azioni, avrebbe causato alle persone verso cui avrebbe dovuto dimostrare rispetto e riguardo, quelle che la stimavano, la conoscevano e non l’avrebbero mai tradita. E ora… era tardi.

Il loro rapporto era intaccato, lo sentivano entrambe. Per un uomo che non sarebbe mai potuto appartenere a nessuna delle due.

E com’era assurdo fingere di essere rivali, adesso.

“I sentimenti che provate l’uno per l’altra vi uniscono, al di là delle convenzioni sociali e di qualsiasi altra persona,” riconobbe in un impulso di onestà, la fronte aggrottata, rendendo le armi in una capitolazione completa, la furia dell’autodistruzione nella voce. “Io mi rendo conto che non potrò ricevere perdono, per cui mi asterrò dal supplicarlo a oltranza: mi limito a riconoscere che ho mancato nei confronti di vostra Maestà e che i miei sentimenti non mi scusano. Se posso fare qualcosa per espiare… non esiterò. Tuttavia, quel che è successo dovrebbe farvi rendere conto di quello che lui prova per voi, come ha fatto capire a me che non avrei mai dovuto… intromettermi.”

La sua voce stentorea ebbe come un’eco nel silenzio assoluto della stanza.

Che situazione irreale: una regina e un colonnello che parlano di uomini… tolti tutti i vocaboli solenni, che non fanno che infiocchettare malamente una realtà triste e grottesca, alla fine non siamo in nulla diverse da due sguattere al mercato.

“La situazione è più complicata di così, Oscar, e voi dovreste saperlo” la corresse gentilmente Maria Antonietta, dopo una breve riflessione. “È inutile girarci attorno. La nostra storia è sempre stata impossibile: per questo decidemmo di porvi fine. Non è stato facile, non è stato... netto, come avete potuto constatare. Ma le fondamenta non sono cambiate. Non possono cambiare. Gli ho solo provocato infelicità, e non soltanto a lui, e questo… mi uccide di rimorso,” confessò la sovrana con voce soffocata. Oscar la osservò sedersi a un tavolinetto d’avorio, le mani in grembo, nervose, serrate, a cercare la forza di pronunciare il seguito. “Madamigella, vedete... Fersen mi ha rivelato che prova un sentimento per voi.” Oscar spalancò gli occhi: non se l’aspettava. “E si vede, sapete? Credetemi. Io lo vedo, e penso… che forse voi potreste dargli quello che io non ho potuto. Forse voi potreste... e io... lo vorrei, Oscar.”

Oscar fece fatica a reggere il suo sguardo: per la prima volta si sentì incommensurabilmente inferiore a Maria Antonietta. Provò vergogna per la propria debolezza, le proprie azioni e i propri stessi sentimenti. 

“Maestà, non saprei...” balbettò, stupita: si era attesa dolore e rimproveri, non aspettative. Le sembrava assurdo dover rispondere, assurdo anche solo tenerle in considerazione. Per un attimo, un impulso d’ira la invase: perché tutti si aspettavano qualcosa da lei, perché cercavano sempre di usarla? “Non so come andrà, non so nemmeno se...”   

Maria Antonietta stirò un sorriso riluttante, interrompendola: “Ammetto che non l’avrei mai pensato, Oscar. Sapevo che avevate un cuore grande, ma sbagliavo sulla persona a cui avevate deciso di donarlo.”

Anche lei.

Sia la regina che Fersen avevano creduto per chissà quanto tempo che fra lei e André ci fosse qualcosa. Perché? Si erano semplicemente accorti dell’amore di lui? O avevano visto qualcosa anche in lei? Che sia vero, che abbiano ragione? Mi lascio solo suggestionare? Eppure... Eppure aveva trovato rifugio in André, quando le era crollato tutto addosso; si era fatta accompagnare a casa da lui, gli aveva chiesto di rimanerle accanto. È naturale. Siamo amici. Ma non era vero: non erano amici. E la stessa notte in cui aveva visto Fersen e Maria Antonietta assieme, tornata a casa, davanti al camino, per un attimo graffiante aveva desiderato stringersi ad André, inarcarsi, baciarlo, e si era trattenuta. Aveva avuto paura di interpretare male i propri sentimenti: temeva che l’avrebbe usato per dimenticare, per fuggire o, peggio, per vendicarsi, e non voleva rischiare di fargli altri torti.

Era davvero in grado di pensare di poter amare André perché sapeva che lui l’amava e di non amare più Fersen solo perché l’aveva tradita?

Devo essere una persona dai sentimenti profondi.

“Il conte di Fersen vuole parlarvi, madamigella Oscar.”

Colta alla sprovvista, Oscar non riuscì a frenare un commento caustico: “Che me lo comunichiate voi, Maestà, sa di beffa. O di doppio schiaffo.”

Si sconvolse lei per prima: per la prima volta in pubblico non era stato l’uomo o il soldato a parlare, ma la donna. E una donna gelosa. Non era mai successo che, fra le due, non fosse Maria Antonietta a parerle la più infantile.

So dare ascolto solo alle parti più infime di me, ultimamente.

“Perdonate,” soggiunse immediatamente, chinando lo sguardo con le guance che le si imporporavano. “Non intendevo mancarvi di rispetto. Permettetemi di congedarmi, Maestà, ve ne prego. Potrete comunicarmi a suo tempo qualsiasi provvedimento vi sembri consono.”

Sua Maestà indurì lo sguardo, raddrizzò il busto con un movimento automatico e si fece improvvisamente regale, apprestandosi a tributarle l’onore di replicare con voce ferma e secca alle sue parole meschine: “Sento che buona parte della colpa di quanto è accaduto è mia, Oscar: ho ceduto alle mie debolezze, come mio costume, quando non avrei dovuto. Ci eravamo ripromessi di troncare la nostra relazione, ma in un attimo di scoramento io l’ho richiamato a me. Poco mi scusa che non sapessi di voi, Oscar: non avrei dovuto ugualmente. Per i miei figli, per la Francia, per mio marito. Gli ho ordinato di venire e lui è venuto. Che altro avrebbe potuto fare? È solo un uomo, in fondo... È bene che impariate come sono gli uomini, dato che avete deciso di volerne uno: sappiate che non potete pretendere troppo da loro. Le loro costanti mancanze rendono fragili, ma costringono a essere forti... essere forti solo per sopportarle,” decretò in un impeto, per poi chiudere gli occhi e riprendere con calma forzata. “So che ha cercato di incontrarvi in questi giorni e che voi lo avete respinto. Vi capisco. Colonnello, siete libera di fare quel che volete, di vivere come credete meglio: vi stimo ed ho sempre aspirato alla vostra amicizia, e desidero che sappiate che potrete contare sul mio appoggio, qualsiasi cosa scegliate. Ma decidete cosa fare dopo aver chiarito con lui ciò che è accaduto. Vi ordino, madamigella, di parlare con lui.”

E a un ordine di Maria Antonietta di Francia poteva essere data solo una risposta.

“Come desiderate, Maestà.”

 

Fine VIII parte

Sara mail to ultimegocce@hotmail.com


 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016

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