I just like you

part 9

 

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L'aria mite copriva la città al suo risveglio. A volte passeggiava sul lungofiume; gli serviva a tenere distanti i problemi, a concentrarsi solamente sulla piacevole sensazione di fresco sulla faccia dopo giorni e giorni di caldo.

Sarebbe piovuto di nuovo.

Altre volte, invece, i pensieri accompagnavano le sue passeggiate dandogli modo di riflettere su alcune considerazioni, recenti e passate.

Un modo in parte piacevole per fare autocritica.

Quando Oscar gli aveva detto di essere incinta, si era sentito sbalordito e incoraggiato immediatamente. Pensava al fatto che, forse, sarebbe riuscita a prendere le distanze dal quotidiano, dal lavoro, dai problemi gravi che avevano scelto insieme di affrontare e, magari, di risolvere, perché da sempre la loro occupazione era di lottare, perché erano abituati così. Meditava su una scelta di vita, sempre attiva, che non fosse, però, causata da grandi agitazioni, ricerche straordinarie, da lotte, tragedie e vite in pericolo. Aveva sognato, sia dormendo sia con gli occhi aperti, la sua Oscar alle prese con la maternità e le delicate implicazioni di quella condizione.

Ma non era così.

Ogni giorno, la osservava, preoccupandosi per lei, senza che si sentisse pressata da quelle che erano sue legittime apprensioni - da padre- e, mettere da parte il proprio modesto parere per vederla sbattersi nello schifo del suo incarico.

Dove trovava, Oscar, tutta quella forza…

Aveva pensato che, per un po’, lei avrebbe accantonato il suo proposito di voler salvare il mondo. Sorrise a ricordare la sua espressione quando, tutto stordito dalla notizia, gliel'aveva sussurrato tra le labbra.

 

Qualche giorno prima l'aveva osservata, mentre attraversava uno dei corridoi della caserma. Lui camminava poco distante e, lei, presa dai suoi pensieri, non si era accorta di niente. Si era fermata e con un gesto tutto naturale si era massaggiata la schiena.

"Oscar?" si era voltata e gli aveva sorriso, un po’ imbarazzata. Le aveva posato una mano intorno alla vita ed insieme si erano riparati da occhiate indiscrete sotto un archetto che apriva su un muro cieco.

"Che c'è?" le aveva sussurrato continuando a massaggiarle la schiena.

"Sono solo un po’ stanca, credo che me ne tornerò a casa…" gli aveva spostato dal viso alcune ciocche scompigliate. L'aveva abbracciata e lei si era lasciata stringere. Aveva chiuso gli occhi e sulla fronte le labbra di André.

Aveva meditato qualcosa in silenzio e, dal modo in cui lo stava stringendo, lui aveva intuito che si preparava a dirne qualcuna delle sue.

"… mi preferivi quando saltavo da un tetto all'altro a rincorrere terroristi sanguinari?"

"Qual è la differenza?", la fronte sulla sua "… non salti sui tetti perché non sei un'incosciente, ma tutto il resto continui a farlo allo stesso modo."

"Però, sono stanca, amore, io vorrei…" lo aveva stretto più forte premendo il viso sul petto. Le era venuta in mente un'idea fantastica, qualcosa che le aveva prospettato lui giorni prima, su cui aveva ironizzato rischiando di ferire, ancora una volta, André.

Voleva essere sua moglie.

"Cosa vorresti?" Le aveva sfiorato le labbra.

"Appena sarà possibile… noi… ci sposiamo, vero?" Stretta a lui, gli carezzava la schiena e, dentro di sé, sentiva una magnifica sensazione di pace.

"Sì", aveva risposto lui, semplicemente.

 

Adesso, allontanavano Oscar dal suo incarico. Questa davvero non ci voleva, come se tutti i problemi che si trovavano a risolvere fossero pochi. L'ombra del generale stavolta si faceva troppo grande e pericolosa per illudersi che sarebbe servito a qualcosa parlargli, farlo ragionare perché, e non era poco, non avrebbe sentito ragioni. Trasgredire alla regola in quel mondo costava caro. Rispetto, in quel mondo, non ce n'era. Aveva visto duelli tra nobili adducendo come motivazione l'onore, ma di quale onore parlava quella gente?

Di quale dignità parlava il generale?

Non si sfuggiva alla legge della vendetta evadendo in un'altra vendetta.

Loro parlavano di giustizia, di libertà.

Facile buttarla sul filosofico, ma l'uomo ha bisogno di fare congetture per capire. Da qualche tempo perdeva facilmente la pazienza, a volte per delle vere sciocchezze e tutto questo influiva negativamente sul suo equilibrio. Si era imposto di riconquistare la sua calma e, per quanto possibile, l'immaginazione.

Riaffioravano i ricordi e continuava a camminare seguendo con lo sguardo la scia luminosa dell'acqua. Si fermò un istante a controllare che non avesse superato il pontile dove aveva appuntamento con Alain.

 

Si era svegliato prima del solito e, mentre in cucina si preparava il caffè, lanciò una rapida occhiata intorno alla stanza.

Era solo, completamente solo, ma non era quella la constatazione che gli faceva male, piuttosto, l'emozione di un dettaglio fuggente, l'idea di veder appagate le sue aspettative nel sorriso di Juliette, di tornare a casa e trovare lei ad accoglierlo.

Juliette: che ossessione era diventata per Alain.

Sarebbe stato bello parlarle e dirle ciò che provava, ma era solo un'illusione.

Da tutto ciò che lo circondava capiva che non c'era alcuna speranza per loro.

Poi, con quella differenza d'età… Juliette ne aveva otto più di lui e, certe volte, i suoi ventisei anni gli pesavano come un macigno.

Chiuse la porta e s'immerse per strada fiancheggiando la Senna. Si dedicò a prestare attenzione a tutti i dettagli della loro storia che aveva trascurati nel corso di quei giorni.

Aveva immaginato storie, geografie tra loro, ma non c'era scienza che poteva giustificarle.

Era un sogno come tanti, un sogno che si sarebbe diluito nella luce del giorno e, su di lui, sarebbe solo rimasto l'odore della notte.

Beata tentazione… quanto avrebbe voluto che i suoi pensieri fossero realtà, con lei.

 

"Non c'è soluzione…" continuava a ripetersi. E, mentre il suo cuore rincorreva la rassegnazione, sfiorandola, sentiva che aveva bisogno di illudersi ancora un altro po’.

 

Perché la vita è fatta di emozioni lievi, di momenti d'attesa, e di attimi che scivolano via senza che si riesca a dare loro il giusto peso.

 

"Se riuscissi a capire cosa voglio, troverei il modo per farlo sapere anche a te…" le aveva detto una sera, completamente sbronzo, perdendosi nell'immagine fluttuante del suo bellissimo volto chino sul suo che tentava di convincerlo a smettere di bere.

A Juliette s'era stretto il cuore a sentire quella frase. Aveva sorriso e, un po’ malinconica, gli aveva accarezzato i capelli. L'avrebbe accompagnato a casa e lui non avrebbe opposto resistenza; era talmente cotto da non rendersi conto che si stava facendo scortare da una donna. Juliette aveva ignorato gli sguardi attoniti dei suoi dipendenti mentre sorreggeva Alain da sotto le braccia e varcava la soglia della locanda

"Che stronzi!" aveva detto a mezza bocca mentre chiudeva la porta.

