Inside -

Essere una donna

XIV - Epilogo

Warning!!!

 

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Dedicato a Laura, per il sostegno costante e perché in questo epilogo c’è molto Autunno, e chi ha orecchie per intendere intenda…

 

Non aveva capito subito che gli altri avevano ragione. Forse non si poteva neanche parlare di ‘avere ragione’, e la questione era troppo personale, privata e delicata per poter davvero pensare che qualcuno avesse compreso davvero come stavano le cose. Ma che lei, che era assieme oggetto e protagonista della vicenda, avesse capito molto meno di altri, questo la faceva ridere quando non la faceva disperare.

Sulle prime, tutto era stato confuso. Fu un brutto periodo, il più brutto della sua vita. Fersen l’aveva lasciata con tatto ma senza ripensamenti, dimostrando una tale efficacia e sollecitudine nel districarsi dalla loro storia e andare avanti da portarla a credere che quel risvolto negativo fosse stato un sollievo per lui, se non un banale fattore d’abitudine. Il suo nuovo impiego presso la Guardia cittadina si era dimostrato impegnativo, a tratti sfibrante: i compiti e i turni di sorveglianza erano pesanti, le responsabilità gravose e gli uomini non la accettavano; si era dovuta impegnare al massimo per ottenere anche solo una briciola di tolleranza concessa malvolentieri, e non senza rischiare a volte di rimetterci la vita. E André, André era scomparso.

La sera rientrava a casa fisicamente esausta, moralmente distrutta e col cuore a pezzi, rosa dalla fatica di essersi dovuta tenere in piedi tutto il giorno. Era una sofferenza confusa e onnipervasiva. Si sentiva tremendamente sola, inutile, inadeguata. Piangeva quasi ogni sera e a volte le era capitato di pensare che lo sforzo di trascinarsi avanti per la vita così, passo dopo passo, senza meta, non valesse la pena. Soffriva per Fersen. Per come l’aveva lasciata, perché non c’era più, perché in realtà non c’era mai stato. Soffriva perché non sarebbe mai stata un uomo e non era mai stata una donna. Soffriva perché aveva avuto il coraggio di sperare in un futuro diverso, per quanto non fosse mai riuscita a crederci davvero, e ora vedeva solo buio davanti a sé. Soffriva per quello che André le aveva fatto quella sera, per la disperazione di avergli detto di no e averlo sentito continuare lo stesso, perché si era fidata di lui eppure era successo. Soffriva perché sentiva, sapeva di esserselo meritato.

Era un groviglio nero di cui non vedeva la fine. 

Soprattutto, si sentiva sola. Dopo qualche tempo aveva preso l’abitudine, quando piangeva, di andare a rifugiarsi nella vecchia stanza di André; non ci rifletteva su, non si chiedeva il perché: era come una specie di istinto di sopravvivenza animale, che la spingeva a alzarsi dalla poltrona e abbandonare la bottiglia per trascinarsi lungo i corridoi bui fino alla sua camera, perché altrimenti non avrebbe saputo resistere alla tentazione di rovesciarsi giù dalla finestra per uccidere tutto quel dolore. In quel piccolo ambiente isolato, in un’oscurità densa ma familiare, si allungava sul letto su cui tanto spesso aveva riposato e scopato, si avvolgeva nelle lenzuola e nelle coperte logore e aspettava che l'odore della stoffa, la qualità densa del silenzio e la sensazione delle pareti che la circondavano calmassero la disperazione scura che rischiava di sopraffarla. Sulle prime non ci aveva pensato troppo su: questo rito era l’unica cosa che sapesse attutire la sua pena e lei vi si atteneva con diligenza, come se stesse inghiottendo una pastiglia prescrittale dal medico. Solo poco a poco cominciò a prendere coscienza del fatto che la matassa si sdipanava, che certi eventi amari lentamente retrocedevano, perdevano di attualità e di importanza, si avviavano a diventare ricordi, dolorosi, ma ricordi, mentre altri invece restavano e si inasprivano, si incancrenivano, suppuravano.

