Lungo ritorno a casa

 

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Le mani sopra le orecchie, gli occhi chiusi, stertti con violenza, la bocca spalancata in un grido che è solo nella sua mente.

Vattene. Vattene André. Vatteneeeeeeeeeeeee.

Non sopporta lo strazio di lui.

 

André accasciato sulle ginocchia. Le braccia abbandonate lungo il busto che oscilla avanti e indietro.

Avanti e indietro.

Avanti e indietro.

E il viso rivolto verso l’alto. E il pianto, da quegli occhi, a bagnarlo.

E una frase detta come una litania. Con l’ossessione di chi non capisce più niente.

«Che cosa ho fatto

che cosa ho fatto

che cosa ho fatto».

 

Scappare. La Normandia. Il mare con l’orizzonte infinito. Non qui, dove ha di fronte l’annientamento di lui. No, ha bisogno di un orizzonte senza limiti.

Il mare.

E il mare l’accoglie. La riempie. La commuove.

Ma come ho fatto a ridurti così, André?

Mi dispiace, mi dispiace così tanto.

L’addio a Fersen, la violenza di André, non sono niente rispetto alla scoperta.

Di avere un tale potere su di lui e di averlo usato per annientarlo.

Non lo sapevo, André.

Non l’avevo capito.

E la tristezza è troppa perché  fuoriesca con le lacrime . E i suoi pensieri sono come sassi lanciati contro il suo cuore duro.

La incolpano.

E non ci possono essere lacrime per chi è così in colpa. Sono una consolazione che non merita.

Menomale che c’è il mare a essere l’acqua che non sono le sue lacrime. A sapere che lei non è colpevole. A essere la consolazione che lei non vuole.

 

Vuole vedere i suoi nuovi soldati. Un giorno prima perché non le mentano con una finta parata. Vuole fare l’appello.

Entra nella camerata. Odore di chiuso, di sudore, di piedi, di fumo, di vino pessimo.

Bene. Allora sono loro i miei soldati.

Va bene.

 

L’appello. Gli occhi si spalancano. André Grandier.

Ma come fai a essere ancora lì?

Vai André. Vai. Sei libero.

Vai via ti prego. Non voglio farti ancora del male.

 

«Fa’ come ti pare».

 

Adesso c’è un amico. Si chiama Alain e le piace molto. Anche perché con lui ogni tanto André sorride. Con lei ancora no. Ma non importa. Perché lui ogni tanto sorride.

E  allora non importano più la fatica di farsi accettare dai suoi soldati. Né i folli pensieri di suo padre.

André, io credo che non mi sposerò tanto presto.

E non importa se lui le si rivolge solo per motivi di servizio. «Agli ordini comandante». No, tutto  questo non importa. Perché quando lui sorride con Alain, Oscar può prendere il suo cavallo e correre lontano. Perché i suoi soldati non vedano che quella lacrima ora scende.

Benvenuto, Alain.

 

È come una smania. Non vuole perderlo d’occhio.

Oddio Oscar, non ti sembra un po’ fuori luogo, parlare di ‘perdere un occhio’?

Lo vuole sempre con sé nelle missioni. Gli chiede in continuazione se va tutto bene. A volte lo spia anche. Ha dei sospetti. Ma non vuole che siano reali. E li caccia sotto una coltre di mille altri pensieri, sperando che non ricompaiano.

 

A lui tutta questa premura fa tenerezza. A volte lei sembra una bambina, tanto gli gira attorno.

Una bambina? Ma Oscar non è mai stata una bambina.

Oddio quanto ti amo…

Vorrebbe parlarle, vorrebbe essere di nuovo lì quando vede i suoi pensieri inquieti. E in questi momenti sembrerebbe possibile.

Ma poi no… Ha troppa paura. È stato così orribile il male che le ha fatto. Quell’André non deve più venire fuori.

 

«André, vieni. Andiamo all’Opéra».