In quel momento si era resa conto che non era Alain ad essere perfetto, nonostante non fosse al meglio, ma l'istante. Era capitato per caso nella sua vita, nel momento in cui aveva deciso di chiamarsi fuori da qualsiasi coinvolgimento emotivo. Però, con quel tipo, non poteva farne a meno.

Le piaceva, perché?

Forse, perché anche lei aveva ancora delle speranze rimaste sopite negli spazi in cui la mente avrebbe dovuto trovare un equilibrio e soffermarsi solo sul presente.

Lungo la strada li aveva colti un temporale: quell'acqua propizia aveva riportato indietro Alain dal suo torpore etilico. Era stato come svegliarsi da un sogno e Alain, nel bene e nel male, si risvegliava sempre di pessimo umore.

"Che cazzo, piove!" si era staccato senza rendersi conto di stare tra le braccia di Juliette. Si era appoggiato contro un muro, sotto un balcone, e aveva sollevato lo sguardo un poco appannato "Julie?" aveva detto, confuso.

"Ti sto riaccompagnando a casa…" aveva risposto lei andando a ripararsi accanto a lui.

"Che? Vuoi scherzare! Spero." Aveva fatto Alain, voltandosi di scatto.

"Io, no…", aveva sorriso. Aveva uno sguardo limpido Juliette.

"Ho fatto la figura del coglione, vero?" aveva domandato con un'espressione tenera.

"Ho visto di peggio…" di rimando, lei, cercando di sciogliere l'imbarazzo di Alain.

"Adesso sto meglio, grazie. Casa tua è a pochi passi, se permetti, adesso tocca a me".

"Non importa… ci vediamo" aveva mormorato mentre si allontanava come inseguita da un fantasma.

 

Era così puerile, banale, reale…

Eppure crudele, opprimente, razionale…

Era così sbagliato desiderare?

Quando si trovava di fronte a lei, avrebbe voluto farle ascoltare i battiti impazziti del suo cuore, la sua gioia, ma non ci riusciva, e lei non l'avrebbe accettato.

Capiva invece che la sua presenza quasi la infastidiva e faceva di tutto per ferirlo. Tutto questo doveva bastargli per scacciarla dai suoi pensieri, a dargli la forza di guardare altrove.

 

"Ci sono così tante differenze tra di noi…" differenze cui aveva guardato sempre con rabbia, con paura.

 

Dal canto suo, Juliette, sapeva di ricoprire la posizione meno felice, perché aveva capito fin troppo bene il proprio cuore, aveva capito che ciò che provava per quel ragazzo non era semplice simpatia. Poi, la storia con suo marito… era sparito dalla circolazione qualche anno prima, lasciandola annegata in un mare di debiti contratti per il gioco d'azzardo.

L' avevano ritrovato morto a Marsiglia sotto un ponte, ammazzato con un colpo di pistola a distanza ravvicinata

Era riuscita a pagare tutti i debiti che lui aveva contratto senza dover vendere la locanda cui aveva dedicato se stessa. Un bel localino, discreto, frequentato da gente per bene e, spesso, Alain si chiedeva come diavolo avesse fatto un tipo come lui a capitare in un posto così a modo…

 

Si erano incontrati per caso.

Durante una ronda notturna, aveva visto sbucare da una stradina una figura agile che si muoveva con disinvoltura nonostante fosse buio, il buio di Parigi.

Indossava un mantello carta da zucchero, il cappuccio tirato sulla testa.

L'aveva seguita con disinvoltura e, di tanto in tanto, giocava a perderla di vista per il gusto di ritrovarla all'incrocio di qualche stradina.

Camminava ad occhi bassi e si era scontrata contro di lui mentre tirava fuori la chiave del portone di casa.

Si erano guardati per un attimo, avevano sorriso entrambi, e, poi, Alain era rimasto immobile davanti al portone che si richiudeva con lentezza.

Una domenica mattina aveva sentito l'esigenza di andare a rintanarsi da qualche parte, in qualche luogo che gli facesse sentire meno la sua solitudine, che lo avrebbe accolto con qualche buon odore concedendogli l'illusione che ogni cosa fosse preparata specificamente per lui.

Uno di fronte all'altra ed un guizzo negli occhi inconfondibile, un sorriso che non abbandona le labbra, le parole che mancano…

 

Non erano mai usciti assieme ma, sempre più spesso, Alain andava a trovare Juliette appena aveva un po’ di tempo a disposizione.

Durante quagli incontri falsamente casuali, Alain sentiva crescergli l'adrenalina dentro, come se si preparasse a qualcosa di proibito e proprio per quello eccitante.

A volte parlavano senza quasi respirare, altre, rimanevano in silenzio a guardare la Senna scorrere di fronte al suo locale, ad ascoltare il rumore dell'acqua infrangersi contro i pilastri del ponticello mentre sorseggiavano distrattamente del buon vino.

Juliette profumava di vaniglia, la pelle alabastrina che si stendeva morbida sul suo corpo sinuoso.

La cosa che lo preoccupava maggiormente era che non riusciva quasi mai a stanare il suo sguardo e, quando lo faceva, sembrava aggrapparsi al suo come un naufrago in mezzo al mare; lei, che sembrava leggergli dentro con quegli occhi chiari e limpidi.

Juliette lo guardava di nascosto perché aveva capito di aver cominciato a sentirlo dentro, che la sua anima combaciava alla perfezione con la propria. Il principio che aveva adottato per non soffrire più non era esattamente quello; parlare chiaro prima che tutto cominciasse a prendere una piega diversa dall'amicizia, ma non voleva ancora farlo.

 

All'improvviso, un giorno, mentre non c'era alcun motivo di dirlo, aveva preferito esordire con una cifra, piccola nell'infinità numerica, ma che per lei rappresentava una distanza, un limite di cui lui avrebbe dovuto prendere coscienza.

"Trentaquattro" e sorrise, lasciando Alain perplesso

"Cosa, trentaquattro, Juliette?"

"Ho trentaquattro anni, Alain" si sfiorò i capelli come a voler nascondere un pensiero.

Rimase un attimo in silenzio a guardarla dritto negli occhi.

"Io ne ho ventisei anche se spesso mi sembra di averne venti in più!" aggiunse con una strana espressione dipinta in volto. Non era sorpreso, anche se avrebbe scommesso che Juliette avesse la sua stessa età, ma compiaciuto.

"Tornerai a trovarmi anche domani?" fece lei tirando verso il basso un lembo del fazzoletto che Alain portava annodato al collo.

"Ma quanto male ti hanno fatto, Juliette?" le mormorò, mentre si perdeva a seguire il ciuffo ondulato che le copriva appena una guancia e che aveva nascosto, solo per un attimo, il sorriso.

L'aveva baciata cogliendola di sorpresa. Aveva risposto a quel bacio con tutta se stessa, come se dovesse morire l'attimo dopo.