Così, mentre di Fersen a lungo andare restò solo l’umiliazione bruciante, Oscar fu costretta a accettare con stupore che André le aveva scavato dentro una fossa di disperazione. Le mancava, le mancava da morire. All’inizio, in verità, la sua assenza non le pesò più di tanto, anzi, ne ricavò sollievo: dopo quello che era successo fra loro sentiva che, in effetti, non sarebbe riuscita a reggerne la vista. Per un po’ si illuse che non avrebbe voluto rivederlo mai più. Ma, mano a mano che il tempo passava, che le ferite si cicatrizzavano in amarezza e i ricordi atroci regredivano e si disponevano in una narrazione complessiva che li spiegava, a volte perfino li giustificava, Oscar si rese conto che non riusciva ad accettare che André non fosse al suo fianco. Avrebbe dovuto essere lì. A volte addirittura dimenticava che se n’era andato e si voltava a cercarlo con l’idea di condividere un pensiero, bersagliarlo con una battuta, domandargli di scendere in cortile ad allenarsi con la spada, o anche solo per chiedergli di passarle un libro, ma non lo vedeva, e allora ricordava, e allora sentiva quanto sbagliata innaturale incolmabile fosse la sua assenza e una trafittura di solitudine e di autentico, viscerale bisogno le apriva il petto.

Iniziò a cercarlo con ferocia e accanimento, dissimulando però a tutti la sua urgenza, facendo credere a chiunque fosse disposto ad ascoltarla che la sua era una mera curiosità, una preoccupazione vaga e ingiustificata. Ma pareva sparito nel nulla. Persino sua nonna non sapeva niente di lui: la povera donna deperiva giorno dopo giorno in un’inutile attesa del suo ritorno, aggiungendo così un ulteriore tassello alla già elaborata costruzione del suo senso di colpa. Scomparso senza lasciare traccia: arrivò perfino a pensare che fosse morto, che potesse essersi ucciso per quel che le aveva fatto o che lei aveva fatto a lui, se ne sarebbe potuto discutere a lungo, e per un periodo diventò un’assidua frequentatrice degli obitori parigini: intere serate a scorrere file e file di cadaveri deformi senza sapere in cosa sperare. Almeno se avesse trovato il suo corpo avrebbe sentito di avere anche lei l'autorizzazione a uccidersi, e finalmente sarebbe finita. Ma nulla.

Poi, semplicemente, smise.

Smise di fare qualsiasi sforzo per ritrovarlo. Smise di fare qualsiasi cosa, tranne quel che doveva fare per sopravvivere, e cominciò a esistere solo di ricordi.

Pensava ad André, sempre e solo a lui, ma in maniera selettiva: la sua mente respingeva inconsciamente tutte le memorie relative al loro ultimo, disastroso periodo fatto di recriminazioni e disprezzo e sesso animale, ma non si soffermava neppure sulle prime settimane convulse, quelle in cui Fersen ancora non c’era e assieme erano stati amanti appassionati e disinibiti. No, lei pensava al prima. Alla loro infanzia, all’adolescenza, alla giovinezza. A prima che lei si incaponisse con Fersen con l'ostinazione cieca di chi cercava l’annientamento per non dover affrontare i propri problemi, per dissolvere la propria identità e non dover fare delle scelte. Ripensava a quelle giornate lontane che trascorrevano senza alcun senso di solitudine o mancanza perché c’era sempre lui, lì accanto a lei, e lei si sentiva completa, non le mancava nulla, stava perfettamente bene come potrebbe stare bene chi si stende su un prato per farsi accarezzare dalla brezza e inondare dal sole; ricordava tutte le sfide affrontate assieme, i pericoli sbaragliati fianco a fianco, le risate che bastavano a abbattere qualunque difficoltà, l’istinto di vicinanza che era naturale come respirare, la forza intricata e semplice custodita nella loro complicità e voglia di vivere. Ridipingeva e restaurava nella memoria quel periodo come l’affresco mutilo di un paradiso terrestre, un’età dell’oro perfetta e perduta che solo al rammentarla sapeva donare dolcezza e consolazione, e poteva passare ore a ricordare con un sorriso distratto sulle labbra.

Dovette riconoscere – e fu atroce – che Fersen aveva avuto ragione: probabilmente a quel tempo lei e André stavano assieme, senza esserne consci. E lei, lei era stata immensamente felice senza saperlo.