«Nooooooooooooo! Lasciatelo! Lui non è nobile!».

«Lasciatemi, il mio André è in pericolo!».

«Se le forze non mi fossero mancate….».

 

Anche adesso, così conciato, ti preoccupi per me. E mi dici che lui sta bene, che è tornato a casa sano e salvo.

Ma io lo merito tutto questo amore, André?

 

I turni di guardia li stanno massacrando. E dentro quella sala non succede niente. Non trovano l’accordo.

Fuori invece piove. E poi c’è un sole soffocante. Poi piove ancora.

Sono tutti a pezzi. Si chiede quanto reggeranno ancora i suoi soldati.

«Tenete duro ragazzi».

Anche lei non si sente bene. Ma ora non è il momento di stare male. Ci sono cose importanti in ballo in quella sala, a Parigi, in tutta la Francia.  E lei non può non essere presente.

E poi ci sono degli ordini assurdi cui bisogna disobbedire. Non può mollare adesso.

«Soldati, aprite tutte le porte dell’ingresso principale!».

«Era ora comandante!» e Alain le schiocca  un bel bacio sulla guancia (Prendendosi per contro una pedata nel sedere da parte di André: «Sbrigati, cretino»). Eh eh eh eh eh, quello scemo di un Alain trova sempre il modo di far star meglio tutti.

Povero, povero Alain… due insulti nel giro di una riga…

 

Ma ora sta troppo male. Il suo corpo è così stanco.Anche salire a cavallo le toglie il fiato.

«André, andiamo a casa oggi pomeriggio».

Adesso stanno bene insieme, ne sono consapevoli.

I cavalli procedono lenti. Oscar non se la sente di correre. E poi è una bella giornata finalmente. Il sole è un sole buono. E il cielo è azzurro.

«André fermiamoci un po’ qui».

Devo riposare.

È bello qui. Dietro agli alberi c’è un prato che scende lentamente verso il fiume. Ci sono andati spesso da ragazzi.

Oscar scende da cavallo con movimenti pacati. Non vuole che si accorga del sudore sul viso, delle mani che tremano.

E insieme vanno a sdraiarsi lungo il fiume.

 

Via la giacca, via la camicia, via gli stivali. André si tuffa nel fiume. E ne riemerge sorridendo, scintillante di acqua e di sole. La sua bellezza la abbaglia.

«Dai Oscar, vieni!».

No, non viene, però si toglie la giacca e lo guarda sorridendo. E lui torna a sdraiarsi vicino a lei.

«Ahhhhh… come si sta bene Oscar».

Si stira, mette le  mani dietro la testa. Lo sguardo al cielo, beato.

E lei lo guarda. E poi la sua mano si muove. Non è lei che la guida, si sposta da sola. E gli accarezza il viso. Una, due, tre volte. André scatta sui gomiti. Attonito. Le blocca la mano. Ma lei si libera e continua ad accarezzarlo. Sempre più intensamente. Come se il contatto fra le loro pelli possa bruciare. E le lacrime scendono insane. Sono tante queste lacrime, Oscar. E queste carezze fanno quasi male.

André si arrende a tutto questo.

Ti amo. Ti amo André . Ma non riesco a  dirtelo. Ti amo ti amo ti amo da morire. Ma non riesco a dirtelo. Perdonami, non riesco a dirtelo.

 

«Basta Oscar, basta… Shhhh… Stai tranquilla piccola mia…».

Questa volta André non si lascia fermare. L’avvolge con le braccia. E la culla.

«Shhhh… Va tutto bene piccola mia… Shhhh…».

 

La testa è ancora appoggiata al petto di André, gli occhi sono chiusi, le lacrime quasi secche, le braccia raccolte in posizione fetale. Sembra quasi che voglia dormire.

André parla piano. «Ehi… Cosa ne dici se adesso andiamo a casa e ci facciamo fare una bella cioccolata dalla nonna, eh?».