"Sono innamorato, di te, Juliette."

"Non prenderti gioco di me, Alain…"

"Ma che dici, Julie!"

"No, tu cosa dici! Sei solo un ragazzo Alain, un ragazzo meraviglioso che merita molto più di me…"

"Invece sbagli! Sei tutto ciò che desidero… voglio te e le tue ragioni sono solo scuse, perché non vuoi accettare che anche tu mi vuoi…"

"Che cosa farai quando la nostra differenza d'età non sarà solo un dettaglio? Credi che non me lo sia chiesto? Credi che per me sia facile vivere questa storia… assurda?"

"Cos'ha di assurdo? E che significa differenza d'età? Sei annebbiata dai pregiudizi, dalla paura e non ti rendi conto dei miei sentimenti!"

"Sarei un'egoista e lo sai…"

"Cosa dovrei sapere? Dammi almeno una possibilità."

"Ti prego… non insistere, non farlo."

 

Non si erano rivisti più.

L'aveva cercata, disperato, ma ad un certo punto si era arreso.

Sentiva di aver interrotto un legame. Di sicuro aveva commesso alcuni errori con lei e, forse, ne stava commettendo ancora tirando in ballo l'orgoglio e barricandosi dietro il muro dell'indifferenza.

 

"L'incertezza mi corrode lo spirito e sapere che ti perderò per questo mi fa star male. Tutto accadrà quando io, ancora, penserò a te, quando fiduciosa sosterrò un'insana speranza, mentre tu mi apparirai distante e silenzioso. Forse voglio ancora soffrire, voglio ancora provare quell'assurdo senso di impotenza ed annullarmi nel vuoto del mio cuore…

 

Così, cominciava la lettera che aveva trovato una mattina sotto la porta di casa sua.

 

E' difficile prendere una decisione quando ho ancora bisogno di sentirti vicino a me. Non so se questo è amore, non so nemmeno che cosa mi spinge a desiderarti con tutta me stessa. C'è sempre un prezzo da pagare per ogni errore commesso. Io non so se in tutti i miei sbagli c'è una componente oscura che mi fa scontare una pena smisurata rispetto alla colpa. Sono certamente le mie emozioni, la mia incapacità a saper gestire le situazioni. Ho un forte bisogno d'amore e, nonostante ciò, non riesco a portarne nella mia vita. Se fossi una solitaria, non sentirei tanto forte la necessità di voler donare e ricevere. Ma può la delusione condurti ad una scelta sbagliata?Alla mia età, credo di non averlo ancora capito. In questo momento, nel silenzio della casa, penso alla vita che scorre là fuori. I colori, le voci, gli odori della strada che percorro ogni giorno sempre con la speranza che qualcosa cambi a mio favore. E' un strana malinconia quella che mi avvolge: un po’ mi fa sorridere, un po’ mi fa morire. Appena penso che il mio sognare mi allontana da te, comincio a spegnere ogni desiderio. Da quando ho subito la sconfitta ho spento ogni speranza in me. Non ho desiderato più e, forse, quell'assenza di sentimenti mi ha lasciato credere di aver raggiunto la serenità. All'improvviso sei arrivato tu e in un attimo hai riacceso un fuoco che credevo estinto. Da quel giorno, ogni giorno, ho cominciato a pensare a te. Eri nella mia mente anche quando credevo d'esserci solo io. Adesso ci sei ancora.

E' stato bello tutto ciò che ha segnato il nostro cammino, è bello poter sentire il calore della tua vicinanza, ma non posso farti questo… Sei giovane, tanto giovane per me…

In queste ore ho provato a dimenticare ciò che ci ha avvicinati e sto pensando alle conseguenze di ciò che accadrebbe se decidessi di lasciarmi andare…

Raggiungere uno stato di quiete apparente è come vedersi proiettati nel futuro più probabile che possibile. Ho pensato di non pensare, perché, la mia fervida immaginazione mi porta a vedere cose che, per quanto vorrei mie, non mi apparterranno mai. Guardare la punta dei piedi ed immaginare quale corpo sostengono…un pensiero che non ho mai dimenticato da quella sera che ci siamo incontrati per la prima volta.

Ti restituisco ai tuoi anni, mentre io lascerò scorrere i miei.

Non ti dimenticherò mai.

Tua Juliette "

 

Era rimasto sospeso qualcosa tra quelle pagine chiare dalla scrittura fitta ed ordinata. Non poteva cancellare il suo nome.

Il ricordo delle sue labbra continuava ad alimentare quel fuoco che sentiva dentro e che non avrebbe lasciato corrompere dalla rabbia. Stavolta non avrebbe mollato senza cercare di capire, confondendo i pretesti di lei con le sue ragioni, non l'avrebbe gettata via con le sue stesse mani.

Sollevò lo sguardo ed intravide André seduto sulla panchina.

 

                                                                                               §

 

Soffiava una brezza dolce che smorzava appena un po’ l'afa di luglio.

Si affacciò alla finestra lasciando che il vento le asciugasse i capelli, gli occhi chiusi.

Le urla vivaci di alcuni bambini attrassero la sua attenzione e si fermò a guardarli giocare a lungo; di tanto in tanto sorrideva.

Pensò che fosse davvero una fortuna riuscire a vederne qualcuno ancora sorridente che, nonostante i crampi della fame, riuscisse a trovare lo spirito per giocare fino al tramonto. Giocare alla guerra, dove vincere significava conquistare un bottino che consisteva in piccoli oggetti che per loro rappresentavano dei giocattoli.

Ma sul finire del giorno, quando l'energia viene meno, a tutti sarebbe piaciuto poter tornare a casa e trovare qualcosa con cui sfamarsi.

Fame, miseria e disperazione, ecco cosa li avrebbe attesi. In città un esercito da mantenere, a Versailles lunghi tavoli imbanditi di prelibatezze che avrebbero potuto levare la fame ad un intero quartiere di Parigi.

Ma che mondo era quello?

Che cosa faceva la sua Regina?

Ripensò al loro ultimo incontro. Le aveva chiesto di ritirare le truppe, l'aveva implorata di ragionare, in ginocchio. Aveva pensato al suo bambino, aveva pensato che non avrebbe mai accettato di vederlo crescere nei vicoli pieni di bordelli ed osterie, e lì, davanti a lei, una donna che avrebbe potuto cambiare le sorti del suo paese, della sua stessa vita, vuota. Prenderne atto le aveva fatto male. Che cosa avrebbe potuto fare di più? In tutti gli anni in cui aveva prestato servizio a Versailles le era stata vicina, onestamente, nutrendo nel profondo la speranza che qualcosa o qualcuno potesse aiutarla a comprendere la grandezza del suo potere. Ma si era persa tra scandali ed amori, tra lacrime e sorrisi vuoti.

Oscar si ritenne fortunata.

Un pomeriggio d'inverno con la luce accecante di un sole morente, per la prima volta si era sentita inutile. Aveva scoperto André, osservando le circostanze al di là della vita quotidiana. 