E dopo era successo qualcosa. Forse provare a rendersene consapevole, ad accettarlo e a viverlo sul serio, con tutte le responsabilità che avrebbe imposto, con la necessità di pensare al futuro, sarebbe stato troppo difficile per lei, perché le avrebbe richiesto di andare contro tutto quello che le era stato insegnato, contro suo padre, il suo mondo e la sua stessa vita; forse aveva sentito oscuramente fino a che punto sarebbe stato rischioso, arduo e doloroso e… e vero. E le era mancato il coraggio. Così, era scappata. Era letteralmente fuggita con mente e cuore fra le braccia di un altro, nelle spire di un amore comodamente impossibile, ma almeno concepibile e accettabile, senza quasi lasciare traccia di quella ragazza impaurita e autentica, fragile e acerba, che avrebbe potuto germogliare in una vera donna.

E aveva rovinato tutto, dall’inizio alla fine.

 

Quando lo incontrò non se lo aspettava per niente. Era una calda sera di inizio giugno, il sole ancora alto nel cielo, e lei si aggirava a cavallo per gli affollati vicoli di Parigi con la mezza idea di andare a trovare Rosalie, perché era da tanto ormai che non aveva più sue notizie. Per quanto si fosse tolta la giacca d’ordinanza e l’avesse riposta nella bisaccia dietro la sella, perché si era giunti al punto che non era più sicuro girare in uniforme da soli per le vie della capitale, il semplice fatto che il suo cavallo fosse di razza e ben equipaggiato stava attirando su di lei degli sguardi foschi. Non era passato troppo tempo da quando la sua carrozza era stata assalita da una banda armata di bastoni e di spranghe e lei era riuscita a scamparla solo grazie all’intervento tempestivo di Fersen (Fersen che si era dimostrato possibilista: si era ben guardata dal dare corda alle sue perenni oscillazioni), per cui ora non si sentiva tranquilla: il quartiere era povero e la gente incattivita dalla fame e dai soprusi.

Si accorse che si stava formando un capannello rumoroso a un lato della carreggiata, raccolto attorno a uno di quegli oratori improvvisati che era frequente incontrare in quelle zone a quei tempi. Afferrò qualche parola del concitato discorso, la regina austriaca, gli Stati Generali, le tasse, e decise di smontare da cavallo e avvicinarsi per capire meglio, quando qualcosa, un colore, una postura, un profumo familiare attirarono la sua attenzione. Pensò di essersi sbagliata e invece no, era proprio lui in piedi in mezzo a altri, che studiava calmo e attento il montare della protesta. Dovette appoggiarsi al fianco del cavallo perché per un attimo le mancarono le gambe e il cuore cominciò a batterle forte e veloce, come non ricordava le fosse mai successo prima se non sotto sforzo: per un istante temette di sentirsi male, ma dopo poco la vista le si snebbiò e le energie piano piano rifluirono in lei.

Lui non l’aveva scorta: la sua attenzione era fissa sul declamatore, che era montato su una cassa per farsi vedere meglio e aveva iniziato un’accesa polemica con qualcuno nel pubblico. Con calma cercò di chiedersi cosa fare. Andare da lui, salutarlo? In tutti questi anni probabilmente era sempre stato a pochi passi da lei: se avesse voluto vederla, avrebbe saputo trovarla. Forse non voleva avere più niente a che fare con lei, aveva tagliato i ponti ed era andato avanti. Avrebbe potuto allontanarsi con discrezione e non l’avrebbe vista. Ma voleva tanto sapere come stava… sentire la sua voce e essere guardata da lui, anche per poco, anche solo per una volta.

Si avvicinò lentamente e gli posò una mano su un braccio, chiamandolo esitante: “André…”

Sentì i muscoli contrarsi e sussultare sotto le sue dita; lui si voltò con uno scatto, fissandola con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, come se si fosse trovato davanti uno spettro.

“Oscar…” mormorò, soprappensiero. 

“Ciao André,” lo salutò, pallida, seria, stupendosi della propria voce ferma e pacata. “Mi… mi sembravi proprio tu.”

Dopo un iniziale momento di stupore, lui le sorrise con calore e il suo saluto fu affettuoso, anche se si vedeva che era impacciato, che non sapeva se poteva toccarla, se doveva porgerle la mano, se poteva abbracciarla, e finì che nessuno dei due fece un gesto verso l’altro: rimasero semplicemente lì, fermi, rigidi, a fissarsi con occhi grati e un po’ circospetti.

“Oscar, come sono contento di vederti! È… è passato tanto tempo…”

“Tanto, sì. Ma non ti vedo cambiato.”