Oscar annuisce. Gli occhi ancora chiusi.

 

Sono davanti al palazzo.

Sanno che la serenità di poche ore prima è stato solo un momento raro che è stato loro concesso.

E sanno anche che la cioccolata era una scusa per costringersi a tornare a casa ed affrontare la bufera che li aspetta.

La nonna è sulla soglia, preoccupata come non l’hanno mai vista.

«Oscar, tuo padre ti vuole parlare». Loro si guardano. «Te la senti?». Oscar, di nuovo, annuisce.

 

«Stupida».

Il generale è contento che André l’abbia fermato. È contento che il messo abbia portato il perdono della Regina. Forse l’avrebbe uccisa veramente. Forse veramente  si sarebbe ammazzato dopo. L’unica cosa certa, ora, è la più assurda: ora il generale è  contento che André la voglia sposare.

Stupida…

 

Mentre è dalla Regina non riesce a fermare un attacco di tosse. E poi un altro ancora. È una crisi forte, fortissima. Non riesce a mascherarla. Tende però un braccio con la mano aperta. L’istinto è ancora, sempre, quello di proteggere Maria Antonietta. Non vuole che si preoccupi per lei. Non vuole che rischi il contagio.

Ma né quella mano tesa, né la disobbedienza , possono bloccare vent’anni di affetto.

La Regina la conosce, non chiama nessuno, aspetta che la tosse si plachi, la mano delicata sopra la schiena. Nessuna domanda, nessun consiglio. Un ordine fermo, da regina: «Sdraiatevi qua, Oscar».

E Oscar docile, si distende sul canapè di Maria Antonietta. «Avete la febbre alta, riposatevi un po’».

Ora il respiro è  regolare. I polmoni fanno ancora un po’ male. La testa pulsa. Sente un fresco piacevole sulla fronte. La Regina vi ha messo una pezza bagnata. Un flusso di pensieri e immagini le attraversano la mente. L’unica cosa ferma è la mano  di Maria Antonietta sopra la sua testa. Poi piano la coscienza ritorna , e formula un pensiero chiaro: lei ama moltissimo questa donna. Ma deve dirle addio. Non si può fare altrimenti.

 

Gli deve parlare. Perché non lo fa da tanto tempo. Perché glielo deve. Tutto quello che è accaduto è stato vissuto, ma non è  mai stato detto.

Lei è seduta davanti al fuoco. Lui le dà le spalle, accucciato a sistemare la legna.

«Eri così disperato. Quella sera. Eri così disperato. E io non potevo sopportare di vederti così».

Lui si volta e la guarda negli occhi. Frastornato. «Non ti ho mai chiesto scusa per quello che ti ho fatto».

«No André… Non ti scusare perché mi ami».

«Prendiamo i cavalli?»

 

Fuori è notte. Una notte di luglio. Con le stelle. Si fermano nel bosco e si siedono per terra, uno di fronte all’altra. Le schiene appoggiate agli alberi.

La mano di André accarezza il polpaccio di Oscar.

«Cosa farai Oscar se ci arriverà l’ordine di sparare alla folla?».

«Non posso più obbedire».

 

«Tu cosa farai, André?»

«Lo sai».

«Io voglio stare con te. Se combatterai con il popolo io starò con te».

Un sorriso che cresce dal cuore invade il volto di André.

«Oscar!».

«E dopo davvero mi sposerai?».

«Sì».

 

«Andréééééééééééééé!!!».

«Non avresti dovuto».

«Sola».

«Non avresti dovuto…».

 

La mano sul ventre indurito.

Tuo figlio.

 

 

Scritto a due mani, otto orecchie e tre code.


Il titolo è un omaggio ad Alice, a una sua canzone e al suo autore, Saro Cosentino. Penso che a loro volta (ma non ne sono sicura) volessero fare un omaggio a Peter Handke

pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2004

Fine

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