Sì, dopo tanti anni, lui le aveva messo davanti agli occhi quella parte di se stesso che le aveva tenuto nascosta. Inizialmente aveva frainteso il senso del suo discorso percependolo più come un rimprovero. Ma le stava suggerendo di modificare la mira il prima possibile prima di ritrovare se stessa in confini ristretti che aveva creato inconsapevolmente e che non avrebbe saputo varcare più.

Le aveva chiesto scusa e lei si era sentita morire.

Se inizialmente aveva sentito di dover risarcire il suo André per quell'amore totale ed incondizionato, adesso, sentiva che aveva il bisogno di corrisponderlo, perché sapeva di essere proprio come lui.

 

"Rinuncio al mio titolo e grado, Maestà… ma non mi prenderò la briga di dirvelo, perché non capireste la mia scelta. Se vi dicessi che lo faccio per amore, forse scorgerei nel vostro sguardo quella scintilla di passione che si è estinta giorno dopo giorno, figlio dopo figlio. E se vi dicessi che lo faccio per amore di un uomo che non è di nobili natali, allora, troverei la fiamma dell'odio a divorarvi le pupille, ascolterei la vostra voce gridare: tradimento!

Il popolo non doveva essere vostro servo, ma alleato, Maria Antonietta. Ciascuna di noi andrà incontro al proprio destino e nessuna delle due si guarderà indietro. Anch'io spero di rivedervi, Maestà. Sebbene non nutrirò il mio futuro di inutili rimpianti, mi piacerebbe pensare al passato e trovare il vostro volto sorridente, come nei giorni della nostra giovinezza, quando voi eravate una ragazza fresca, bella e piena di aspettative per il futuro, ed io una ragazza già stanca di dover essere quella che per fortuna non sono mai diventata."

 

 

Concetti che i suoi pensieri avevano considerato a lungo in quei mesi, che trafficavano inesorabili nella mente e quasi sentiva la necessità di lasciarli andare lontano. Ad un tratto tutto si era fatto più nitido e le sembrava un reato cercare di nascondere a se stessa la verità cocente cui era giunta. In fondo al cuore aveva desiderato che suo padre comprendesse, che la ripagasse di tutto con un semplice gesto; il suo consenso a lasciarle vivere la vita che adesso desiderava.

Si sentiva sola, presa dalla solitudine che assale nei momenti in cui tutto dà motivo di credere il contrario. Un vuoto dettato dalla freddezza con cui la sua famiglia l'aveva trattata, la totale indifferenza a tutti i suoi cambiamenti. Era lampante come il sole che aspettava un figlio, ma nessuno pareva posare lo sguardo su di lei tanto a lungo da cogliere quella differenza.

La chiave nella toppa finalmente la strappò a quella solitudine e si lasciò accarezzare dalla voce di André che la chiamava. Oscar, i piedi nudi sul pavimento, camminava per la stanza assieme al lieve ondeggiare della vestaglia leggera e morbida

"Sono quasi pronta, André" disse, mentre apriva l'anta dell'armadio.

"Aspetta…" disse a voce bassa. Si avvicinò a lei "… così sei bellissima, amore mio". La baciò intensamente.

"Amore…"rispose, senza fiato" hai detto che ci aspettano…" Aggiunse, per niente convinta.

Caddero sul letto, Oscar si portò sopra di lui bloccandogli le mani ai lati dei fianchi, in quel movimento si aprì la vestaglia che mostrò i suoi seni. Si sollevò appena e cominciò a baciarli con una lentezza esasperante e sentiva le dita di lei stringergli i polsi.

Su di sé, ammirava quel corpo di donna magnifico, rigoglioso e teso.

Sentiva che lo stava amando con tutta se stessa.

"Ti mangerei…" gli sussurrò sfiorandogli la bocca.

                                                                                         ***

 

Michel era pensieroso. Teneva il bicchiere tra le mani e lo fissava aspettando di vederci chissà che.

Ormai faceva parte del gruppo e aveva conquistato la fiducia di tutti, in modo particolare quella di André, ed era diventato bravo quasi quanto lui a fare indagini.

Bevve tutto d'un fiato, esitò ancora un attimo e, poi, chiamò André in disparte.

"Ti devo parlare di una cosa" fece, indicandogli l'uscita.

Si allontanarono di qualche metro dal loro ritrovo in perfetto silenzio. Poi, appena voltato l'angolo, Michel imbroccò un budello che dava sui muri di una palazzina abbandonata. Sedette sugli scalini e tirò un respiro profondo. André rimase in piedi con la schiena poggiata al muro e le braccia incrociate sul petto, in attesa che Michel si decidesse a parlare.

"Tempo fa, mi dicesti di conoscere il tipo che aveva torturato Valérie" disse con la testa bassa.

Furono le sue prime parole.

"Sì, per un certo periodo ha fatto parte della Guardia reale"

"Sai, quando ritrovi la libertà e ti rendi conto che ne hai davvero tanta a disposizione passi le serate a vagare da un'osteria all'altra…" sollevò lo sguardo"… e fai un sacco di conoscenze interessanti".

A quel punto André pensò bene di sedere pure lui, immaginava che quella conversazione sarebbe stata piuttosto lunga e complicata.

"Ieri, sono andato a trovarlo. Abita al Marais, in un appartamento al di sopra dei suoi mezzi, almeno per quanto lo conosco".

"E tu, non credi sia frutto di un'improvvisa eredità".

"Infatti, non lo è".

"Come hai fatto ad entrare?" chiese incuriosito André.

"Diciamo che non ho atteso il maggiordomo…" fece con un'espressione da vero furfante.

"… ho visto dei garzoni che trasportavano ceste colme di cibi, ho dato una moneta ad uno e mi ha detto che dovevano consegnarle a Monsieur Fouché".

"Ha cambiato identità?"

"Con te non c'è gusto!" rise Michel. " Si è lasciato crescere la barba e veste di seta".

Aveva atteso che restasse da solo. C'era il sarto che gli prendeva le misure per un abito che avrebbe dovuto indossare ad un ricevimento importante. Intanto, nascosto dietro una pesante cortina nel corridoio, Michel aveva lasciato scorrere il serramanico e, per ingannare l'attesa, giocherellava a tenerlo in equilibrio sui polpastrelli.

Aspettò che il sarto lasciasse la stanza col suo seguito di assistenti eunuchi, poi bussò alla porta.

Monsieur Fouché non face in tempo a chiedere chi fosse che sentì la lama del coltello di Michel sfiorargli la gola.

"Ti trovo bene, Armand!" fece Michel scostandosi un po’ per consentirgli di farsi guardare in faccia.

"Chi siete… vi sbagliate! Io sono monsieur Albert Fouché!" rispose l'uomo con la voce strozzata.

"Oh, allora scusate! Sapete, somigliate ad un vecchio compagno d'armi, un bastardo che si divertiva a fare a pezzi gente indifesa, giù alla torre" sibilò Michel mentre affondava di un altro po’ la lama.

Il colorito dell'uomo cominciò a diventare livido.

Allentò la presa sul collo tanto da permettergli di respirare anche se stava prendendo forma in lui la necessità di ammazzarlo. Ma sapeva che non ci sarebbe riuscito, aveva bisogno di sapere, di capire il perché. Lo fece sedere alla poltrona senza allontanare il pugnale dalla gola. Sedette pure lui sul pregiato tavolino rococò facendo cadere le porcellane che lo arricchivano. Lo guardava con un'espressione fredda e impassibile, pronto ad agire alla prima mossa falsa.