“Tu sei dimagrita, invece, mi pare. Dio, Oscar, non… Dio, sono davvero contento!”

“Anch’io. Non ero sicura di avvicinarmi, all’inizio. Ma volevo tanto salutarti, sapere come stavi…”

“Hai fatto bene! Ma non rimaniamo qui in mezzo alla strada: vieni, andiamo a bere qualcosa. Conosco un posto qui vicino.”

“Sei sicuro? Il mio cavallo…”

È un posto sicuro, conosco l’oste. Potrai lasciare il tuo cavallo sul retro.”

Così lo seguì in un’osteria a due isolati di distanza, piccola, un po’ tetra ma stranamente non troppo sporca. Aveva detto il vero: appena entrarono, l’oste lo salutò con cordialità un po’ brusca e André condusse il suo cavallo sul retro con l’agio di chi è di casa e non deve chiedere né informazioni né permessi. Si sedettero ad un tavolo un po’ appartato e ordinarono due birre, come ai vecchi tempi, ma, trascorsi gli istanti di stupore iniziale, la conversazione stentò a partire: c’erano troppi ricordi, troppe cose che sapevano e non sapevano dell’altro, e tutti i discorsi sembravano sabbie mobili.

“Sono contenta di vedere che stai bene,” tentò Oscar, che voleva cercare di ottenere informazioni su quell’argomento. “Come va l’occhio?”

“Beh, ci vedo ancora, come puoi notare,” ironizzò lui, lo sguardo fisso intensamente su di lei. “Per adesso regge e spero che andrà avanti così.”

“E… riesci a…” balbettò, impacciata. Avrebbe voluto chiedergli se riusciva a mantenersi, se aveva bisogno di aiuto, ma non riusciva a trovare il modo per formulare la domanda con tatto. “Voglio dire, hai…”

“Me la cavo, Oscar, non ti preoccupare,” la tolse dagli impicci lui, dimostrando di essere ancora in grado di leggerla senza difficoltà.

Però, notò Oscar con una stretta al cuore, non sembra intenzionato a dirmi come si mantiene e dove abita.

“Io lavoro nella Guardia cittadina,” lo informò rapidamente, per togliere entrambi dall’imbarazzo e non farlo sentire troppo sotto pressione.

“Sì, lo so,” replicò lui, dedicandole un sorriso dolce e triste. “Un mio caro amico è arruolato nei soldati della Guardia sotto il tuo comando e mi parla spesso di te. Diciamo che non ti ho persa di vista in questi anni. So che sei un buon comandante.”

“Faccio del mio meglio,” si schermì, in difficoltà. “Non è un incarico facile, ma… mi piace. Rispetto a quando stavo nella Guardia reale mi sento molto più utile. Mi sembra di essere a contatto con i problemi veri, finalmente immersa nel mondo reale, nella storia. Certo, ci sono le controindicazioni. In verità, a te posso dirlo, diventa sempre più difficile capire da che parte stare. Non so se mi spiego.”

Lui continuava a guardarla con tenerezza profonda, facendola sentire sempre più a disagio.

“Sono certo che, quando arriverà il momento, saprai fare la tua scelta,” mormorò André con convinzione e passione, e il tono che usò fu così risoluto ed emozionato che il discorso cadde di nuovo perché Oscar non seppe trovare un modo di riportare il discorso su binari normali. Eppure le piaceva parlare con lui, percepiva l’intelligenza con cui la ascoltava e comprendeva e, nonostante l'imbarazzo, sentiva che fra loro permanevano ancora le vestigia di un’intesa profonda e duratura, che le era mancata e non aveva ricostruito con nessun altro.