"Sei sempre il solito selvaggio" biascicò l'uomo, mentre traeva dei larghi respiri. Guardò, sconsolato, i preziosi in cocci.

"Vedo che ti è tornata la memoria".

"Come hai fatto a trovarmi?"

"Uno stupido come te lascia sempre delle tracce in giro".

"Che cosa vuoi da me?"

"Informazioni - e devi essere preciso…"

L'uomo non ci mise molto a farsi convincere, del resto il carattere non l'aiutava. Era schiavo della corruzione, un delatore con le spalle coperte, uno che voleva il male del prossimo e quando poteva dare il suo contributo ci metteva tutto se stesso.

Iniziò a dire che, da qualche tempo, alcuni uomini molto influenti nelle sfera politica del paese stavano progettando di destituire gli attuali regnanti. Non era certo una novità: altri, prima e contemporaneamente a loro, avevano in mente il medesimo scopo. Sotto la tutela della casa reale, dunque, era stato organizzato un piccolo esercito, cinquecento uomini all'incirca, che si sarebbe occupato di mansioni di polizia segreta. Attraverso una fitta rete di infiltrati avrebbero monitorato costantemente i cittadini e così eventuali cospiratori.

Erano cominciati gli attentati e le esplosioni nei quartieri in cui c'era una fervente attività politica erano all'ordine del giorno. La guardia metropolitana metteva in stato di fermo centinaia di indiziati ma presto si scopriva che non erano quelli i responsabili.

All'inizio era filato tutto liscio nell'ambito dell'organizzazione, però, quando erano cominciati gli arresti insensati e le conseguenti torture, alcuni membri del gruppo avevano chiesto di essere destinati ad altro incarico. Invece, chi dava le dimissioni, si ritrovava a sua volta imprigionato e giustiziato senza processo. Le cose giravano per il verso giusto e quell'armata del terrore non incontrava ostacoli, fino a quando un articolo su un giornale molto apprezzato dal popolo non aveva denunciato la cosa. A quel punto il re si era chiamato fuori da qualsiasi responsabilità, giustificando ufficialmente quella scelta con la mancanza di fondi. Era stato incaricato ad interim il generale Bouillé, affinché provvedesse alla demolizione della torre e a far sparire le tracce. Nel frattempo era stata posta una taglia su Michel Bouvet, il disertore che aveva aiutato a far fuggire la prigioniera politica, Valérie Malin; le ricerche erano proseguite per tutto febbraio e gli inizi di marzo, ma i due sembravano svaniti nel nulla.

A quel punto, il generale Bouillé aveva pensato di rinunciare, però, un certo comandante della Guardia metropolitana inizia ad indagare sugli strani spostamenti alla torre. Temendo che quel comandante non avrebbe mollato fino a quando non avesse chiarito la faccenda, aveva iniziato ad avere paura.

"Oscar, ha sentito chiaramente la conversazione tra Bouillé ed i suoi sottoposti: parlavano di fuga di notizie e di mettere sotto torchio le truppe" disse André cercando di trovare un filo logico.

"Credo si riferissero alle truppe della torre".

"Quindi l'allontanamento di Oscar è solo una coincidenza?"

"Più che coincidenza, direi cautela. Per stanziare quell'esercito hanno chiesto prestiti a persone molto influenti in cambio di armi e immunità. Tu sai chi si occupa degli acquisti militari, vero André?"

"Il generale Jarjayes!" esclamò.

"Ho preferito parlarne prima con te…"

"Grazie, Michel…" fece una pausa "… ma non posso nasconderle una cosa del genere".

"Lui, però non c'entra niente. Ha solo negoziato l'acquisto di commesse regolarmente firmate dal Re".

"E' stato tirato in mezzo…"

"Proprio così, a questo punto credo che Jarjayes abbia scoperto qualcosa e che abbia fatto allontanare Oscar di proposito per proteggerla".

"Già…" fece André, cercando di non tradire il suo disappunto, "…tipico di lui prendere decisioni per Oscar".

Michel non aggiunse niente, comprese che in quel momento André aveva bisogno di riordinare le idee.

Si alzò e fece qualche passo avanzando sull'apertura del vicolo. Fissò la strada deserta. Il silenzio coperto, di tanto in tanto, dall'abbaiare lontano di cani. Lasciò andare un respiro e, passandosi una mano tra i capelli, ritornò da Michel.

"Armand che ruolo ha?" disse, col suo solito spirito pratico.

"E' il faccendiere di Bouillé".

"Come l' hai convinto a farti dare queste informazioni?"

"Che l'avrei fatto diventare il sostituto di Farinelli…" *

"Gesù… ma, l' hai lasciato andare?"

"Non scapperà e nemmeno dirà una parola".

"Temo a chiedere…"

"Quando sono piombato in camera stava leggendo una lettera d'amore piuttosto spinta. Il mittente è un certa contessa Amélie Bérénice de Bouillé, e moglie del noto generale" aggiunse Michel mostrandogli la lettera.

"Oh cazzo!"

 

 

 

 

Una botola, nascosta in mezzo alle lapidi abbandonate del vecchio cimitero nei pressi di Versailles, ** immersa tra le sterpe essiccate dal sole estivo su una terra cui era stato succhiato tutto.

Il buco era profondo una decina di metri, talmente stretto che le larghe spalle di Alain avrebbero ricordato a lungo i lividi e le ecchimosi dello strisciare continuo contro quelle pareti scabre e fredde. La scia della lanterna illuminava appena il fondo e tutti sentivano che dovevano stare bene attenti a dove mettevano i piedi.

"Qua sotto è pieno di schifezze…" disse Michel, che si muoveva con estrema cautela appena dietro le spalle di Alain.

"Se vuoi ti tengo la mano…"

"Da uno a dieci, sei stronzo undici…"

Tipico loro beccarsi per ogni sciocchezza però, allo stesso tempo, sapevano di lavorare bene assieme.

Fino ad un mese prima avevano pattugliato allo sfinimento quella zona, l'avevano perquisita, scandagliata, frugata in ogni angolo ma non erano riusciti a trovare niente. Nemmeno la retata notturna nella torre, che adesso si ergeva macabra sopra le loro teste, aveva portato a qualcosa di consistente. Nel percorrere quella botola entrambi avevano sentito uno strano ronzio alle orecchie qualcosa che, all'improvviso, aveva tolto loro il respiro assieme alla capacità di rimanere lucidi.

Una sorta di viaggio spirituale…

 

La soffiata era arrivata per caso, una mattina di quella stessa settimana grigia ed afosa che non prometteva niente di buono, invece…

Padre Clavel aveva sentito il battente del portone della chiesa martellare nervosamente e, con buona pace dei suoi acciacchi, aveva guadagnato l'uscio stando bene attento a non disturbare con empietà il suo "datore di lavoro" -anche se, un "madonna santissima" proprio non era riuscito a trattenerlo.- Amen.

Aveva trovato sul sagrato un pacchetto avvolto in un panno scuro di buona fattura, aveva notato inizialmente. Aveva esitato un po’ prima di aprirlo, come se una sorta di ispirazione dall’alto gli consigliasse di condividere qual momento con chi amava. Aveva attaccato il somaro al carretto e, con una fretta non proprio usuale, si era diretto alla volta di Parigi, al ritrovo.

Un occhio alla strada, uno al pacchetto, era arrivato stressato per tanto impegno che, appena entrato, si era lasciato cadere sulla sedia sfinito, implorando per un sano bicchiere di vino.

A quell'ora c'erano quasi tutti; mancava solo Oscar, ma sarebbe arrivata presto con André.

"Sono in ritardo, non sarà successo qualcosa? E' già passata un'ora!" aveva notato Bernard, controllando nervosamente la pendola.

"Sta' calmo Bernard! Sono arrivati. "gli aveva risposto Alain che se ne stava con la schiena poggiata vicino la porta con l'espressione di chi la sa lunga.

"Ciao Alain!" Oscar, gli occhi brillanti ed un sorriso luminoso, era entrata in fretta andando a prendere posto.

"André, hai un succhiotto sul collo" aveva osservato Alain divertito.

"Si nota molto?" aveva domandato André un po’ imbarazzato, coprendosi il collo con la mano.

"Sto scherzando!"

"Deficiente!"

 

"Tre chiavi e la piantina dei sotterranei della torre, nessun biglietto o messaggio da parte del mittente".

"Michel, tu ne sai niente?" gli bisbigliò André, ma lui negò con un gesto della mano.

"Cosa avranno nascosto nei sotterranei ?" disse Oscar, mentre studiava attentamente la cartina.

"Questa è l'occasione giusta per scoprirlo giacché qualcuno ha deciso di darci una mano…" disse Alain determinato. "… Io e Michel andremo subito a perlustrare la zona".

"No, è troppo pericoloso di giorno."

"Io credo di no. Hai detto che si preparavano a demolirla e di sicuro ci saranno pochi uomini di guardia".

"Alain ha ragione", esordì Michel, " è meglio non perdere tempo. Daremo solo un'occhiata: niente cazzate, Oscar".

 

 

"Alain? Controlla di nuovo la mappa!" disse Michel poggiandosi contro una parete col fiato corto dalla paura.

 

"E' la direzione giusta… qualche metro e poi una porta!" Alain, con l'avambraccio sulla fronte si asciugava il sudore senza distogliere lo sguardo dalla cartina.

 

Per un momento non sembrò convinto nemmeno lui e quella paura di aver sbagliato tutto si radicava pressantemente al punto che desiderava sentire un rumore qualsiasi che lo riportasse alla realtà. Camminavano da circa mezz'ora e in quell'arco di tempo avevano ascoltato il suono dei calcinacci smossi dai passi pesanti senza badare quasi al fiato trattenuto nei polmoni, come se quell'aria contenesse una essenza che mai nessuno avrebbe dovuto afferrare.

Alain riconobbe quell'aria amara ma non disse niente.Sapeva di humus, sassi e vermi. Era ancora troppo vivo nella sua mente l'ultimo odore di Diane che si mescolava a quello di ciascuno degli anni trascorsi assieme. Accecante, come la luce delle braci che ardono ancora sotto la cenere, l'ultimo ricordo che le aveva lasciato. Non si sentiva più colpevole nei suoi confronti, ma terrorizzato sì, invecchiato di colpo e, alla stessa scortese velocità, invecchiato, restituito alla solitudine dei suoi vent'anni.

E, poi, era arrivata Juliette… Ma ora sentiva che quella missione suicida l'aveva cercata con la disperazione di chi vuole trovarsi davanti al punto di non ritorno. Per un po’ aveva riflettuto su quello che Juliette gli aveva scritto e, per un po’, aveva cominciato a credere che, forse, lei aveva ragione.

Non riuscire ad andare con nessun'altra donna, però…

Ripresero la marcia in un silenzio opprimente.

 

"E se fosse un'imboscata?" esordì Michel che si era fermato di colpo. Il colorito pallido, agitato.

"Ti fai venire 'sti dubbi proprio ora?"

"Non lo so… e che ho una fifa del cazzo qua sotto… mi sembra una fossa…"

"Dall'odore si direbbe di sì…dai, ci siamo quasi!"

"Aspetta, Alain! Io non lo so…"

"Cazzo, Michel! Certe volte mi fai rimpiangere Bernard!" disse Alain avanzando in direzione sua.

Lo prese per un braccio.

"Vuoi stare calmo?"

Michel lo spinse all'indietro e, indicando di fronte a sé, estrasse qualcosa dalle pieghe della giacca che brillava in modo indefinito nella luce fioca della torcia. Si passò una mano tra i capelli, fece un respiro profondo e si avvicinò alla porta che era lì, davanti a loro.

Era chiusa da due serrature e da una serie di assi di legno. Qualcuno, di recente, aveva tentato rozzamente di murarla, ed era evidente che nessuno aveva cercato di riaprirla.

Alain teneva d'occhio la mano di Michel, all'improvviso sentiva una strana sensazione d'angoscia, come se avesse dovuto ben guardarsi le spalle. Spesso Michel faceva gesti bruschi ed imprevedibili e scoprire che nascondeva un coltello a serramanico non lo aiutava a rilassarsi. Rifletté a lungo. Interminabili secondi scanditi dal suono del nulla, ed un crescendo di paura che gli bloccava gli arti. Per fortuna le chiavi le custodiva lui.

"Beh, ora la facciamola finita con questa storia e me ne torno in superficie…", ripeteva tra sé Alain "… da Juliette. Sì, andrò da Juliette".

"Hai una pistola?" chiese Michel con un'espressione allucinata.

"Certo che ce l' ho!" rispose Alain infastidito

"E che, devi chiedere il permesso per tirarla fuori?" disse, mentre grattava via quella specie di spalletta di protezione col coltello.

Cominciò a sferrare una serie di calci violenti contro le assi che barricavano la porta. Alain si riscosse da quello stato di paranoia; tutta quella situazione stava mettendo a dura prova i suoi nervi. No, Michel non l'avrebbe fottuto. Ma, certe volte, andava completamente fuori di testa, specialmente quando si mettevano in dubbio le sue sensazioni.

Posò la torcia, in modo che potesse costantemente tenerli illuminati, e cominciò ad aiutarlo.

Affaticati ed ansimanti, non attesero di riprendere fiato e, appena le serrature furono liberate, tentarono di aprirle.

Cercarono di guardare nell'oscurità.

Avevano un certo timore di illuminare il varco ed entrambi sentivano una certa apprensione che risaliva la spina dorsale come un ragno sul muro.  

Silenzio.

Una pausa di riflessione prima di guardare.

"Dammi la torcia" disse Alain.