Lo fissò di sottecchi: i capelli neri, l’occhio verde, le spalle robuste, le mani nervose. Non ricordava che fosse così bello. Per un attimo, in un lampo blasfemo, le tornarono alla mente alcune brevi sequenze dei loro amplessi, lui che le succhiava il capezzolo mentre lentamente la masturbava col pollice, lei che si riduceva a implorarlo per avere il suo cazzo col corpo imperlato di sudore per le sue carezze sfuggenti, la tenerezza caparbia e sapiente con cui le leccava il clitoride, come se fosse chino in preghiera. Scosse brevemente il capo, sforzandosi di scacciare quelle immagini, stupita perché da tanto il suo desiderio era latente: erano mesi che non si bagnava più. Non aveva avuto amanti dopo di lui; c’erano state alcune occasioni, negli anni, ma le aveva sempre evitate o sfuggite con un senso di nausea e noia assieme: non sapeva se ciò fosse dovuto al modo in cui si era servita del sesso come di uno strumento, prima con André e poi con Fersen, o se la causa andasse cercata nell'ultima disastrosa volta in cui lo aveva fatto con André, quella in cui lui le aveva stuprato il corpo perché lei gli aveva violentato l’anima, ma in fondo non le interessava troppo scoprirlo; sentiva che, al di là delle esigenze del suo involucro fisico, il suo cervello e il suo spirito non erano in grado di accettare che un altro uomo la toccasse, e andava bene così. Magari le era capitato di masturbarsi, aggrappandosi a fantasie informi o a ricordi deformi, ma ormai erano mesi che non faceva più neppure quello. I suoi cicli lunari erano scomparsi, la febbre la divorava ogni notte e aveva imparato a distinguere i colpi di tosse, a prevedere quando sarebbe arrivato quello che le avrebbe squassato il petto, costringendola a sputare le ultime sofferte gocce del poco sangue che ancora le restava. Il suo corpo era consumato, ormai, e le sue scarse energie erano votate soltanto a tirare avanti ancora per un po’: non aveva forze vitali per fare altro. Eppure, guardare André e volerlo fu un tutt’uno, e per un attimo provò qualcosa che aveva dimenticato, la sensazione inebriante di sentirsi viva.

André, con te io sento di vivere. Sento di vivere…   

Si accorse che lui si era aggrondato: stava fissando un punto sul tavolo e pareva tormentato da un'idea, un pensiero molesto. Del resto, ne avevano di brutti ricordi in comune, loro due. Per un attimo le dispiacque che le cose non potessero andare altrimenti che così, che non fosse possibile prescindere dall’impronta del male che si erano fatti e che ogni incontro presente e futuro fosse destinato a essere funestato dall’alone di quel peccato originale che era la loro vita.

“André, che cosa c’è?”

“Oscar, io… io vorrei domandarti scusa,” confessò lui a bruciapelo e lei capì subito a cosa si riferisse. “So di non averne il diritto. Non è qualcosa che possa essere condonato, ma voglio che tu sappia che… che non mi perdonerò mai finché vivo. Ti ho fatto una cosa atroce, io…”

“No, André, non dire così. Basta…” cercò di interromperlo, debolmente.

“Per tutti questi anni sono stato lontano da te quando avrei soltanto voluto cercarti per chiederti scusa. Ma non potevo, non lo meritavo. Ti avevo giurato che non avresti più dovuto sopportare la mia vista. Potevo solo sperare che tu stessi bene, nonostante tutto, e pregare di non aver rovinato la tua vita…”

“Tu non hai rovinato un bel niente,” lo bloccò, perentoria. “Niente che non avessi già fatto a pezzi io prima. Non prendiamoci in giro, André. Se vuoi il mio perdono, io te lo dono di tutto cuore…”

Lui risollevò il capo e la fissò stupito, balbettando: “Ma non puoi… non posso… quello che io ti ho fatto è imperdonabile, Oscar.”

“E quello che ti ho fatto io? Quello è perdonabile?” gli ritorse contro con un sorriso amaro e beffardo, facendo ruotare la birra nel boccale. “È inutile stare qui a fare il conto dei rispettivi torti, perché, diciamolo, io ti ho fatto ben di peggio e sono io quella che ora spera sinceramente, ardentemente di non averti rovinato la vita.”

Rimasero in silenzio per un po’, entrambi schiacciati dal peso di colpe, ricordi e dolore. Alla fine fu lui a trovare il coraggio di chiederle in un mormorio, senza guardarla negli occhi: “E adesso stai con qualcuno, Oscar?”

“No. No,” ripeté lei in un sussurro senza fiato. “E tu?”

“Io…” cominciò lui, e quella breve esitazione le fece morire il cuore nel petto. “Io sto per sposarmi, Oscar.”

Devo dire qualcosa. Devo assolutamente dire qualcosa, qualsiasi cosa…

“Veramente?” replicò con voce forzatamente gaia, un sorriso stirato sulle labbra pallide. “Sono… sono davvero contenta, André. Tu non hai idea di quanto io sia sollevata. E come si chiama lei? Te lo posso chiedere?”