La indirizzò all'interno della stanza. L'aria era densa e pesante. Mossero alcuni passi. Il loro peso faceva scricchiolare il pavimento instabile. C'erano alcuni cunicoli coperti da pietre da entrambi i lati dell'interminabile stanza. Si divisero, ciascuno per un lato. Alain prese a muovere una di quelle pietre. Riuscì a spostarne una, poi chiamò Michel, che si avvicinò per fargli luce. Ricavato spazio a sufficienza, vi infilò la torcia, giusto il tempo di portarsi una mano alla bocca e soffocare un urlo di terrore. All'improvviso, da quell'antro, esalò un odore terribile e, piano, cominciarono a venire giù i calcinacci del muro staccato. Si fecero indietro pressando i loro corpi sotto un archetto poco distante. Attesero che il muro crollasse del tutto e, con una lentezza irreale, volsero lo sguardo in direzione del buco appena aperto. Continuarono a smuovere pietre e terriccio, fino a quando non ebbero la visione completa di un corpo in avanzato stato di decomposizione. Senza dire una parola, legarono intorno alla bocca i loro fazzoletti. Il silenzio di uno infondeva coraggio all'altro. Era uno spettacolo brutale, diabolico. Michel sentiva il sangue pulsare nelle vene, una rabbia disumana, per se stesso, montargli dentro. Pensò a Valérie, a ciò che le sarebbe accaduto se quella notte non avesse deciso di aiutare lei, ed anche se stesso, a fuggire da quell'inferno. Pensò a tutte quelle persone che morivano, mentre lui tormentava la sua stupida vita sotto un cielo coperto di nebbia ad imbracciare un fucile, a guardare le spalle ai carnefici, mentre le voci di innocenti si perdevano soffocate sotto un manto di terra umida ed infeconda.

 

 

                                                                                       §

 

 

"Aspetta un bambino, Reynier… nostra figlia Oscar aspetta un bambino…" aveva detto con voce malinconica Madame de Jarjayes, andando a sedersi di fianco a suo marito sotto il portico ombreggiato, quella mattina di luglio.

"Il mondo sta crollando e lei decide che non rimarrà a guardare le macerie… Voi, invece, cosa avete deciso di fare?"

Il generale lasciò andare finalmente dalle labbra il fumo della pipa, seguendo con lo sguardo le spire avvolte su loro stesse.

L'aveva immaginato: sua moglie gliene stava solo dando conferma.

Cosa aveva deciso di fare?

Dall'ultima volta che avevano discusso, vendicarsi di lei, della sua ribellione. Poi, l'aveva fatta allontanare dal servizio sperando che tornasse a casa ad accusarlo e, a pretendere spiegazioni, che tornasse da lui a rivendicare il suo diritto di poter assolvere al suo ruolo, come le aveva insegnato e come aveva sempre voluto.

Ma, Oscar, questa volta, aveva disubbidito fino in fondo.

L'aveva seguita prendendo il coraggio di scoprire cose di lei che l'avrebbero annientato. Ed era distrutto.

Bella, non ricordava fosse tanto bella sua figlia, vestita dell'uniforme blu, un'espressione appagata sul volto ed un sorriso carico di mille promesse mentre vedeva arrivare André, vicino al portone di casa loro. L'aveva aiutata a prendere la sporta della spesa. Un bacio appena accennato sulle labbra, il braccio di lui che si posa gentile sulla spalla di sua figlia ed, insieme, varcare la soglia di quel palazzo che racchiudeva una vita in cui lui non avrebbe avuto nessun ruolo.

Era una scena bellissima ed ammetterlo faceva più male di un aculeo nel cuore.

Una vita semplice, incomprensibile per lui fino a quando non aveva visto la felicità negli occhi di sua figlia. Non c'era più traccia dello sguardo affilato, dell'espressione compunta. Era come se tutti i suoi spigoli fossero stati smussati per opera di un lavoro paziente ed attento e l'unico esperto in quel genere di pratica era André.

Si era scoperto a pensare che se André fosse stato un aristocratico, avrebbe fatto di tutto pur di vederlo sposare sua figlia. Lui aveva un modo particolare di guardarla e proteggerla, di esserle vicino e comprenderla, di rimproverarla e viziarla al tempo stesso.

Oscar era da amare e André lo sapeva fare per davvero.

A quel punto gli era parso che qualsiasi cosa avesse cercato di fare per avere indietro l'affetto di sua figlia, sarebbe stata inutile, perché Oscar era una donna, sarebbe diventata madre, e tutto quello che c'era stato in mezzo non aveva più alcuna importanza.

Troppo tardi ormai dirle "Vai, Oscar, vivi la vita che vuoi!", lei lo stava facendo da un pezzo.

"Lunga vita alla famiglia Jarjayes!" rispose il generale alzando al cielo il calice di vino rosso.

Allora, avrebbe ripagato sua figlia liberandosi della propria colpa. Non aveva più motivo di coprire il generale Bouillé, non ce n'era da tanto tempo. Aveva appoggiato la sua campagna, aveva acquistato armi per lui, in nome di un delirio chiamato aristocrazia. Ci credeva pure lui, tutt'ora, ma non a quel prezzo. Aveva gettato luce sulla faccenda per caso, una coincidenza spiacevole che l'aveva ridotto col cuore a pezzi e la coscienza in subbuglio.

Troppi innocenti di mezzo.

Reclutavano gente tra i disperati con la promessa di una ricompensa che avrebbe cambiato loro la vita. La missione era di piazzare ordigni nei quartieri popolari, attentare alla vita dei candidati del popolo alle prossime elezioni, seminare il panico e la paura.

 

Jarjayes eseguiva gli ordini di Bouillé senza discutere, eppure la richiesta di tutta quella polvere da sparo, in un periodo di pace, l'aveva insospettito. Aveva fatto qualche domanda discreta ed era stato liquidato con la medesima discrezione. Poi, erano cominciate le fughe di alcuni uomini molto potenti a Corte, ma non avevano suscitato il clamore dovuto e nemmeno i reali sembravano preoccuparsene.

Una mattina aveva ricevuto una lettera alquanto strana in cui si riferiva che il deposito di una certa somma di denaro era avvenuto senza problemi. Con la stessa lettera era andato a farsi ricevere da Bouillé.

Avevano conversato, come sempre, in apparente tranquillità; se non altro, Jarjayes aveva imparato a parare le stoccate precise e sistematiche del collega ed entrambi, in perfetta cortesia, si tenevano per le palle.

"Vostra figlia sta intralciando il nostro lavoro, Jarjayes!"

"Che intendete dire?"

Il generale Jarjayes aveva sostenuto il suo sguardo. Non aveva intenzione di recitare ancora una volta la parte del padre infelice per quella figlia sciagurata, e non voleva nemmeno esserlo. Dal canto suo Bouillé si era reso conto di aver dato voce ad un pensiero

"Vostra figlia è un'idealista, Jarjayes. Il suo mettersi apertamente dalla parte del popolo, ignorando gli obblighi che ha verso la sua casta, è oltraggioso!" Aveva cercato di riparare al solito modo.

Un tremito appena percettibile, nel generale. Si sentiva con le spalle al muro e, decisamente, non avrebbe davvero saputo come convincere Bouillé del contrario.