“Si chiama Diane,” la informò, lontano mille miglia da lei. “È molto giovane. È la sorella di…”

Basta, per favore, non voglio sentire altro.

“Sono contenta, André,” si intromise, incapace di farsi venire in mente altro da aggiungere. “Sono davvero contenta per te. Per voi,” si corresse, con un certo sforzo. E si rese conto che, in un certo senso, era vero.

Dopo questo non trovarono molto altro da dirsi. Finirono le birre in silenzio, oppressi dalla distanza che si era creata fra loro, da quanto lontano e invalicabile fosse il passato, con il suo carico di ricordi tristi e belli. Pagarono la consumazione, ciascuno la propria, recuperarono il cavallo di Oscar e uscirono che ormai era sceso il crepuscolo, l’aria si era rinfrescata e le prime luci iniziavano a comparire nelle case.

“Bene,” esordì Oscar, rigidamente. “Sono stata contenta di vederti. Mi… mi piacerebbe incontrarti di nuovo, magari, qualche volta. Se per te non è un disturbo.”

“Anche a me farebbe piacere, Oscar,” la rassicurò lui, la voce un po’ strana, ma siccome era sceso il buio lei non riuscì a interpretare l’espressione del suo volto in ombra.

“E per favore, vieni a trovare tua nonna. Soffre tanto la tua mancanza. Se vuoi puoi passare quando io sono di turno in caserma.”

“No, non è necessario… Verrò.”

Calò un silenzio lungo e pesante.

E adesso? Avanti, Oscar. Coraggio.

“Bene, io devo andare a casa,” affermò incerta, stringendo le briglie. “Abbi cura di te…”

“Oscar, aspetta!” la interruppe André con tono precipitoso, tremante, e le parve che avesse il fiatone. Il cuore iniziò a batterle forte. “Oscar, devo dirti… devo dirti che i miei sentimenti non sono cambiati. I miei sentimenti per te. Ti prego, se tu… se per te è cambiato qualcosa, Oscar…”

Per un attimo le mancò la terra da sotto i piedi. Ma fu un attimo.

“No, André. Davvero, no,” replicò con dolcezza, frenando le lacrime. “Tu lo sai come stanno le cose… te l’ho già detto. Non è cambiato niente per me. Io ti voglio tanto bene, davvero tanto, ma non ti amo, non ci riesco. Non posso cambiare i miei sentimenti, mi dispiace. Per favore, prosegui per la tua strada e non… non pensare più a me.”

“Va bene, Oscar. Ho capito,” lo udì mormorare, e il suo tono per poco non le fece mutare idea, per poco non gli disse che no, non era vero, mentiva. Ma si trattenne. “Mi dispiace se ti ho importunato di nuovo.”

“Se preferisci non vedermi più, André, io ti capisco.”

“No, Oscar. Davvero, avrei piacere a rincontrarti.”

“Bene, allora,” sospirò lei, senza riuscire a nascondere il sollievo. “Allora a presto, spero.”

“A presto, Oscar. Fai attenzione, mi raccomando.”

Montò a cavallo e si allontanò al trotto, trattenendosi dal voltarsi indietro perché comunque non sarebbe riuscita a distinguerlo nell’oscurità.

Almeno adesso che era lontana poteva piangere.

Costringerlo a lasciare la sua donna, a disonorarla e a disonorarsi, per cosa? Per me? Per una come me? So che lo farebbe, anche se non se lo perdonerebbe mai. Tenerlo con me per qualche mese e poi? Obbligarlo a guardarmi morire fra le sue braccia? Lasciarlo da solo a soffrire come un cane? Almeno così non sarà solo. Soffrirà lo stesso, certo, ma non sarà solo, e comunque sarà diverso: sarò il suo vecchio amore, la sua vecchia amica, il suo passato che definitivamente se ne va, e non l’ennesimo presente che si infrange.

Non posso rovinargli di nuovo la vita.

Dio, spero che lei sappia amarlo e prendersi cura di lui.

Almeno lo vedrò di nuovo. Due volte, forse anche tre, prima di andarmene. Mi basta, questo mi basta. Forse non sono diventata una donna, ma almeno posso morire sapendo di aver imparato ad amare.

Ed è già qualcosa.

 

Fine

 

Sara mail to ultimegocce@hotmail.com


 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2017

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