"Non vorrei trovarmi nella circostanza di dover prendere seri provvedimenti a suo carico. In questo clima così teso, potrebbe venirle meno finanche il favore di Sua Maestà la Regina"

Bouillé aveva un'espressione trionfante sul volto, sapeva di aver centrato il bersaglio: Jarjayes sicuramente avrebbe proposto da solo la soluzione per togliersi dalle difficoltà che gli avrebbe causato sua figlia e in un colpo solo si stava sbarazzando di entrambi.

"Non mi rimane altro da fare che chiedervi di allontanarla dal servizio. Come padre posso solo fare questo".

"E' un'idea sensata, Jarjayes, avete tutto il mio appoggio." Si era voltato in direzione dello scrittoio fissando un punto ben preciso. Era impallidito di colpo, come se avesse dimenticato di nascondere qualcosa di compromettente.

Jarjayes l'aveva notato ed aveva associato quell'improvviso pallore alla lettera che Bouillé stava leggendo quando era entrato, e che, subito,  aveva adagiato frettolosamente sullo scrittoio, avendo, però, cura di voltarla e lasciarla lì, come fosse un foglio senza particolare importanza, sebbene l'espressione tirata sul volto manifestasse il contrario.

Due colpi discreti alla porta dell'ufficio e un lacchè aveva richiesto a Bouillé di recarsi con urgenza da Sua Maestà.

Bouillé era scattato sull'attenti, manco fosse stato il Re a domandarglielo e, dopo essersi lisciati i baffi con attenzione, era uscito lanciando un'ultima occhiata alla lettera sullo scrittoio.

Reynier de Jarjayes, rimasto solo, aveva mosso qualche passo nella stanza tanto per ingannare l'attesa, fino a quando, senza controllo, le sue dita avevano sollevato la lettera. Non ci aveva messo molto a capire che l'unica cosa che gli rimaneva da fare era quella di sostituire la lettera che aveva ricevuto la stessa mattina a quella di Bouillé, adagiandola sul secretaire.***

 

"Lunga vita alla famiglia Jarjayes!" ripeté a voce più alta.

Madame si allontanò lasciandolo solo col suo delirio.

Andò a rifugiarsi nella stanza di Oscar e, prendendo tra le mani la sua spazzola per i capelli, se l'avvicinò al petto e la strinse forte.

 

"Madre, sono contenta di rivedervi…" le aveva detto Oscar l'ultima mattina che era stata in visita a Corte. Avevano passeggiato per i giardini e, Madame, non aveva resistito all'impulso di prendere sotto braccio sua figlia. Si erano sedute su una panca di marmo all'ombra di un salice. Ripensava al sorriso che Oscar le aveva rivolto, quell'espressione di allegria spontanea che non le aveva mai visto. Era diversa anche nel modo di camminare e poi, quella mollezza nelle braccia come se si fosse sbarazzata di un peso enorme. Non era dovuta andare lontano per cercare la risposta e confermarne la semplicità l’aveva fatta sentire contenta.

Guardavano lo stesso punto ammirando le fontane in un tripudio d'acqua.

"Come stai?" le aveva chiesto scostandole appena una ciocca di capelli adagiata sulla spalla.

"Bene, vi ringrazio"

"Hai conferito con la Regina?"

"Sì".

"Mi sembri dispiaciuta…"

"Un incidente di percorso…"abbassò lo sguardo per un istante.

Madame sorrise e richiuse il ventaglio.

"E non ti fermerai nemmeno stavolta, Oscar?"

"No…", rispose voltandosi lentamente verso sua madre "… il mio posto non è più qui."

"Abbi cura di te, Oscar…"

"Fatelo anche Voi, madre."

 

 

                                                                                         §§§

 

"Ma dove sei stato? Chi ti ha conciato così?" disse agitata Juliette mentre lo faceva entrare in casa.

 

Alain, un braccio ferito, il volto coperto di fuliggine, la guardava in silenzio. Allora lei comprese e non fece più domande, mentre lo aiutava a sfilare la camicia.

 

Una notte mite.

Ad Alain sembrava impossibile essere riuscito a trascinarsi fuori da quel sotterraneo e, poco a poco, si allentava il nodo che lo opprimeva. Guardò il volto di Juliette, rischiarato dalla penombra dolce della stanza, chino sulla sua spalla mentre gli medicava le ferite. Le cinse la vita con un braccio e, portandola a sé, poggiò il viso sul suo seno morbido.**** Avvertì il battito di lei sul suo corpo, il profumo delicato della sua pelle.

Le sfiorò piano le labbra e, quando lei si ritrasse, le trattenne il viso tra le mani.

Continuò a baciarla perché sapeva che lo desiderava anche lei

"Ti amo…" le disse sulle labbra."… non mi allontanare da te, non farlo più."

Lo guardò e capì che in tutti quei giorni in cui erano stati lontani, aveva desiderato ciò che ora stava accadendo.

Si sollevò portandola a sé. Posò le mani sulle scapole e piano fece scivolare le spalline della camicia da notte. Le sciolse i capelli raccolti in una coda alta e sfiorò, lentamente, le ciocche più lunghe adagiate sul seno. Si inginocchiò davanti a lei e poggiò deciso il viso sul ventre.

"Fammi rimanere qui… è questo il mio posto".

Juliette, la stessa passione, lo stesso amore che temeva di veder bruciare in quella notte desiderandolo con tutta se stessa, lo attrasse a sé e cominciò a rassicurarlo con il calore del suo corpo.

"Sì, rimani… qui" gli rispose mentre, lentamente, lo sentiva entrare in lei.

Era sicuro di non aver mai amato nessuna donna così, con quell'intensità. Lui, dentro di lei, la guardava fiducioso come se quello fosse il primo istante della sua vita. Sentiva che solo lei avrebbe potuto mettere ordine nella sua esistenza, che solo lei avrebbe potuto capirlo fino in fondo e proteggerlo.

 

Era sicuro di non essere mai stato se stesso: si era occupato della sua famiglia quando era solo un ragazzino, aveva rinunciato ai suoi sogni, messo da parte le ambizioni e si era perso per strada, Alain. Dopo la morte di sua madre, aveva deciso di lasciare Parigi per sempre.

Era stato André a convincerlo a restare.

"… hai ancora qualcosa da fare qui, Alain. Non mollare il colpo ora!" Era un ottimo amico André.

 

E Juliette, anche lei, aveva capito di aver bisogno di Alain. Desiderava solo averlo vicino e far durare quel sentimento che, adesso, li teneva uniti, stretti, l'uno dentro l'altra.

"Alain…"

"Sì…"

"Devi tornare dai tuoi amici… saranno preoccupati."

"Vieni con me?"

"La prossima volta…"

 

 

* Carlo Broschi, conosciuto come “Farinelli”, 1705-1782

 

** (pura invenzione narrativa ^_-)

 

*** Poco originale ma non sono una maga della cospirazione e mi sono ispirata ai ricordi di una lettura che feci quando ero ragazzina, "La lettera rubata" di E.A. Poe -.-

 

**** Juliette me la immagino come Elektra di “Daredevil”, versione fumetto. Penso che sia il tipo giusto per quel gran pezzo di figliolo che è Alain ^_-

 

pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2004

Mail to mariassunta.paolillo@virgilio.it

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